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KAMALA HARRIS: DA BOIA DELLA CALIFORNIA A ICONA PROGRESSISTA

Mentre il teatro delle elezioni statunitensi non cessa di offrire i bis al pubblico mondiale, che segue attentamente lo spettacolo più per timore delle sue conseguenze infauste che per amore delle vicissitudini politiche dell’Impero, la stampa occidentale sceglie e sprona i propri campioni. Il ritiro dalla corsa alle elezioni di Biden non solo ha posto i giornalisti di fronte all’oggettività dei deficit cognitivi del presidente, che pure erano stati negati a spada tratta per anni e declassati ad accuse decontestualizzate di semplici detrattori, ma ne ha sollecitato una nuova presa di posizione. Zoppicato via dal palco l’eroe dell’estrema destra paramilitare ucraina e del colonialismo genocida israeliano, ecco che a montare su di esso è, benedetta proprio dal senile uscente, la vicepresidente Kamala Harris. Figura piuttosto anonima dell’amministrazione Biden, messa da parte il più possibile nelle grandi apparizioni pubbliche per via delle sue atroci capacità retoriche, è riuscita in fretta a raccogliere il sostegno del proprio partito e dei suoi donatori (tra cui l’immancabile AIPAC, una delle più potenti lobby sioniste negli Stati Uniti). A correrle dietro strombazzandone la venuta sono diversi giornali occidentali, che ne tessono le lodi più varie e, sopra ad ogni cosa, ne decantano il pedigree di donna afroamericana e di origini asiatiche. E a leggere certe arringhe, pare proprio che basti quest’ultimo, una specie di patentino di legittimità liberale, a sancire il presunto ethos “progressista” della candidata alla presidenza. I giornalisti ignorano (e sarebbe negligenza) o dissimulano (e sarebbe tradimento) il fatto che la Harris gli riderebbe in faccia a leggere simili associazioni con la sua persona

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