LA VERITÀ SULLO  XINJIANG

LA VERITÀ SULLO  XINJIANG

Articolo di Marco Rizzo, segretario generale del Partito Comunista (Italia)].                              Lo Xinjiang è una regione autonoma della Repubblica Popolare Cinese che riveste una posizione strategica particolarmente delicata, in quanto confina con Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Afghanistan e Pakistan. Pertanto da essa passa necessariamente il traffico commerciale terrestre cinese verso l’occidente. Quindi, bloccare o fomentare disordini nello Xinjiang è cruciale per chi vuole stringere d’assedio la RPC per via terrestre, completando la cintura marittima che viene effettuata nel Pacifico. Questa è una semplice e banale considerazione che possiamo fare tutti, anche se dotati solo di un semplice atlante e privi di qualunque conoscenza dei fatti. Così come è banale osservare che il Tibet possiede le riserve idriche che superano i 9.000 miliardi di metri cubi di acqua. Soprannominato “la torre idrica d’Asia”, l’altopiano e le montagne circostanti sono il luogo in cui hanno origine 10 dei più importanti fiumi del continente. Mettere le mani sul Tibet significa mettere le mani su tutta l’acqua dell’Asia. Così come come è banale osservare che Hong Kong ha la borsa valori più importante dell’Asia. I “disordini” e le “ribellioni” scoppiano lì, mentre nella contigua Macao sembra che l’ordine costituito non dia fastidio agli abitanti. Queste tre semplicissime considerazioni già dovrebbero far venire i sospetti a qualunque osservatore della situazione asiatica e mettere in allarme ogni onesto analista. Eppure gli organi di informazione occidentali ci inondano quotidianamente di un’informazione sistematicamente orientata a diffamare la RPC. Anche programmi che si autocelebrano come “giornalismo di inchiesta” non si esimono dall’abusare della credibilità che si sono guadagnati puntando il dito su malefatte ed elementi marginali della società italiana, per attaccare la politica della RPC. In particolare si narra di “discriminazioni”, “orrori”, “campi di detenzione”, “lavori forzati” nello Xinjiang. Addirittura è stata lanciata una campagna di boicottaggio dei prodotti provenienti da quella regione, invocando la necessità di non rendersi complici di tali “orrori” e imporre un ostracismo per fare pressione sui governanti cinesi. Sul sito del “prestigioso” Amnesty International (https://www.amnesty.ch/it/news/2021/cina-onu-deve-agire-xinjiang-petizione-oltre-323000-adesioni) appaiono tre (3) testimonianze non verificabili (ma ne vengono vantate “decine”). Sulla base delle quali si organizzano manifestazioni nei paesi occidentali e si dichiara di aver raccolto centinaia di migliaia di adesioni. I fatti però hanno la testa dura. Vediamo con attenzione. Il tasso di incremento demografico tra il 2010 e il 2018 della popolazione uigura nello Xinjiang è stato del 25,04%, quello della popolazione Han del 2%. Quindi tutte le fole e le fantasie sull’“invasione” e la “discriminazione razziale” degli abitanti autoctoni non sta assolutamente in piedi. Tra il 2015 e il 2020 oltre 3 milioni di persone sono state strappate alla povertà. A 170 mila residenti sono state date 40 mila nuove abitazioni. A un milione e mezzo di persone è stato dato accesso diretto all’acqua potabile. Sono stati investiti più di 1,6 miliardi di yuan. Quindi anche qui le statistiche fanno giustizia delle calunnie sulla “repressione” e “sfruttamento” che questa regione subisce. Nello Xinjiang ci sono quasi 25 mila luoghi di culto e quasi 29 mila ministri di culto, otto collegi religiosi. Il Corano è stato tradotto in quattro lingue ed è distribuito gratuitamente dai membri religiosi. Quindi il problema religioso o la “discriminazione” e “repressione” delle libertà religiose non sembra affatto un problema per questa regione. Lo Xinjiang ha attirato più di 200 milioni di turisti nel 2021 e aspetta di riceverne più di 400 milioni tra nazionali e internazionali nel 2025. Quindici aeroporti civili saranno completati o avviati nello Xinjiang entro cinque anni. Chiunque quindi può andare a vedere coi propri occhi cosa succede. È strano che i nostri giornalisti tanto preoccupati delle condizioni di quei territori non si siano peritati negli anni di fare un semplice viaggetto, tra l’altro a spese dei propri dante causa. Il cinese mandarino è stato introdotto nelle scuole e viene insegnato a tutti gli allievi. La lingua originaria non solo non è vietata, ma viene insegnata insieme alla lingua che in Cina è la lingua veicolare della Nazione intera. Abbiamo qualcosa da ridire noi italiani che siamo costretti a studiare l’inglese fin da bambini e addirittura l’inglese è la lingua di comunicazione prevalente negli atti ufficiali dell’Unione Europea, anche se non è la lingua ufficiale di nessuno Stato (con l’eccezione dell’Eire, che peraltro ha subito la colonizzazione linguistica inglese), dopo la brexit? Continuiamo la nostra semplicissima rassegna di ciò che un comunissimo cittadino può scoprire usando gli strumenti più banali si ricerca sul web. Leggiamo cosa c’è scritto sul sito più consultato, Wikipedia, certo un sito non tacciabile di sinofilia o simpatie comuniste. Leggiamo da https://it.wikipedia.org/wiki/Campi_di_rieducazione_dello_Xinjiang: non vi siano dati pubblici e verificabili per il numero di campi, ci sono stati vari tentativi di documentare campi sospetti basati su immagini satellitari e documenti governativi. Ricercatore tedesco affiliato all’organizzazione di estrema destra Victims of Communism Memorial Foundation e professore di teologia della Scuola europea di cultura e teologia di Korntal e dell’organizzazione privata evangelica Columbia International University, [Adrian] Zenz afferma … che non vi è alcuna certezza sul numero dei detenuti ma è “ragionevole speculare” tra le centinaia di migliaia e poco più di un milione”. Il sinologo basò le proprie stime su un singolo rapporto della Istiqlal TV, come reso noto dal Newsweek Japan. La Istiqal Tv è un’organizzazione mediatica di uiguri in esilio in Turchia che ospita estremisti islamici del Partito Islamico del Turkestan. Altre fonti citate nel rapporto sono quelle provenienti da articoli di Radio Free Asia. In diverse interviste, Zenz ha sempre aumentato il numero di internati. Il 1º novembre 2018, l’International Cyber Policy Center (ICPC) dell’Australian Strategic Policy Institute (ASPI) ha riferito campi sospetti in 28 località, ma l’analisi fu svolta soltanto tramite speculazioni e citando fonti che non fornivano prove evidenti a sostegno delle accuse. Inoltre, l’ASPI riceve fondi da ambasciate straniere, aziende del settore della difesa e dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti d’America. Il numero di Uiguri internati nei campi di prigionia sia stato fornito per la prima volta dalla Chinese Human Rights Defenders (CHRD), una ONG con sede a Washington e finanziata dalla National Endowment for Democracy. la CHRD stimava che circa un milione di Uiguri erano stati inviati in campi di rieducazione, e la stima sarebbe stata basata su “interviste e dati limitati”. Nel documento della CHRD sono presenti un totale di 8 intervistati anonimi che hanno fornito stime soggettive e non verificate. Quando il rapporto della CHRD fu discusso pubblicamente all’UNHCR, soltanto la rappresentante statunitense Gay McDougall ha parlato di “campi di rieducazione” e senza mostrare o citare alcuna prova a sostegno dell’accusa. Tuttavia, l’agenzia di stampa britannica Reuters rilanciò la notizia affermando che l’ONU aveva prove credibili riguardo all’internamento di milioni di Uiguri in campi segreti, nonostante il Comitato sull’eliminazione della discriminazione razziale o un suo singolo membro non possano parlare in nome dell’intera ONU. Che credibilità ha una denuncia di questo genere per la quale le uniche fonti primarie sono così fragili o del tutto inesistenti? Un sito del tutto privo di riscontri lancia un’accusa e la sua forza sta solo nel numero di rimbalzi che esso riceve dal mainstream mediatico internazionale. L’8 luglio 2019, 22 paesi hanno firmato una dichiarazione all’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani in cui hanno chiesto di porre fine alle detenzioni di massa in Cina e hanno espresso preoccupazione per la diffusa sorveglianza e repressione. I paesi sono: Australia, Austria, Belgio, Canada, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Islanda, Irlanda, Giappone, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Olanda, Nuova Zelanda, Norvegia, Spagna, Svezia, Svizzera e Regno Unito. Come si vede tutti paesi facenti parte di una certa alleanza politico-militare e in cui la convivenza con le comunità musulmane è spesso problematica se non molto conflittuale. A luglio 2019, 37 paesi tra cui Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Sudan, Angola, Algeria, Nigeria, Repubblica Democratica del Congo, Corea del Nord, Serbia, Russia, Venezuela, Filippine, Myanmar, Pakistan e Siria hanno firmato una lettera congiunta all’UNHRC elogiando la Cina per i risultati notevoli nello Xinjiang. In seguito altri 50 paesi, tra cui Iran, Iraq, Sri Lanka, Gibuti e Palestina, hanno firmato la lettera. I paesi che hanno respinto questa versione della situazione nello Xinjiang sono del tutto indipendenti a ogni alleanza politica. Inoltre molti di questi rappresentano paesi che dovrebbero avere a cuore specificatamente i destini dei propri correligionari, essendo paesi a forte maggioranza musulmana. In conclusione, anche non avendo alcuna competenza o abilità di ricerca e di indagine giornalistica, chiunque si può fare un’idea della inconsistenza delle accuse infamanti che vengono lanciate alla RPC e dei motivi reconditi per i quali tali accuse vengono ordite.

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