BANK ? ITALIA

BANK ? ITALIA

La Banca d’Italia, cui ci si riferisce correntemente anche con il termine Bankitalia, fu istituita nel 1893 nell’ambito di un riordino complessivo degli istituti di emissione allora esistenti in Italia.

 

Nel 1926 la posizione dell’Istituto Nazionale era sostanzialmente pubblica; essa infatti era l’unico istituto autorizzato all’emissione di banconote. Banca d’Italia aveva anche poteri di vigilanza sulle altre banche.

Ma è con la legge bancaria del 1936 che Banca d’Italia viene definitivamente riconosciuta come istituto di diritto pubblico, funzione ulteriormente ratificata da una sentenza della cassazione del 21 luglio 2006: Banca d’Italia “non è una società per azioni di diritto privato, bensì un istituto di diritto pubblico secondo l’espressa indicazione dell’articolo 20 del R.D. del 12 marzo 1936 n.375”

La legge del 1936, infatti, stabiliva che il suo capitale dovesse essere detenuto per maggioranza da banche o compagnie di assicurazione che fossero a loro volta o istituti di diritto pubblico o istituti che avessero un capitale a maggioranza pubblica (come ad esempio le tre banche di interesse nazionale, l’IRI, le casse di risparmio etc.).

Inoltre, sempre con la suddetta legge, Banca d’Italia otteneva la concessione esclusiva sull’emissione della moneta, estromettendo così dalla stessa funzione sia il Banco di Napoli che il Banco di Sicilia.

Bankitalia è un’autorità monetaria indipendente ed autonoma. Essa, infatti, non può per statuto finanziare direttamente il governo o avere con esso alcun collegamento politico-istituzionale.

Questa indipendenza e autonomia della Banca d’Italia venne sancita nel luglio del 1981. Infatti in concomitanza con l’asta dei BoT di quel mese, veniva inaugurato un nuovo regime di politica monetaria, ricordato come il famoso “divorzio” fra il Tesoro e la Banca d’Italia.

Fino al 1981 la Banca centrale si impegnava a “garantire in asta il collocamento integrale dei titoli offerti dal Ministero del Tesoro. Gli interventi della Banca nelle aste dei titoli di stato erano infatti necessari per mantenere il tasso d’interesse ad un livello stabilito, compatibile con l’esigenza del Tesoro di finanziarsi relativamente a buon mercato: se il mercato rifiutava di acquistare i titoli di stato al tasso stabilito dal Tesoro, la Banca d’Italia provvedeva a riacquistarli, immettendo così moneta fresca nel sistema.

Si trattava della cosiddetta ‘base monetaria creata dal canale del tesoro infatti Tesoro e Banca d’Italia agivano di concerto, ma era sempre il primo a indirizzare l’operato della seconda, stabilendo l’ammontare della spesa, la quantità di titoli da emettere e il tasso d’interesse al quale offrire i titoli. In quest’ottica, come precisa l’economista Alan Parguez, bisogna considerare l’esistenza della Banca Centrale come ramo bancario dello Stato. Nel bilancio della Banca Centrale, la controparte del deficit [pubblico] si traduce nell’accumulo sul lato delle attività di titoli del debito pubblico ad un tasso di rendimento fissato dal Tesoro. In questo caso il debito pubblico non è altro che un debito che lo Stato ha con sé stesso (Parguez A., The true rules of a good management of public finance, mimeo, 2010).

Banca d’Italia è pertanto un Istituto di diritto pubblico le cui quote però sono per il 95% detenute da banche private, a seguito del rapido processo di privatizzazione del settore bancario italiano, sancito dalla legge Carli-Amato, (la n. 35 del 29 gennaio 1992) e culminato nell’approvazione del Testo Unico Bancario (TUB) del 1993 promosso dal governatore Ciampi. Infatti Intesa Sanpaolo, Unicredit e Assicurazioni Generali insieme detengono quasi il 60% del totale delle quote di Bankitalia.

Pertanto, con la privatizzazione degli anni ’90, lo scenario muta completamente in quanto tutte le banche sono state trasformate in società per azioni e le quote della Banca d’Italia passano così di fatto nelle mani di soggetti privati. Uno scenario che non poteva verificarsi con la legge del 1936.

Nel 2006 il governo Prodi, con il pretesto di riscrivere lo Statuto della Banca d’Italia per adeguarlo ai principi e alle regole contenute nella nuova legge sulla tutela del risparmio e sulla disciplina dei mercati finanziari (legge n. 262 del 2005), procede di fatto a ribaltare la sostanza e il significato dell’articolo 3, al fine di giustificare la presenza degli azionisti privati e sancire l’uscita definitiva dello Stato dall’istituto di emissione.

 

A questo punto la Banca d’Italia non solo è privatistica nelle funzioni, ma possiede definitivamente anche una personalità giuridica privata.

Il capitale sociale della Banca d’Italia, prima del decreto Imu-Bankitalia, ammontava a soli 156.000 euro, versati nel 1936.

Ai soci sono distribuiti dividendi per un importo fino al 6% del capitale e, su approvazione del Consiglio Superiore, un ulteriore 4% del valore nominale del capitale (art.39), cui si aggiunge “una somma non superiore al 4% dell’importo delle riserve.” quali risultano dal bilancio dell’anno precedente. Lo stato percepisce inoltre una parte degli utili d’esercizio, la restante parte viene accantonata al fondo di riserva ordinaria e a fondi speciali e riserve straordinarie. (art 39);

In altre parole, in base alle rispettive quote e al valore nominale delle stesse e secondo quanto disposto dal suddetto articolo 39 dello Statuto, i dividendi dovuti agli istituti finanziari e assicurativi privati ammonterebbero al 10% dell’intero capitale sociale, ovvero a soli €15.600. Il resto dell’utile netto (€2,5 miliardi nel 2012) viene invece ripartito fra accantonamenti a riserve statutarie (€1 miliardo) o girato direttamente al ministero del Tesoro (€1,5 miliardi).

Cosa succede con il decreto Imu-Bankitalia?
1) In primo luogo l’Istituto è autorizzato ad aumentare il proprio capitale mediante utilizzo delle riserve statutarie. Il capitale sociale aumenterà dagli originari 156.000 euro all’importo di 7,5 miliardi di euro.

Se una quota, prima del decreto, valeva 0,52 euro dopo la manovra contabile con cui viene realizzato l’aumento di capitale la stessa quota avrà un nuovo valore di 25.000 euro. Si tratta di un aumento di capitale gratuito e che non comporta alcun esborso da parte delle banche azioniste.

La ricapitalizzazione del capitale sociale della Banca d’Italia avviene a fronte delle (abbondanti) riserve statutarie dell’Istituto. Da un punto di vista sostanziale queste riserve sono riserve di denaro pubblico, appartengono al Tesoro, in quanto sono state accumulate grazie al potere di monopolio fornito dalla legge all’emissione di moneta e NON attraverso l’attività e gli investimenti dei soci, come avverrebbe per una qualsiasi azienda privata. Bankitalia, quindi, gestisce questo patrimonio come una qualsiasi banca gestisce quello dei propri correntisti. Le riserve statutarie della Banca appartengono all’Italia, fanno cioè parte della ricchezza monetaria della nazione.

La ricapitalizzazione è nella sostanza un trasferimento dal Tesoro (denaro pubblico) alle banche (private) che detengono le quote. Questo trasferimento non ha alcuna contropartita diretta per il Tesoro ed è per le banche puramente contabile, cioé può essere contabilizzato a bilancio ma di fatto non comporta in sé né trasferimento di attività né trasferimento di liquidi.

Il decreto risulta essere davvero provvidenziale per gli istituti di credito privati poiché, tra le altre cose, ha il vantaggio di far apparire le banche nostrane maggiormente capitalizzate ai fini degli stress test previsti in occasione dell’Unione Bancaria in sede BCE; infatti le plusvalenze sulla rivalutazione delle quote (che dal valore di 0,52 euro passano al valore di 25.000 euro l’una) andranno  a concorrere pienamente al common equity tier 1, l’indicatore utilizzato ai fini del calcolo degli indici di patrimonializzazione secondo la normativa di vigilanza bancaria.

2) Secondariamente Banca d’Italia viene trasformata in una public company che, a dispetto di quello che la terminologia può suggerire, NON è affatto una società pubblica.

La public company, infatti, è un modello d’impresa a proprietà diffusa (o frazionata) ed è tipico della realtà anglo-americana. Il termine indica quelle aziende che consentono la vendita al pubblico dei loro titoli mobiliari (azioni, obbligazioni, quote di partecipazione etc.). La conseguenza diretta di questa trasformazione è che le quote che formano il capitale della Banca d’Italia, che prima non erano commerciabili, ora possono essere cedute, essendo quindi trasferibili il loro valore viene determinato dal mercato.

3) In terza istanza il governo nel decreto Imu-Bankitalia ha stabilito che nessun azionista potrà possedere più del 3% della Banca Centrale (inizialmente il tetto previsto era del 5%).

La trasferibilità delle quote del capitale pare sia stata proprio introdotta per permettere ai soci di rispettare il suddetto limite massimo per la quota di partecipazione.

Dal momento che Intesa e Unicredit insieme detengono più della metà delle quote del capitale di Banca Italia, oltre ad avere ottenuto a titolo gratuito la rivalutazione contabile delle loro quote che erano iscritte nei loro bilanci ad un valore nettamente inferiore, avranno tre anni di tempo per mettere in vendita sul mercato la quantità di quote eccedenti il 3%.

Per agevolare tale processo di ricomposizione dell’azionariato, il decreto prevede inoltre la possibilità che, in assenza di compratori, la Banca d’Italia abbia facoltà di riacquistare temporaneamente le proprie quote di partecipazione. In questo caso la Banca d’Italia (il Tesoro in ultima istanza) trasferirebbe sostanzialmente – e questa volta non solo contabilmente – liquidità alle banche in cambio delle quote azionarie eccedenti il limite del 3%. Il Governo, quindi, con il decreto IMU-Bankitalia prima ha provveduto a rivalutare contabilmente le quote della Banca d’Italia possedute dagli Istituti di credito privati e successivamente provvede a riacquistarle dalle stesse (con trasferimento di moneta reale) al nuovo elevatissimo prezzo.

4) In quarto luogo le quote riceveranno una remunerazione massima pari al 6% del loro (nuovo) valore nominale, portando il valore dei dividendi distribuiti ad un massimo di 450 milioni di euro (contro i 70 milioni di utile attribuiti nel 2012).

I dividendi infatti, così come è stato finora, saranno commisurati al valore delle quote per un importo complessivo che non deve essere superiore al 6% del capitale (appena rivalutato a a 7,5 miliardi di euro). Si prevede quindi di distribuire ai soci attuali e futuri l’1% (se si rimane alle cifre attuali), o addirittura un dividendo fino al 6% calcolato su un capitale enormemente più alto rispetto a quello effettivamente investito.
Fino ad ora i dividendi distribuiti alle banche azioniste erano di fatto, in confronto, molto contenuti ma con le nuove regole, invece, gli azionisti di Bankitalia, a parità di utili, incasseranno un dividendo potenziale pari a sei volte quanto ricevuto negli anni passati: 450 milioni di euro contro i circa 70 degli anni scorsi (stima effettuata grazie ai calcoli del M5S).

La distribuzione dei dividendi, pertanto, costituisce di fatto un altro regalo alle banche che, in definitiva, si configurano azioniste della Banca Centrale solo a fronte di un capitale minimo investito più di un secolo fa e che, soprattutto, non contribuiscono affatto a generare i rendimenti che vengono dall’attività di emissione della moneta propria dell’Istituto nazionale.

Le banche private, insomma, con un investimento iniziale di €1,5 miliardi (corrispondente all’imposta una tantum sulla plusvalenza generata dalla rivalutazione da versare allo stato prevista nel decreto) ammortizzabile in soli quattro anni, si assicurerebbero una rendita perpetua di  di 420 milioni di euro annui, con un valore di riscatto del capitale di 7 miliardi di euro.

5) In quinta istanza il decreto Imu-Bankitalia stabilisce che la ricapitalizzazione sarà tassata come plusvalenza e genererà quindi introiti fiscali che verranno utilizzati per coprire il mancato introito relativo alla soppressione della seconda rata IMU (da qui il nome del decreto Imu-Bankitalia).

Nonostante l’operazione sia di per sé contabile le banche sono tenute a pagare l’imposta relativa alla plusvalenza generata dall’operazione di capitalizzazione.

Lo Stato, quindi, incasserà  un gettito fiscale una tantum di 1,5 miliardi di euro da utilizzare solamente per un anno a copertura del mancato gettito, ma si priverà però per tutti gli anni futuri di un sicuro introito derivante dalle tasse e dalla redistribuzione degli utili di Banca d’Italia.

E’ evidente quindi che una volta ridotto con questa operazione, in maniera tra l’altro anche irrisoria, il suo debito, lo Stato si ritroverà per gli anni futuri senza quegli assets strategici, quei rendimenti che fino ad oggi erano certi e con cui veniva ripagata una parte minima del debito pubblico. 
In definitiva il debito pubblico ha ora minori possibilità di essere rimarginato perché non solo dopo il decreto lo Stato potrà disporre di un patrimonio minore (posto a garanzia del debito stesso) ma anche di minori entrate nel suo conto economico, per equilibrare le uscite e le eventuali perdite di esercizio. Il mancato introito sarà recuperato attraverso l’introduzione di altre tasse e altri balzelli o mettendo mano ad altri tagli ingiustificati della spesa pubblica.

Bisogna inoltre precisare che il decreto prevede un ulteriore sconto sulle uscite relative alle imposte che le banche dovranno sostenere: le tasse sulla pluvalenza a carico degli azionisti sono state fissate al 12%, contro il tradizionale 20% e il 16% inizialmente previsto, ciò che significa un gettito inferiore, per lo stato, di circa 370 milioni

6) Come sesta e ultima istanza è necessario prendere bene nota delle conseguenze, non solo economiche, che il decreto Imu-Bankitalia comporta.

Rendendo trasferibili le quote del capitale di Bankitalia si verrebbe a creare un vero e proprio mercato internazionale delle stesse che sarebbe del tutto impossibile gestire e controllare. 
A questo mercato potrebbero accedere soltanto gli istituti finanziari abilitati ed autorizzati, tra questi anche banche e istituti stranieri, BCE compresa.

Non esiste altro contesto internazionale che preveda un mercato di scambio delle quote di partecipazione al capitale di una banca centrale. Le quote rappresentano infatti una certificazione azionaria fittizia che non può essere trasferita, venduta, prestata o acquistata.

E’ evidente che con questa manovra, si vuole evitare che anche in caso di uscita dall’Italia dall’euro, il Paese possa tornare ad avere una Banca nazionale attiva. 
Con il capitale originario di 156 mila euro sarebbe stato piuttosto piuttosto agevole rendere nuovamente pubblica la Banca Centrale, con il nuovo decreto deciso dal governo diventa praticamente impossibile, soprattutto se le quote dovessero essere acquistate da banche straniere.
Nell’eventualità che  un giorno lo Stato italiano volesse procedere alla legittima nazionalizzazione della sua banca centrale sarebbe pertanto costretto a corrispondere ai banchieri privati ben 7 miliardi di euro per riacquistare tutte le quote azionarie circolanti.

L’obiettivo principale di questo decreto è quindi quello di impedire una via di uscita dall’Unione Europea.

Siamo pertanto di fronte ad un’eredità pesantissima a carico del popolo italiano, chiamato a dover sopperire con ulteriori tasse ai futuri mancati introiti a cui lo Stato ha rinunciato con questo decreto.
Esiste inoltre la possibilità che le quote – un tempo simboliche e fittizie ora diventate concreti e reali attestati di proprietà trasferibili e cedibili, potrebbero porre diversi contenziosi o interrogativi in caso di liquidazione della Banca Centrale: chi sarebbero i proprietari delle riserve valutarie e auree e delle riserve statutarie? Lo Stato o i banchieri?

Senza inoltre contare il fatto che il cappio che ci lega all’Europa è diventato, con questa operazione, ancora più stretto e ancora più indissolubile.

Uscire dalla UE, dall’Euro e dalla Nato. Costruire il potere popolare. Nazionalizzare, espropriare ed affidare alla gestione dei lavoratori le grandi imprese e le banche. Per il Socialismo-Comunismo!

 

Sara Marks, federazione estera PC

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