Referendum: Hanno vinto tutti, tranne i lavoratori

Referendum: Hanno vinto tutti, tranne i lavoratori

HANNO VINTO TUTTI (TRANNE I LAVORATORI)
Il punto del Segretario Generale Alberto Lombardo

 

«… vi sono delle battaglie che occorre combattere anche se si sa di perdere immediatamente. Esse servono per il domani. In ogni caso ritengo che si perda di più ogni volta che si cedono posizioni importanti senza dar battaglia.» (Pietro Secchia)

 

A urne chiuse e a spoglio completato si può abbozzare un bilancio dell’esito del referendum.

Tutti proclamano di avere vinto, almeno di non avere perso. A meno di conti funambolici sul numero dei votanti che assegnerebbero al “campo largo” tutti quelli che sono andati a votare (compreso chi ha votato NO), il risultato politico è certamente negativo per la CGIL e per la Segreteria Schlein.

Esaminiamo però se chi ha intrapreso la battaglia poteva collocarsi in una posizione migliore anche dopo una sconfitta, oppure no. Dipende da cosa intendiamo per “vittoria” e “sconfitta”. Si era partiti con la furbata di aggregare i cinque quesiti a quello sull’autonomia differenziata, che però la Corte Costituzionale aveva cassato, e quindi si è rimasti senza il volano che si sperava per raggiungere il quorum, confidando nelle crepe della destra. Invece hanno avuto più peso le crepe a sinistra, come l’associazione del quinto referendum che ha ricevuto una quantità di NO imbarazzante.

Ma fatta la tara dell’insipienza tattica dei proponenti, qual era la strategia?

Si ricorderà anzitutto il referendum sulla “scala mobile” svoltosi esattamente 40 anni fa che, anche se in presenza di un sindacato ancora non completamente ammaestrato dai poteri forti e con una base discretamente combattiva e la esistenza di un PCI organizzato sul territorio e ancora parzialmente radicato tra i lavoratori, non ha impedito la storica sconfitta del movimento operaio in una fase di declino iniziata con la “marcia dei quarantamila” di Torino. Gli estensori dei referendum, Cgil in testa, forse immaginavano oggi di poter raggiungere un risultato positivo, compresa quindi l’attribuzione dei rimborsi elettorali (2,5 mln), senza per questo tenere conto la passivizzazione di un elettorato sempre più demotivato nel riconoscere le consultazioni elettorali come qualificanti; sempre più lontano dalla politica attiva. Ma se ciò continua ad avvenire è proprio grazie alla classe politica e sindacale di questo Paese, sempre più piegata ai poteri forti e finanziari che condizionano la politica. Nel metodo infatti, non devono essere trascurate le modalità di un referendum che non è stato costruito con i lavoratori sui luoghi di lavoro ma è il frutto di una alchimia da laboratorio proprio con il PD. Lo stesso partito che ha formulato la legge (Job Act), che la Cgil diceva di voler abrogare.

L’unico referendum che ha avuto successo negli ultimi decenni è stato quello sull’acqua pubblica e contro il nucleare che ha beneficiato dell’evento di Chernobyl che ha colpito l’immaginazione pubblica e un tema trasversale a cui diverse sensibilità poteva mobilitare. In cui votano tutti quelli che sono interessati, ossia tutti i cittadini. Non un tema sul lavoro dipendente che coinvolge l’interesse di una parte amplissima, ma pur sempre minoritaria. Il referendum non è mai stato uno strumento utile per le norme sul lavoro. Infatti l’elettorato attivo è composto anche da categorie sociali che non riguardano il lavoro dipendente (imprenditori, pensionati, professionisti, ecc.). E quindi è proprio lo strumento che era strategicamente sbagliato. 40 anni fa, e ancor più oggi.

Ma c’è un’aggravante. Il referendum dell’8 e 9 giugno non si ha sviluppato un dibattito vasto nemmeno sui territori e nemmeno è cresciuto nell’intera nazione aumentando così una maggiore coscienza tra le classi subalterne. Qualche protesta per le apparizioni in televisione (utili a chi ci va e non a quello che si dice). Qualche comizio del tutto inferiore alla forza che, almeno sulla carta, la CGIL vanta.

Tralasciamo alcuni commenti a posteriori veramente disgustosi che rivelano solo l’ottusità e la protervia dei perdenti. Se si chiede rispetto e attenzione per chi è andato a votare, si dovrebbe con altrettanta “civiltà”, rispettare anche le scelte diverse.

Il primo risultato pratico, e prevedibile ma non con questa forza devastante data dall’entità del flop, è che il Governo può legittimamente vantarsi di avere vinto e il primo risultato parlamentare è quello che il Gruppo di Forza Italia al Senato ha presentato la proposta di modifica per l’aumento del numero di sottoscrizioni (da 500.000 a 1.000.000) e del numero di consigli regionali (da 5 a 10) per la richiesta di referendum abrogativo. Alla faccia dell’allargamento della democrazia.

Non è certo con queste pratiche che si potrà recuperare l’attenzione dei lavoratori, ai quali dovrebbe essere riservata una attiva partecipazione e un protagonismo che abbiamo visto in questo Paese fino a qualche decennio fa ma che sarebbe opportuno recuperare insieme alla “cassetta degli attrezzi” per riattivare la coscienza marxista e di classe. Certamente sarebbe utile confrontarsi costantemente con i lavoratori e l’intera classe lavoratrice sui problemi materiali della stessa (bassi salari; sanità, scuola e formazione, trasporti e servizi sociali privata sempre più alle masse lavoratrici e cedute ai poteri forti privati e finanziari).

La Cgil si prepara a saltare sul carro del PD alle prossime elezioni politiche, magari candidando il proprio segretario al parlamento nazionale o in futuro, presso il parlamento UE? Non si accontenta di illudere i lavoratori ma anzi si prepara ad un nuovo assalto ai TFR per dirottarli ai fondi pensione contrattuali (Cometa, Fonchim, Fonte, ecc.), nei cui consigli di amministrazione ha piazzato i propri dirigenti. Una massa enorme calcolata in circa 440 mld che potrebbero essere sottratti ai lavoratori di questo paese in breve tempo.

Al tradimento della classe operaia e lavoratrice, al tradimento delle masse popolari bisogna rispondere con un’azione incisiva che tolga dalla passivizzazione in cui è stata gettata l’intera classe lavoratrice e solo il rinnovato protagonismo dei lavoratori può determinare un adeguato cambiamento.

Rileggendo la frase di Pietro Secchia, possiamo dire:

Non è la battaglia che ci spaventa. Anzi! Sono certi i comandanti che ci fanno paura.

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