AI COMUNISTI DI POTENZA
Cari compagni e care compagne,
Luciana Coletta mi comunica che state inaugurando la vostra Casa del Popolo. Perché essere comunisti oggi? E’ questa una domanda che vi rivolgeranno spesso in questi giorni, così come è accaduto, sempre più di frequente, negli ultimi anni, sovente con fare provocatorio e arrogante. Vi ripeteranno la solita formuletta scolastica del comunismo come storia di crimini e la solita equiparazione di comunismo e fascismo. Guarda caso, però, quelli che ripropongono ossessivamente questa equiparazione finiscono per scegliere come modello per sé il fascismo.
Rispondete a tutti costoro che i comunisti italiani sono stati i più agguerriti nemici del regime fascista, quelli che hanno pagato di più. Questo riconoscimento venne loro dallo stesso regime, che li condannò, attraverso il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, a più di 20.000 anni di carcere. Sandro Pertini ricorda che i comunisti gridavano, al momento della lettura della sentenza, “viva il comunismo!”. Solo lui gridò “viva il socialismo!”, subì una condanna pesante, ma di gran lunga inferiore a quella comminata ai dirigenti del Partito Comunista: in prima fila, Gramsci e Terracini. I comunisti italiani hanno poi dato il più alto tributo di sangue alla Resistenza e alla Liberazione.
Il popolo sovietico ha pagato con più di venti milioni di morti la propria opposizione in armi al nazi-fascismo. Quando Mosca fu cinta d’assedio, Stalin non scappò via per salvare la pelle. Celebrò normalmente l’anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, il 7 novembre 1941, sulla Piazza Rossa, è gridò: “Morte al nemico invasore!”. E fu morte. Non fuggirono i resistenti di Leningrado e di Stalingrado. All’ultimo momento arrivarono le truppe siberiane del generale Zhukov e combatterono e vinsero – come ricorda lo scrittore Mario Rigoni Stern – a 60° sotto zero.
I soliti provocatori vi risponderanno che è acqua passata e che il comunismo ormai è morto e sepolto. E’ consolatorio vantarsi di vecchie glorie! Costoro fingono di dimenticare che il capitalismo sta attraversando una crisi sistemica, che rischia di travolgerlo. Gli economisti borghesi non sanno come venirne a capo. Alcuni di loro, in preda al panico, hanno cercato di richiamarsi alle categorie interpretative del marxismo. Il comunismo è l’unico ad avere una base teorica e un progetto di società in grado di sostituire il capitalismo. Gli altri finti oppositori non sono altro che dei “ciarlatani”, dei “guru”, che ricorrono a tutti i colori dell’arcobaleno, dal viola all’arancione, per farci credere che il sistema capitalistico è “riformabile”, con operazioni di ingegneria costituzionale, con la “corretta applicazione” dei principi della “giustizia” borghese, con l’uso sapiente delle categorie dell’ “economia politica”, con la separazione “chirurgica” degli aspetti “negativi” e degli aspetti “positivi” dello stesso sistema. Ma Marx ha contrapposto all’ “economia politica”, quella borghese, presentata dai suoi fautori come qualcosa di oggettivo, la “critica dell’economia politica”, che, poggiando su basi scientifiche, contraddice la prima e assicura la realizzazione di una società veramente a misura d’uomo, fondata sull’uguaglianza effettiva tra i cittadini: la società comunista.
Vi obietteranno ancora che siete, anzi siamo, pochi per poter dare attuazione a un progetto così ambizioso. Ezio Taddei, scrittore autodidatta, inizialmente anarchico e poi comunista, che scontò, prima e durante il fascismo, più di 15 anni, tra carcere e confino, ricorda in un suo romanzo, La fabbrica parla, come i comunisti sono cresciuti, partendo da poche unità, durante il fascismo, nella società e nelle prigioni. Racconta come studiassero in carcere, come facessero progetti anch’essi ambiziosi. C’era un compagno – ricorda ancora Taddei – che discuteva come se dovesse uscire da lì a qualche ora ed andare a presiedere una riunione a Milano. E, invece, doveva scontare tanti anni di reclusione. I comunisti si facevano sempre più arditi, nella loro lotta clandestina contro il fascismo, nelle loro azioni di sabotaggio nelle grandi città industriali. Una mattina tutti i fili del tram comparvero tappezzati di bandierine rosse.
Nel romanzo Rotaia, precisamente nella parte finale, Taddei racconta dell’arresto del protagonista, Beppino Colantuoni. La madre, divenuta cieca per la disperazione, va a trovarlo in carcere. E’ il 7 novembre, anniversario della Rivoluzione d’Ottobre. Ad un certo punto, dal sesto braccio, quello dei detenuti politici, si leva un urlo: “Viva la Rivoluzione bolscevica! Viva il Comunismo!”. Questo urlo solitario si trasforma subito in un canto corale di Bandiera Rossa, innalzato da centinaia di voci.
Con questo urlo e con questo canto di sfida al capitalismo, al padronato, voglio concludere la mia lettera a voi, compagni di Potenza. Come il partito di Gramsci, dobbiamo crescere lentamente, costituendo piccoli gruppi sul territorio, creando sedi ed occasioni di dibattito e di riunione, come state facendo voi in questi mesi e in queste ore, discutendo con i lavoratori, andandoli a cercare anche nelle fabbriche, con i precari, con i giovani disoccupati, con la parte più debole della società. Costruendo, insomma, a partire dalle fondamenta, un solido Partito Comunista, che si opponga a tutti i partiti borghesi, del centro-destra e del centro-sinistra, al servizio dei vari gruppi padronali.
A voi, compagne, specialmente, voglio ricordare un episodio. Nell’immediato secondo dopoguerra, a Letojanni, vicino Taormina, una ragazzina, che andava con la brocca di terracotta ad attingere acqua ad una fontana, vestita di rosso, venne molestata da alcuni “picciotti”, che la schernivano: “Sei pazza! Se ti vesti di rosso, tutti pensano che sei comunista e nessuno ti sposa”. La ragazzina si girò di scatto, con le mani ai fianchi, e urlò in faccia a quei giovani molestatori: “Io voglio un fidanzato comunista, come mio padre e mio fratello. Non mi interessano i ruffiani e i leccapiedi come voi!”. Rispondete così, care compagne di Potenza, ai reggicoda, ai votati all’accattonaggio politico, che rideranno di voi e della vostra “illusione” di far rinascere il comunismo. Rispondete così anche ai nuovi provocatori, che un tempo si definivano comunisti ed ora sono saltati, per opportunismo, sul carro del capitalismo provvisoriamente vincitore. Chiamateli col loro nome: “Traditori! Traditori! Traditori!”.
Quando la Grecia fu invasa dai persiani, furono mandati a difenderla 300 soldati spartani, guidati da Leonida. Resistettero a lungo nella strettoia delle Termopili a migliaia di nemici, alle truppe speciali dell’esercito persiano, gli “invincibili”. Ma un traditore rivelò al nemico un passaggio segreto, i soldati spartani vennero presi alle spalle e uccisi tutti. Erodoto rivela il nome di questo traditore: Efialte. Non si sa perché tradì la sua gente: per soldi? Per invidia? Quasi nessuno si ricorda di lui e del suo nome. Tutti noi, invece, ricordiamo il sacrificio dei 300 e di Leonida, tramandato nei secoli e ancora scolpito in una lapide, alle Termopili.
Così nessuno ricorderà i nomi degli odierni traditori del comunismo. Neanche noi vogliamo sapere perché hanno tradito, se sono stati pagati o meno. Victor Hugo scrive che c’è gente che pagherebbe per vendersi. Sappiamo solo di essere uomini e donne coerenti e che lotteremo fino all’ultimo respiro per difendere i nostri ideali comunisti. Non saremo dimenticati e la storia ci darà ragione.
Cari compagni e care compagne, un abbraccio fraterno a tutti voi.
Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), 3 settembre 2011.
Antonio Catalfamo