Su Berlinguer, riprendiamo un articolo di Marco Rizzo e una tesi del nostro congresso.

Su Berlinguer, riprendiamo un articolo di Marco Rizzo e una tesi del nostro congresso.

L’VIII Congresso del PCI sancì anche la definitiva adozione del concetto di ‘via nazionale al socialismo’. Al di là delle originali intenzioni di Togliatti, vere o presunte, questa non divenne una creativa tattica per raggiungere il nobile scopo tenendo nella dovuta considerazione le particolari condizioni e caratteristiche dell’Italia, ma si trasformò in una teoria che negava la validità delle leggi generali dello sviluppo capitalistico, economico, sociale e politico-statuale, che agiscono in modo sostanzialmente uguale in tutti i paesi, indipendentemente dalle loro peculiarità storiche e culturali, in nome di una indimostrata prevalenza del particolare sul generale. Il suo naturale evolversi fu un continuo e progressivo allontanamento dai principi scientifici del marxismo-leninismo, fino ad approdare alle aberrazioni, teoriche e pratiche, dell’eurocomunismo.

Queste considerazioni ci consentono di comprendere l’ultima parte della storia del PCI, da Berlinguer alla Bolognina. Sia chiaro che quanto affermiamo lo facciamo col massimo rispetto per tutti quei compagni che in quel periodo hanno dato gli anni migliori della loro vita alla militanza e che anche oggi possono dare un aiuto formidabile alla nostra difficilissima opera.

Fatta salva la statura morale di Berlinguer, assolutamente imparagonabile alle miserie dei politici attuali, occorre riconoscere che il livello della cultura politica di tutti i protagonisti di quel periodo era incommensurabile rispetto agli odierni peones che infestano le istituzioni. Vogliamo paragonare la pochezza dei Berlusconi, dei Grillo, dei Renzi, dei Bersani di oggi con la statura e la capacità dei Nenni, dei Moro, dei Fanfani, persino degli Andreotti e dei Craxi di ieri? Personalità discutibili, avversari e nemici, ma tutti politici veri, non inetti corifei di un teatrino che ormai disgusta tutti.

La politica dei quadri, è rivelatrice delle linee politiche che si vogliono imprimere al partito e della sua composizione di classe; Berlinguer promosse, come eredi del gruppo dirigente allora in carica, gli Occhetto, i D’Alema, i Veltroni, i Fassino, i Bersani, ecc., così come nel successivo tentativo rifondativo furono scelti i Garavini, i Bertinotti, i Giordano, i Diliberto ed i Ferrero. In entrambi i casi, anziché quadri proletari, furono scelti professionisti in carriera della politica o del sindacalismo post-EUR.

L’approfondimento delle note potrà darci decisamente ragione nell’affermare che, se Togliatti mantenne almeno un legame, forse più formale che sostanziale, con il marxismo-leninismo e riconobbe sempre il grande contributo dell’Unione Sovietica alla causa della liberazione del lavoro e dei popoli, Berlinguer abbandonò decisamente qualsiasi riferimento ad esso come teoria rivoluzionaria. Berlinguer acconsentì alla modifica dello Statuto del partito, eliminando i riferimenti all’ideologia marxista-leninista per affermarne la “laicità”.

Ciò stava a significare che il partito rinunciava ad avere una propria e definita visione del mondo, aprendosi a quell’eclettismo ideologico che lo renderà privo di autonomia e preda della cultura dominante. Una scelta certamente provocata dall’affanno di dare sempre nuove e maggiori garanzie di “affidabilità” al nemico di classe e agli avversari politici che ne erano espressione, dimenticando che il potere non si elemosina, ma si conquista e che entrare al governo non significa prendere il potere. Era il tentativo di dimostrare che il PCI non doveva più spaventare la classe dominante, in quanto, a parte le “mani pulite”, era come tutti gli altri partiti, avendo finalmente reciso ogni cordone ombelicale con la teoria e gli obiettivi rivoluzionari, tutt’al più un buono e onesto amministratore e gestore di un capitalismo dal volto umano. Questo snaturamento si rese possibile anche grazie alla decisione, presa al XIII Congresso del 1972, di accorpare le cellule di lavoro alle sezioni territoriali, privandole dell’autonomo potere di delega ai successivi congressi. In questo modo, l’elemento proletario, veniva stemperato su un territorio dove prevaleva l’elemento piccolo- borghese, che otteneva la possibilità di esprimere un numero maggiore di delegati al congresso. La componente piccolo-borghese acquisì in tal modo un peso preponderante nelle maggioranze congressuali e, conseguentemente, nelle scelte tattiche e strategiche del partito. Fu proprio quel congresso a eleggere Berlinguer formalmente vice-segretario, di fatto segretario, a causa della malattia che invalidava Luigi Longo.

Nel pensiero di Berlinguer spiccano, tra tutti, alcuni punti cardinali: il compromesso storico, la democrazia come valore universale, l’eurocomunismo, l’accettazione dell’ombrello della Nato, l’adesione alla UE ed infine le considerazioni sull’esaurimento della spinta propulsiva della Rivoluzione Sovietica.

Le riflessioni di Berlinguer sull’austerità e sulla questione morale non hanno la stessa forza, né possono in qualche modo controbilanciarne l’effetto devastante. Del resto, se si accetta alla fine il capitalismo come orizzonte, non ci si può stupire che esistano clientele e corruzione: se unico valore è il profitto, queste ne sono le naturali conseguenze. Obiettivamente non si può negare che Berlinguer si sia anche trovato ‘schiacciato’ da un corpo politico del partito in cui i cosidetti ‘miglioristi’ (da Amendola a Cervetti) avevano in mano i gangli vitali, anche economici (il mondo della cooperazione ad es.) del Partito, da qui l’aggancio fortemente voluto dall’attuale Presidente Napolitano con Craxi e col sistema di potere che rappresentava e la stessa ‘solitaria’ presenza di Berlinguer ai cancelli della Fiat nel 1980 e nella giusta lotta in difesa della “scala mobile”. Sono episodi significativi che risultano però essere ininfluenti su un quadro dirigente ed un corpo largo di partito in cui la “mutazione genetica” era già avvenuta.

Partiamo dal compromesso storico, cioè da tre scritti di Berlinguer, pubblicati su Rinascita tra il 28 settembre ed il 12 ottobre 1973 all’indomani della eroica morte del Presidente del Cile Salvador Allende per mano dei golpisti di Pinochet prezzolati dagli Usa. Invece di constatare semplicemente che la democrazia borghese esiste solo se la borghesia è saldamente al potere, ma se questo vacilla, – come nel Cile di Allende – e il popolo riesce in qualche modo ad emanciparsi per via istituzionale e democratica, allora la borghesia rinnega le sue stesse regole formali, passando a metodi violenti e terroristici, Berlinguer scrive: “noi abbiamo sempre pensato – e oggi l’esperienza cilena ci rafforza in questa persuasione – che l’unità dei partiti dei lavoratori e delle forze di sinistra non è condizione sufficiente per garantire la difesa ed il progresso della democrazia…” A parte il leitmotiv della “difesa della democrazia”, che non spiega mai di quale democrazia si stia parlando, prescindendo dal suo carattere di classe, Berlinguer confonde le intese politiche con le alleanze sociali tra la classe operaia e gli strati popolari di piccola borghesia, stravolgendo il pensiero di Gramsci. Gramsci sottolineava come il motore della rivoluzione proletaria in Italia dovesse essere un nuovo blocco sociale, egemonizzato dalla classe operaia, che raggruppasse il proletariato e anche elementi di piccola borghesia, suoi alleati. Il compromesso storico di Berlinguer, invece, non è un’alleanza sociale della classe operaia, antagonista al blocco sociale della borghesia, ma un’alleanza politica tra i maggiori partiti in quel momento, il PCI, il PSI e la DC, quest’ultima, per altro, espressione politica della grande borghesia, privata e di stato.

L’analisi di Berlinguer sul golpe in Cile del 1973 non ha nulla a che vedere col marxismo-leninismo, anzi perviene a conclusioni diametralmente opposte. Da un punto di vista leninista, l’errore di Allende è consistito proprio nel non avere neppure cercato di “spezzare la macchina dello stato borghese”, ma di averla accettata, confidando in una maggioranza parlamentare e nella lealtà dei vertici dell’apparato statale. Sarebbe stato necessario sviluppare forti movimenti di massa a sostegno del nuovo governo, creare una milizia operaia armata, cambiare i meccanismi istituzionali, passando a organi eletti non su base delle circoscrizioni elettorali territoriali, ma dei luoghi di lavoro, sospendere l’attività dei partiti che non si riconoscevano nel programma del nuovo governo, decapitare i vertici e modificare le strutture dell’esercito, della polizia, dei servizi di sicurezza, dei ministeri economici, con la massiccia introduzione di fidati elementi proletari. Sarebbe stato necessario, insomma, instaurare la dittatura proletaria. Allende non lo fece e il popolo cileno pagò a caro prezzo questo errore. Berlinguer, come sappiamo, ignorò queste considerazioni.

L’eurocomunismo, come teoria e prassi compiutamente revisioniste e opportuniste, origina dall’incontro di Bruxelles del 26 gennaio 1974 tra Berlinguer e i revisionisti spagnolo e francese, Santiago Carrillo e Georges Marchais, segretari dei rispettivi Partiti Comunisti che sposarono le tesi sul valore della democrazia, da Berlinguer così formulate: …”questa larga convergenza di opinioni riguarda anzitutto il fondamentale problema del rapporto tra democrazia e socialismo come sviluppo coerente ed attuazione piena della democrazia. Essa comprende il riconoscimento del valore delle libertà personali e della loro garanzia, i principi di laicità dello Stato e della sua articolazione democratica, della pluralità dei partiti, dell’autonomia del sindacato, delle libertà religiose e di culto, della libertà di ricerca e delle attività culturali, artistiche e scientifiche…” Il nome stesso, termine coniato dai giornalisti, ma subito fatto proprio dai revisionisti, marcava già di per sé un netto distacco, addirittura una forte contrapposizione alle esperienze di socialismo storicamente realizzate. Il passo citato evidenzia con chiarezza come Berlinguer avesse fatto proprie categorie tipiche del pensiero borghese, assolutizzandole al di fuori e al di là di qualsiasi contesto storico e sostanza di classe. La visione del socialismo che ne scaturisce per specularità è quella di una cupa tirannide dove questi nobili principi sarebbero negati. Una rappresentazione falsa e del tutto subalterna alla propaganda borghese.

Resta il fatto che le teorie di Berlinguer hanno prodotto il disarmo teorico ed organizzativo di ogni resistenza operaia e popolare in Italia e spianato la strada alle forze più retrive del capitalismo monopolistico, che stanno dissanguando l’Italia e il suo popolo.

L’intervista a Giampaolo Pansa (proprio lui!) sul Corriere della Sera del 15 giugno 1976 sancisce l’accettazione definitiva dell’Occidente capitalistico e della sua micidiale alleanza militare, la NATO, portando a compimento la rottura con il campo socialista che, anche se infettato dal germe del revisionismo khruscioviano, rimaneva pur sempre il più formidabile baluardo di contenimento dell’imperialismo. «Pansa: “…insomma, il Patto Atlantico può esser anche uno scudo utile per costruire il socialismo nella libertà…” Berlinguer: “Io voglio che l’Italia non esca dal Patto Atlantico anche per questo, e non solo perché la nostra uscita sconvolgerebbe l’equilibrio internazionale. Mi sento più sicuro stando di qua….”».

Ed infine, sempre su questo filone, c’è la famosa frase con cui, nel 1981, viene definitivamente reciso il “cordone ombelicale” anche ideale, con la storia del movimento operaio e comunista:“…si è esaurita la spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre…”.

Assolutamente rilevante è poi la scelta strategica con cui Berlinguer “sposa” il processo di unità europea e capitalistica mentre esistono ancora l’URSS ed il campo socialista. Nella famosa intervista con Eugenio Scalfari, uno dei distruttori del PCI, sul giornale La Repubblica del 2 agosto 1978: «”…Scalfari: “Il 1979 sarà l’anno dell’Europa. E lei ha detto nell’ultima riunione del Comitato Centrale che il PCI ha fatto una scelta europea definitiva. Lo conferma?”. Berlinguer: “Lo confermo. Sappiamo che il processo d’integrazione europea viene condotto, almeno per ora, prevalentemente da forze e da interessi ancora profondamente legati a strutture capitalistiche che noi vogliamo trasformare. Sappiamo che l’integrazione sopranazionale, condotta e guidata da quelle forze, pone vincoli al processo di trasformazione nazionale… Ma noi riteniamo che comunque bisogna spingere verso l’Europa e la sua unità e che la sfida che questo obiettivo comporta vada accettata, portando la lotta di classe, democratica e rinnovatrice, a livello europeo e a coscienza europea…”».

Una rapida considerazione del pauroso peggioramento, sotto tutti gli aspetti, della condizione dei lavoratori e dello stesso ceto medio in conseguenza della dittatura dell’Unione Europea può certo darci la disastrosa portata degli errori teorici e delle deviazioni pratiche di questo segretario del PCI.

Infine, alcune considerazioni sulla Costituzione italiana, che poteva essere considerata, non a torto, la più avanzata dell’Occidente capitalistico, frutto appunto dei rapporti di forza e della grande, ma non risolutiva, influenza dei comunisti nell’immediato dopoguerra. Mentre le costituzioni sovietiche succedutesi negli anni erano di tipo statico, cioè sancivano, in modo quasi fotografico, l’ordinamento statuale realizzato fino a quel momento e il livello dei diritti già realmente acquisiti, al di sotto del quale non si poteva scendere, ma a partire dal quale si doveva progredire, la costituzione italiana fu concepita come programmatica. Ordinamento e diritti, lungi dall’essere acquisiti, costituivano l’obiettivo programmatico a cui lo Stato avrebbe dovuto tendere. Nonostante la rigidità della procedura di modifica, è proprio questa la sua più grande debolezza: per vanificarla è sufficiente non attuarne gli obiettivi.

Inoltre, le modifiche, apportate negli ultimi vent’anni alla sua parte attuativa ne hanno di fatto paralizzato quella programmatica. Disattesa, quindi, stravolta ripetutamente, è di fatto ormai sostituita da una ‘costituzione materiale’ che certifica i rapporti di forza a favore del capitale. Oggi, con l’inserimento del ‘pareggio di bilancio’ voluto dalla BCE e dalla UE, viene definitivamente violentata. “La stalla è aperta da tempo ed i buoi sono scappati”. Non è un caso che, proprio in questo contesto, in quella che si autodefinisce sinistra, si sentano flebili e contraddittorie voci a sua difesa. Tra i suoi attuali difensori notiamo personaggi come Rodotà, il primo presidente del PDS di Occhetto, Giulietti ed altri ancora che nel passato hanno fatto a gara nel mettere sul banco degli imputati le posizioni ideologiche, politiche e rivendicative più avanzate del movimento operaio. Della compagnia fa parte anche il contraddittorio Landini che solo poche settimane fa siglava, insieme alla Camusso e alla CGIL, il più vergognoso e anticostituzionale protocollo d’intesa con Confindustria per stroncare il sindacalismo di base e oggi firma a favore della difesa della Carta costituzionale… Se, da un lato, i comunisti devono essere in prima fila per evitarne ulteriori modifiche peggiorative e restrittive, è fuori da ogni ragionevole dubbio che la Costituzione oggi vigente non è più la Costituzione del 1948, frutto dell’unità antifascista e della Resistenza. Soprattutto dopo l’inserimento dell’obbligo di pareggio del bilancio, che avrà incalcolabili conseguenze negative sul piano sociale.

Un periodo di soli settant’anni separa l’oggi da quando, grazie alla solida organizzazione del PCI clandestino, si formarono le prime ‘bande’ partigiane che si batterono contro il nazi-fascismo. Oggi, quegli uomini si rivolterebbero nelle tombe se scoprissero quale immonda torsione è stata fatta ai principi che stavano alla base del loro sacrificio. E’ anche per questo che, con immensa modestia ma con ferma convinzione, vogliamo riprendere il loro cammino e ricostruire il soggetto rivoluzionario, il Partito Comunista, evitando tanto le deviazioni parlamentariste, quanto l’errore di una scolastica ortodossia slegata dai processi reali della società.

Queste note non esauriscono certamente il complesso problema dell’analisi della storia, della mutazione degenerativa e della scomparsa del più forte Partito Comunista dell’Europa Occidentale, ma devono servire come prima traccia per una ulteriore, imprescindibile elaborazione analitica collettiva da parte di tutto il partito che stiamo costruendo.

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One Reply to “Su Berlinguer, riprendiamo un articolo di Marco Rizzo e una tesi del nostro congresso.”

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