DOCUMENTI CONGRESSUALI CSP-PARTITO COMUNISTA. ROMA 17.18.19 GENNAIO 2014

DOCUMENTI CONGRESSUALI CSP-PARTITO COMUNISTA. ROMA 17.18.19 GENNAIO 2014

Cari compagni e compagne, ecco le tesi congressuali votate dal Comitato Centrale, usatele quotidianamente come base per la discussione teorica, costruite con esse l’ideologia e l’azione del Partito Comunista in Italia. Siate fieri del nostro lavoro! Il segretario Marco Rizzo

http://issuu.com/pc-agitprop/docs/documento_politico_congresso_csp-pc

 

 

DOCUMENTI CONGRESSUALI CSP-PARTITO COMUNISTA

Indice 

 

 

 – PREMESSA (pag 3-4) 

 

 – PARTE PRIMA (pag 5-41) 

 

1) Non è fallito il socialismo ma la sua revisione (pag 5)

2) La lotta per il socialismo comunismo, contro il revisionismo politico ed

ideologico (pag 8)

3) L’insegnamento di Gramsci oggi (pag 15)

4) Il revisionismo italiano dal dopoguerra fino al PD (pag 28)

 

 – PARTE SECONDA (pag 42-91) 

 

5) Il no comunista al golpe europeo (pag 42)

6) La questione meridionale, il paradigma italiano da Gramsci ai giorni nostri pag 

50)

7) Internazionalismo ed antimperialismo (pag 60)

8) Natura della crisi; un programma di trasformazione socialista (pag 64)

9) Il Fronte unito dei lavoratori (FUL) per la ricostruzione del sindacalismo di

classe in Italia (pag 76)

10) La gioventù comunista (pag 81)

11) Differenze di genere, differenze di classe (pag 83)

12) Per la ricostruzione di un vero Partito Comunista (pag 85)

 

 – PARTE TERZA (pag 92-104) 

 

13) Regolamento congressuale 2014 (pag 92)

14) Statuto del Partito Comunista (pag 94)

15) Regolamento finanziario del Partito Comunista (pag 101) 

 

 

 

 

 

 

 

 

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PREMESSA 

 

 

L’analisi dei comunisti è una critica radicale, implacabile e irrevocabile, al

capitalismo che, giunto alla sua fase finale, sta trascinando l’umanità e questo pianeta

in un baratro fatto di crisi economica, guerra, fame, malattie e sottosviluppo,

distruzione dell’ambiente.

La proposta è altrettanto radicale: l’abbattimento del capitalismo parassitario

e moribondo per costruire il Socialismo-Comunismo, per la liberazione dell’umanità

dal giogo dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dall’ingiustizia, dalla miseria e dalla

guerra. Ci richiamiamo al marxismo-leninismo e all’esperienza della Rivoluzione

d’Ottobre con piena convinzione e senso della storia, consci del fatto che, con la fine

dell’URSS non è finita la sua illuminante eredità, ma solo la sua degenerazione

revisionista, iniziata nel 1956 con il XX Congresso del PCUS e le riforme di

Khrusciov e Kosygin. Da sempre gli oppressi cercano di emanciparsi dai loro

oppressori, ma oggi dall’esito della lotta di classe dipende la sopravvivenza stessa del

pianeta. Il Socialismo-Comunismo è l’unica vera soluzione alternativa, ma per

sconfiggere l’imperialismo, tanto degli USA, quanto  dell’UE e degli altri paesi, il cui

capitalismo è recentemente entrato in fase monopolistica, non basta la denuncia. La

teoria rivoluzionaria deve trovare applicazione in una prassi altrettanto rivoluzionaria:

il Partito Comunista è appunto lo strumento che unisce e organizza teoria e prassi.

Parliamo qui di una politica vera e alta, non di quella miserabile degli

arrivisti e dei corrotti, di un ideale per cui i comunisti sono sempre stati pronti a

sacrificare la propria vita.

Stiamo ricostruendo il Partito Comunista in Italia, con profonda cognizione

della nostra gloriosa storia e degli errori del passato, tenendo conto anche delle

esperienze, accumulate nel ventennale tentativo di tenere aperta la ‘questione

comunista’ in Italia dopo lo scioglimento del PCI.

 

Comunisti Sinistra Popolare ne è stata coraggiosa e generosa parentesi,

apertasi nel 2009, con la quale abbiamo voluto prendere le distanze, in un quadro di

seria autocritica, dagli errori di governismo e parlamentarismo e dalle conseguenti

deviazioni opportuniste del PRC e del PDCI. Oggi, grazie ad una seria riflessione

teorica e ad un impegno militante  determinato, siamo in grado di fornire una sponda,

ideologicamente, politicamente e organizzativamente adeguata a quanti ritengono che

il capitalismo non sia l’ultimo orizzonte della storia e che il Socialismo-Comunismo

sia l’unica via di uscita definitiva dalla sua crisi. In queste tesi non troverete i toni

suadenti, i colori sbiaditi, le teorie del dubbio e quell’eclettismo che negli ultimi

quarant’anni hanno caratterizzato, prima, la fine del PCI e poi le sue ipotesi

rifondative.

Siamo pienamente coscienti che, quanto le condizioni oggettive reclamano

oggi la necessità di un forte cambiamento, tanto, almeno in Italia, sono ancora deboli

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le condizioni soggettive. Perciò assumiamo pienamente l’insegnamento leninista di

Gramsci, quando rilevava che “…un esercito già esistente è distrutto se vengono a 

mancare i capitani, mentre l’esistenza di un gruppo di capitani, affiatati, d’accordo 

tra loro, con fini comuni, non tarda a formare un esercito anche dove non esiste”. Noi

dobbiamo e vogliamo costruire, appunto, un partito di quadri, di capitani che con una

chiara linea di classe, siano in grado di guidare  alla vittoria l’esercito di massa dei

proletari nella loro accezione più vasta.

 

Ci rivolgiamo ai comunisti sinceri che ancora militano in organizzazioni che

apertamente o surrettiziamente hanno rinnegato l’ideologia comunista, ai comunisti

delusi dalla politica, ai comunisti ‘in fieri’ delle nuove generazioni e a tutti gli

sfruttati, vittime del capitalismo e della sua crisi.

Ricominciamo dalle nostre radici, dai nostri più arditi obiettivi, facendo tesoro delle

nostre riflessioni e elaborazioni teoriche, lo facciamo per realizzare una rivoluzione

che cambi in meglio la vita di tutti, orgogliosi della nostra identità, nel nome dell’idea

più alta e nobile che esista: il Comunismo, che è “la gioventù del mondo”. A questo

serve anche il programma politico che presentiamo.

 

Invitiamo tutti compagni a studiare e approfondire il documento

congressuale, a contribuire al suo miglioramento con riflessioni, proposte, consigli

ma, soprattutto, con un’appassionata  militanza. Il Partito Comunista non si costruisce

a tavolino, ma con l’impegno e la lotta di tutti e di ciascuno.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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PARTE PRIMA  

 

 

1) Non è fallito il socialismo ma la sua revisione.  

 

Consideriamo (fortunatamente) terminata la stagione dell’eclettismo

dubbioso, dell’esaltazione dei particolarismi che, in questi ultimi anni, ha contribuito a

distruggere identità e prospettiva per chi voleva richiamarsi con coerenza al

comunismo, per poi ridursi infine al nulla teorico ed organizzativo. In questo percorso,

appunto da comunisti,  prendiamo “in carico” la storia del movimento comunista

internazionale e rivendichiamo la “spinta propulsiva” della Rivoluzione d’Ottobre, la

costruzione del Socialismo in URSS e la figura di Stalin, continuatore dell’opera di

Lenin, indicando nei processi di revisionismo di quella esperienza una delle cause del

fallimento che, appunto, si ascrive esclusivamente alla sua degenerazione e non certo

alla sua essenza. Il fallimento dell’Urss è il fallimento del revisionismo, da Khrusciov

a Gorbaciov.

NON E’ FALLITO IL SOCIALISMO, MA LA SUA REVISIONE!!!

Sarebbe un po’ come dire, guardando oggi alla miseria della politica e della società

italiana, che la colpa è dei partigiani che hanno fatto la Resistenza. In tal senso, la

figura di Stalin non va presa come “feticcio”, ma servirà, assieme a Marx, Engels,

Lenin, Gramsci e agli altri grandi della ”nostra” storia, da una parte come punto

teorico di attualizzazione della teoria marxista-leninista e, dall’altra, come

“spartiacque” per la costruzione pratica del partito. In Italia la dittatura della borghesia

ti “consente” addirittura (sino ad oggi) di esser “comunista” ma non sopporta, non

ammette lo “stalinismo”.

Sono molti (troppi) quelli che si sono piegati a questo diktat in Italia,

(peraltro neanche Stalin si definiva stalinista, il marxismo-leninismo è termine di

riferimento politico e ideologico): chi non se la sente di rispondere adeguatamente al

pensiero unico della borghesia non potrà mai contribuire realmente alla costruzione

del Partito Comunista. Di fronte alla palese dittatura della borghesia globalizzata

serve sviluppare il concetto della dittatura proletaria, da cui nessuna parte del popolo

ha nulla da temere, in quanto vera “democrazia di tutti”.

 

Il 7 novembre 1917, milioni di operai, contadini e soldati, guidati da Lenin,

capo del Partito Bolscevico, compirono, per la prima volta nella storia dell’umanità, la

più grande rivoluzione popolare in grado di scalzare dal potere la borghesia,

instaurando un nuovo potere operaio e popolare fondato sui Soviet come base del

nuovo Stato Socialista.

Ciò avvenne per il concentrarsi, in quel paese, di alcune contraddizioni del

capitalismo che lo portarono ad essere l’anello debole della catena imperialista, ma

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anche per la costruzione, nel corso di lunghi anni, di una forte direzione politica

rivoluzionaria che seppe coniugare, in ogni fase di sviluppo degli avvenimenti, una

giusta analisi di classe dell’imperialismo e del capitalismo ad una audace e tempestiva

determinazione dei compiti dell’avanguardia organizzata della classe operaia e del

popolo: il Partito Comunista.

Solo così si poté, nel breve volgere di pochi giorni, spostare i rapporti di

forza a favore delle forze proletarie ed instaurare il potere dei soviet, sconfiggere la

reazione interna dei capitalisti e dei proprietari terrieri e successivamente, nel corso di

una lunga guerra civile, respingere l’attacco di 15 eserciti stranieri, che si scatenarono

nel primo feroce attacco contro la Russia Sovietica al fine di uccidere nella culla la

giovane rivoluzione, nell’interesse del capitale finanziario internazionale.

La storia dello stato, che, dopo la vittoria contro l’invasione straniera, si

chiamerà Unione Sovietica è la storia della costruzione del primo stato socialista del

mondo che dal 1937 diventerà la seconda potenza industriale del mondo. E che, con la

forza economica e politica accumulata, seppe respingere il secondo proditorio attacco

delle forze imperialiste europee e mondiali nel 1941, questa volta nella forma delle

armate nazi-fasciste, inseguendo il nemico fino alla sua capitale, Berlino, issando sulla

sede del Reichstag la bandiera rossa dell’Unione Sovietica e della rivoluzione

proletaria.

 

La storia del primo stato socialista terminerà nel 1991 con la restaurazione

del capitalismo e la vanificazione delle grandi conquiste sociali che in

quell’esperimento si realizzarono, a causa delle pressioni internazionali, ma

soprattutto, dell’avvento nella sua direzione politica di forze che, sulla base di una

profonda revisione dei principi e dei valori del marxismo-leninismo, a partire dal 1953

e nel corso dei decenni successivi, cominciarono ad inseguire la chimera della

coniugazione della pianificazione con il mercato, di fatto inseguendo il modello del

capitalismo nella competizione internazionale, subendone la profonda influenza fino a

diventarne subalterni ed infine sconfitti.

Questo triste epilogo della storia del socialismo realizzato nel corso del XX secolo,

ben lungi dal far venir meno le ragioni dell’emancipazione proletaria, è, per tutti i

comunisti, fonte di grandi insegnamenti.

 

Innanzitutto, è la conferma della tesi leninista che, anche dopo una o più

sconfitte, la borghesia non rinuncia ai tentativi di restaurazione del proprio potere, a

cui si può resistere vittoriosamente soltanto consolidando il potere popolare e non

scimmiottando le leggi del suo ordinamento sociale.

Inoltre, si conferma valida la tesi che soltanto con una forte politica di competizione, a

livello internazionale, il socialismo può contrastare l’egemonia del capitalismo e

limitarne sempre più il campo d’azione, e non con la cosiddetta politica di “pacifica

coesistenza” perseguita dal XX congresso del PCUS in poi.

Infine, apprendiamo, da tutta la storia del ‘900 che la lotta al revisionismo

politico ed ideologico in seno al movimento operaio e comunista deve, sempre, essere

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condotta apertamente e senza omissioni, coinvolgendo in essa non solo i militanti di

partito ma le più vaste masse popolari che, solo se informate e coscienti del proprio

ruolo storico, possono essere permanentemente protagoniste della costruzione della

nuova società.

Sulla base di questi principi e dagli insegnamenti tragici che ci vengono dalla

storia, noi confermiamo l’attualità di una identità comunista e la necessità di

ricostruire, allo stesso tempo, il Partito Comunista in Italia e  l’unità rivoluzionaria del

movimento comunista internazionale, traendo forte ispirazione dalla nostra storia, a

partire dall’esempio grande e universale della Rivoluzione Proletaria e Socialista

d’Ottobre, che ha aperto una nuova fase nella storia dell’umanità con la costruzione

del Socialismo nell’Urss. Ma impariamo anche dagli errori che hanno portato alla

restaurazione del capitalismo nei Paesi dell’Est.

Facendo tesoro di tutto questo, con il capitalismo nella sua fase finale

imperialista, i comunisti e i popoli sapranno realizzare nuove rivoluzioni

proletarie  per costruire col potere operaio e popolare il Socialismo-Comunismo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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2) La lotta per il socialismo – comunismo, contro il revisionismo politico ed 

ideologico. 

 

Per ridare credibilità e capacità di attrazione, prima di tutto fra le masse

popolari, agli ideali del socialismo e del comunismo al fine di rimotivare la stessa

utilità politica e sociale dei partiti comunisti, è necessario ritornare alle origini del

movimento comunista, per riscoprirne le basi politiche ed ideologiche e le finalità

storiche che  ne determinano le ragioni della propria esistenza.

E’ nel Manifesto del Partito Comunista del 1848 di Marx ed Engels che, per

la prima volta, troviamo la esposizione organica dell’analisi e dei principi fondativi

del socialismo-comunismo. Qui, la rivoluzione comunista viene definita come la più

radicale rottura con i tradizionali rapporti di proprietà e con le idee tradizionali,

indicando come obbiettivo della prima tappa della rivoluzione operaia l’elevarsi del

proletariato a classe dominante, per raggiungere la democrazia, intesa nel suo

significato autentico di potere popolare.

Il proletariato, viene detto nel testo, userà il suo dominio politico per togliere

via via alla borghesia tutto il capitale, per concentrare nelle mani dello Stato, ossia del

proletariato organizzato quale classe dominante, tutti gli strumenti di produzione, e

per aumentare, con la massima rapidità possibile, la massa delle forze produttive,

procedendo attraverso progressive infrazioni al diritto di proprietà e dei rapporti

borghesi di produzione.

Le misure programmatiche, da attuarsi, a grandi linee, nei paesi più

progrediti, vanno in tale direzione e parlano di centralizzazione del credito nelle mani

dello Stato, mediante una banca nazionale con monopolio esclusivo, di

centralizzazione dei mezzi di trasporto in mano allo Stato, di moltiplicazione delle

fabbriche nazionali espropriate ai capitalisti privati, di espropriazione della proprietà

fondiaria ed impiego della rendita della terra per le spese dello Stato, di imposizione

fiscale prima progressiva poi –col nuovo sistema- ridotta ai minini termini, di

educazione pubblica e gratuita, del diritto e del dovere del lavoro per tutti. Queste

sono le nostre origini.

E che cosa fece la Comune di Parigi del 1871, che fu la prima

materializzazione del potere proletario? Dovette riconoscere, innanzitutto, che la

classe operaia, una volta giunta al potere, non può continuare ad amministrare con la

vecchia macchina statale, bensì, per non perdere di nuovo il potere, da una parte deve

eliminare tutto il vecchio apparato repressivo già usato contro di essa, e dall’altra deve

difendersi contro i suoi stessi deputati ed impiegati dichiarandoli revocabili senza

alcuna eccezione ed in ogni momento.

La Comune applicò, a questo proposito, due misure infallibili. In primo

luogo, assegnò elettivamente tutti gli impieghi, amministrativi, giudiziari, educativi,

per suffragio generale degli interessati e con diritto di revoca, in qualsiasi momento,

da parte di questi. In secondo luogo, per tutti i servizi, da quelli inferiori ad i più

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elevati, pagò solo il salario che ricevevano gli altri lavoratori, cosicché, il più alto

assegno che essa pagava era di 6mila franchi. In questo modo veniva posto un freno

sicuro alla caccia agli impieghi ed al carrierismo.

 

Questi principi e queste misure vennero messe in discussione in seno ai

partiti del movimento operaio già sul finire del XIX secolo. Eduard Bernstein, nella

sua opera del 1899, “Le premesse del socialismo” affermò che la socialdemocrazia

avrebbe dovuto trasformarsi da partito di rivoluzione sociale in partito democratico di

riforme sociali, negando il carattere scientifico del socialismo, il processo di

impoverimento progressivo e di proletarizzazione come effetto delle contraddizioni

capitalistiche e la necessità della dittatura del proletariato come sbocco della

rivoluzione e strumento della costruzione del socialismo.

Toccò a Lenin ristabilire la vera dottrina di Marx della rivoluzione e del

socialismo, partendo dalla confutazione puntuale delle deformazioni e della revisione

profonda a cui era stata sottoposta. A partire, innanzitutto, dalla dottrina dello Stato,

ribadendo in “Stato e Rivoluzione” che lo Stato è l’organo di dominio di classe,

strumento di oppressione di una classe da parte di un’altra. E, poi, polemizzando con

Karl Kautsky che, dopo pochi mesi dalla Rivoluzione d’ottobre, aveva iniziato

un’operazione di demolizione dell’operato dei bolscevichi accusandoli di adottare

mezzi antidemocratici. Nell’opuscolo “ La rivoluzione proletaria ed il rinnegato

Kautsky”, Lenin ricorda, tra l’altro, che Marx ed Engels per ben quaranta anni,

avevano parlato della necessità storica per il proletariato di spezzare la macchina

statale borghese per poter avviare la costruzione dello stato proletario e del

socialismo, tenendo conto delle rivoluzioni del 1848 e, ancor più, del 1871.

Ma, soprattutto, in quest’opera, Lenin compie una analisi delle possibilità

della restaurazione capitalistica dopo la vittoria della rivoluzione proletaria che, alla

luce degli avvenimenti del XX secolo, assume tonalità profetiche. Polemizzando,

appunto, con Kautsky, che esaltava puramente i principi, ritenuti universali, della

democrazia borghese, Lenin ricorda che gli sfruttatori, cioè la borghesia, anche dopo

essere stati sconfitti dalla rivoluzione proletaria, mantengono ancora molti privilegi e

condizioni di vantaggio rispetto ai proletari, cosicché essi non si piegheranno mai alla

decisione della maggioranza degli sfruttati, e poiché il passaggio dal capitalismo al

comunismo abbraccia un’intera epoca storica, negli sfruttatori permane la speranza

della restaurazione del loro potere che si tramuta in tentativi di realizzarla.

 

Il revisionismo politico ed ideologico del marxismo-leninismo, d’altronde, è

il riflesso intellettuale della situazione sociale di determinati ceti, intermedi o settori

della stessa classe operaia che, ritengono  di potere trovare soluzioni alla propria

condizione sociale nell’ambito di un capitalismo improntato ai principi del cosiddetto

“ sistema di mercato sociale” come terreno di possibile compromesso fra interessi

contrapposti. Esso ha trovato, pertanto terreno fertile per svilupparsi non solo nella

socialdemocrazia, ma anche nel movimento comunista, a partire dai paesi dell’est

europeo e nella stessa Unione Sovietica.

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Se l’Unione Sovietica è sopravvissuta nei primi anni, che sono stati quelli

della sua maggiore debolezza, partendo da condizioni di sottosviluppo di carattere

medioevale, dopo aver subito il primo attacco concentrico di carattere economico e

militare di molti stati capitalisti, costituendosi, poi, come forza determinante nella

sconfitta del nazismo e del fascismo, è perché i dirigenti del PCUS erano guidati da

un’analisi di prospettiva che fece dire a Stalin nel 1931, rispondendo a coloro che

chiedevano un rallentamento dei ritmi di sviluppo economico ed industriale: “ Siamo 

rimasti indietro di 50 o 100 anni rispetto ai paesi più evoluti. Dobbiamo colmare 

questo divario nell’arco di dieci anni. O ci riusciamo o saremo stritolati.”  

L’esito della Seconda Guerra Mondiale e l’effetto che il 1945 provocò nel

mondo fu grande. Libertà, democrazia, socialismo erano apparsi a tanti combattenti i

veri obbiettivi per cui lottare e tutta la situazione politica conobbe un generale

spostamento a sinistra. I comunisti facevano progressi non solo in Europa orientale ma

in tutto il mondo, passando da 1,5 a 4,8 milioni di iscritti e conseguendo, nelle

elezioni, percentuali di voti che oscillavano fra il 10 ed il 30 per cento in quasi tutti i

paesi dell’Europa occidentale. L’URSS iniziò una nuova opera di ricostruzione di cui

il fattore decisivo fu una massiccia politica di investimenti  statali in economia,

superiori a quelli degli anni ’30, che permisero la realizzazione di un ulteriore balzo

nella sua potenza industriale, con risultati spettacolari nel duello con gli USA.

Ciò avverrà, in un contesto di divisione dell’Europa e del mondo in blocchi

contrapposti che vedrà, ben presto, le potenze capitalistiche occidentali lanciare la

Guerra Fredda contro l’Unione Sovietica ed i paesi di democrazia popolare dell’est

europeo.

 

Inoltre, da parte di alcuni partiti comunisti occidentali, si compresero in

ritardo gli obbiettivi perseguiti dall’imperialismo americano, confidando essi in una

più duratura alleanza delle potenza vincitrici della guerra, sottovalutando la volontà

dell’imperialismo nord-americano di cacciare i comunisti dal governo dei paesi della

parte occidentale dell’Europa. Emersero, in questi anni, nel movimento comunista,

nuovamente, i difetti classici di elettoralismo e parlamentarismo che erano tipici, da

sempre, del riformismo e dell’opportunismo e che vennero fortemente criticati nella

riunione del Cominform del settembre 1947.

Cominciarono a comparire tesi quali la via parlamentare e nazionale al

socialismo che verranno generalizzate dopo il XX Congresso del PCUS, che nel PCI

avrà una sua formulazione completa, nel contesto della elaborazione della “via italiana

al socialismo” nel suo 8° Congresso del 1956. Si tratterà di una concezione del

socialismo che nasce, non da una rottura rivoluzionaria, ma da una evoluzione sulla

base delle trasformazioni progressive accumulate nel quadro del capitalismo, fondata

su di una revisione della teoria leninista dello Stato, che sottovaluta il carattere di

classe della democrazia borghese identificata sempre più come “democrazia” tout

court.

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La situazione postbellica non ampliava soltanto le possibilità di successo del

movimento comunista internazionale, ma creava anche le premesse per l’insinuarsi

dell’ideologia borghese nelle sue fila, a partire dal suo Partito guida, il PCUS.

La coalizione antifascista che aveva permesso la vittoria nella guerra contro il

fascismo ed il nazismo, alimentava delle illusioni sull’imperialismo in certi settori del

movimento, portandoli a pensare che da parte degli alleati nel conflitto mondiale non

sarebbe venuto alcun pericolo per il socialismo, ma anzi tale alleanza si sarebbe potuta

articolare stabilmente, a livello nazionale, in ampi fronti popolari antifascisti e

democratici, attenuando o cessando la lotta contro l’imperialismo, in particolare quello

statunitense il che avvenne, dopo la morte di Stalin, con l’avvio della politica di”

coesistenza pacifica” con la sanzione definitiva nel XX Congresso del PCUS del

1956.

Tale posizione si fondava  sulla ricerca di un compromesso, di una durevole e

pacifica convivenza tra socialismo ed imperialismo che ignorava la naturale

aggressività di quest’ultimo, ponendo il socialismo in condizioni di particolare

debolezza e vulnerabilità verso l’imperialismo stesso.

Un altro approdo del XX Congresso del PCUS, in termini di revisione

politica ed ideologica, fu la deformazione e falsificazione del concetto stesso di

socialismo. Fino ad allora, due tesi erano ritenute valide come fondamento del

marxismo-leninismo:

 

1) Il potere della classe operaia, guidata da un partito comunista come

premessa politica per l’esistenza di uno Stato Socialista.

 

2) L’applicazione in ogni paese, tenuto conto delle particolarità nazionali, di

regole e leggi di validità generale durante il processo di costruzione del

socialismo, al fine di garantirne il successo. Secondo l’impostazione di

Khrusciov, invece, l’edificazione del socialismo non era più legata alla classe

operaia ed alla guida di un partito comunista, ma sarebbe potuta avvenire

nella libera competizione delle forze più disparate, anche borghesi, ed in

queste circostanze, il Parlamento, con la conquista al suo interno di una

solida maggioranza delle forze di sinistra, sarebbe potuto essere trasformato

in strumento di democrazia per i lavoratori.

 

In un primo momento, queste tesi sembrarono conquistare il consenso della

quasi totalità del movimento comunista internazionale, con le sole significative

eccezioni del Partito Comunista Cinese e del Partito del Lavoro d’Albania. Tuttavia il

tragico epilogo,nel 1973, dell’esperienza del Governo di Unità Popolare di Salvador

Allende in Cile, confermò che la vittoria elettorale non è sufficiente a garantire il

successo del processo rivoluzionario.

Ma, invece di trarre da questo insegnamento, l’occasione per la necessaria

rettifica politica e teorica, consistenti partiti comunisti occidentali svilupparono la loro

elaborazione politico-ideologica nella direzione di quello che venne chiamato

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“eurocomunismo” che rappresentò la sintesi più avanzata del revisionismo moderno,

arrivando ad affermare che era possibile un incontro di carattere  strategico con le

forze borghesi, costruire il socialismo sotto l’ombrello della NATO e costruire il

socialismo ogni giorno, passo dopo passo, senza conquista del potere .

Infine, il risultato della deformazione revisionista della teoria del socialismo è

stato la liquidazione del socialismo in Unione Sovietica e nei paesi dell’est europeo

attraverso tappe che si sono sviluppate con:

 

1) La sostituzione di una pianificazione economica seria e centralizzata con il

tentativo di combinazione di economia pianificata e regolazione della

produzione attraverso il mercato.

2) Il rapido incremento del divario produttivo rispetto  ai paesi capitalisti

sviluppati, a causa dell’attenuarsi della rivoluzione tecnico-scientifica..

3) La demolizione delle fondamenta dell’economia socialista con l’introduzione

della “ economia di mercato socialista “ che portò alla rovina i kolchoz,

costretti a cedere la propria terra per ritornare alla coltivazione attraverso

aziende famigliari private.

4) La definitiva liquidazione dell’economia fondata sulla proprietà collettiva e

popolare ed il ritorno al capitalismo integrale.

Condizione fondamentale, quindi, per ricostruire veri partiti comunisti in tutto il

mondo, in grado di riprendere con vigore la lotta anticapitalistica e per il socialismo, è

la critica dei capisaldi del revisionismo antico e moderno, rimettendo al centro  della

riflessione politica e teorica i principi fondamentali del marxismo-leninismo che sono

stati confermati dalla storia.

L’accentuarsi della crisi del capitalismo esalta i suoi aspetti più autoritari ed

antidemocratici. I parlamenti borghesi, oltreché scavalcati dallo strapotere dei governi,

perdono sempre più legittimità a causa di leggi elettorali che, tramite sbarramenti,

premi di maggioranza ecc., cercano di escludere dalle istituzioni la rappresentanza

politica, il ruolo della classe operaia e del conflitto sociale. I comunisti, quindi,

ritengono che, ai fini della conquista del potere da parte della classe operaia, la lotta

parlamentare non sia determinante, ma debba essere comunque praticata, dove e

quando possibile ed utile, in quanto rappresenta una verifica dell’efficacia del lavoro

svolto tra le masse ed una tribuna da cui diffondere il programma comunista.

 

Il Partito Comunista deve prioritariamente lavorare per costruire l’unità della

classe operaia e per costruire attorno ad essa un blocco di forze sociali che raggruppi

lavoratori della città e della campagna, giovani e donne del mondo del precariato,

strati di piccola borghesia, lavoratori della scienza e della cultura, piccoli

commercianti, piccoli imprenditori, oppressi dal capitale monopolistico e

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proletarizzati dalla crisi che, organizzato in un Fronte Unitario dei Lavoratori, diventi,

sotto la guida del Partito, il soggetto della rivoluzione proletaria, con la finalità di

abbattere il capitalismo, strappare il potere politico alla borghesia, instaurare la

dittatura proletaria come più alta ed estesa forma di democrazia ed avviare la

costruzione del socialismo-comunismo.

La rivoluzione socialista deve essere correttamente intesa come processo e

guidata dal Partito, con una attenta valutazione delle forme di lotta da adottare, degli

obiettivi tattici di breve e medio periodo da perseguire, in modo da non cadere in

controproducenti fughe in avanti, ma facendo sì che ogni tappa acquisita segni un

punto più avanzato della lotta verso l’obiettivo finale.

Inoltre, il Partito deve sempre tenere presente la dimensione internazionale e

l’influenza che i fattori esterni al Paese esercitano sulla situazione interna,

sviluppando la solidarietà proletaria internazionalista ed i legami con i Partiti

Comunisti ed Operai degli altri paesi, scambiando con loro analisi, opinioni ed

esperienze, sostenendo attivamente chi lotta contro l’oppressione imperialista.

La battaglia di opposizione ai governi borghesi di ogni tipo, condotta, non tanto

nelle aule parlamentari, quanto nelle piazze, nei luoghi di lavoro e di studio, vedrà il

suo esito determinato dalla capacità del blocco sociale organizzato nel Fronte di

mettere in crisi qualsiasi governo borghese attraverso la lotta di massa,

coinvolgendovi strati sempre più ampi di lavoratori, di giovani e di donne.

Saranno i rapporti di forza che concretamente si determineranno, lo sviluppo

concreto delle forme di lotta e le sue dimensioni, a stabilire se il nuovo governo del

Fronte sarà espressione dello stesso popolo in lotta, in un primo tempo senza passaggi

elettorali, oppure se tale governo si formerà nell’ambito dei meccanismi formali della

democrazia borghese, cioè attraverso una maggioranza parlamentare scaturita da

elezioni politiche. Ciò che sarà determinante sarà la creazione di un legame

indissolubile tra questo governo e le masse popolari, lo stimolo per una loro sempre

più ampia ed attiva partecipazione al controllo ed alla gestione della cosa pubblica. Il

Partito, come avanguardia organizzata della classe operaia ha ed avrà un ruolo

determinante nel guidare il Fronte ed il suo governo nel processo rivoluzionario e

nella costruzione del socialismo-comunismo.

 

La dittatura proletaria non vieta peraltro l’esistenza di altri partiti ed

organizzazioni, purché agiscano nell’ambito del sistema socialista e ne rispettino

Costituzione e leggi. Al contrario, favorisce lo sviluppo e l’articolazione di quella che

Gramsci definiva “ società civile “ per distinguerla dalla “ società politica “, cioè

dall’organizzazione statuale. La socializzazione dei mezzi di produzione consente alla

società nel suo complesso di beneficiare del plusvalore prodotto, destinato non più al

profitto privato, ma allo sviluppo della società intera. Con la socializzazione dei mezzi

di produzione si attua la liberazione del lavoro dallo sfruttamento e si pongono le basi

per la liberazione dal lavoro come attività forzata per la sopravvivenza. La

socializzazione non può e non deve essere immediatamente totale. Essa deve avvenire

per gradi, partendo dai settori a più alta concentrazione di capitale e dai settori

14

strategici. Il Partito deve agire per promuovere le associazioni di piccoli produttori

privati in cooperative da inserire, quando ve ne siano le condizioni di concentrazione

ed accumulazione, nella proprietà sociale. L’allargamento progressivo dei rapporti

socialisti di produzione, il graduale superamento del carattere mercantile della

produzione e dei rapporti di scambio basati sul denaro sono gli obiettivi irrinunciabili

del Partito in questa fase.

Per allocare le risorse e stabilire gli obbiettivi produttivi nel modo più efficace e

più funzionale al soddisfacimento dei bisogni della società, la pianificazione deve

essere centralizzata e strettamente connessa all’esercizio del controllo dei lavoratori,

che deve garantire il corretto e preciso flusso di informazione e comunicazione: dei

bisogni e dei dati dal basso verso l’alto, dell’entità delle risorse allocabili e degli

obbiettivi dall’alto verso il basso, vigilando sulla realizzazione di quanto stabilito con

gli eventuali correttivi.

 

Il principio generale della distribuzione socialista si fonda su due affermazioni.

La prima, ”da ciascuno secondo le sue capacità“ afferma un principio di giustizia

sociale in base a cui nessuno, neppure la società nel suo complesso, ha il diritto di

chiedere ad un suo membro più di quanto questi può dare, valorizzando le sue capacità

come fonte di ricchezza sociale, impegnando così ciascuno a contribuire al progresso

ed al benessere della società. La seconda, ”a ciascuno secondo il suo lavoro“ stabilisce

il principio che il lavoro individuale non sia più sfruttato dal padrone privato che si

appropria del prodotto del lavoro altrui, ma sia remunerato in termini di salario diretto,

indiretto (diritto alla casa, alla sanità gratuita, alla cultura, alla sicurezza sul lavoro,

all’assistenza della maternità ed infanzia, alla garanzia del posto di lavoro, ecc.) e

differito (pensione) sulla base del contributo che ciascuno dà allo sviluppo della

società, misurato in ore di lavoro.

Con la crescita della ricchezza sociale accumulata e con l’estensione dei rapporti

socialisti di produzione a tutti i settori e livelli dell’economia, con la definitiva

trasformazione della proprietà cooperativa e collettiva in proprietà sociale, il principio

generale della distribuzione evolverà in “ da ciascuno secondo le sue capacità, a

ciascuno secondo i suoi bisogni “. Poiché ogni individuo può avere bisogni diversi da

un altro, questo principio costituisce la negazione dell’appiattimento, in quanto

afferma l’uguaglianza nel riconoscimento della diversità delle personalità e dei

bisogni. Esso costituisce la base del funzionamento della distribuzione della società

comunista, la società dell’uguaglianza e della libertà vere nella quale la donna e

l’uomo, finalmente liberi dallo sfruttamento, dal bisogno, dall’ignoranza e dalla

superstizione, diventeranno artefici del proprio destino.

 

 

 

 

15

3) L’insegnamento di Gramsci oggi.  

 

Leggere e studiare  Gramsci è un’avventura per molti versi difficile ed

eccitante. Com’è noto i suoi scritti del carcere sono una serie quasi di appunti sparsi, in

cui ci si può addentrare o seguendo l’ordine cronologico, oppure seguendo le chiavi di

lettura delle edizioni critiche che propongono degli assemblaggi scelti dagli editori tra

prime, seconde e a volte anche terze riscritture dell’Autore. La prima modalità è

certamente la più avvincente: la sensazione è quella di essere presi per mano ed essere

condotti in una foresta di pensieri di rara profondità, talvolta legati all’attualità che

Gramsci viveva nel suo tempo, talvolta con spunti profondamente attinenti all’attualità

odierna. La seconda modalità è certamente quella più agevole ed efficiente per il

lettore che, come sempre più spesso accade, può dedicare un tempo limitato a questa

lettura.

Su Gramsci è stato scritto molto, moltissimo, molto di più di quanto lui stesso

abbia scritto. Questo è un bene, perché ha tenuto il suo pensiero al centro

dell’attenzione del mondo politico e culturale italiano e, molto di più, non italiano. Ma

purtroppo bisogna dire che le cose che sono state scritte sul suo pensiero e sulla sua

vita sono state spesso motivate da disegni ideologici e politici che si sono sovrapposte

al pensiero originario del grande rivoluzionario e dirigente politico. Pertanto il nostro

parere è: se non avete mai letto qualcosa su Gramsci, non cominciate a farlo ora e

iniziate a leggere direttamente le sue pagine: vi affascineranno e troverete da soli i

vostri spunti di riflessione. Se invece siete già stati sommersi dalle tante polemiche

che sono nate dalla prima pubblicazione delle sue opere a oggi, forse sarebbe il caso di

ascoltare il nostro punto di vista.  C’è tanto da confutare nelle cose che sono state

scritte su Gramsci, sulla sua vita e sulle sue opere, e non si può fare che

sommariamente nelle poche pagine che ci ritagliamo qui.

Sulla vita. Come mai Gramsci scrive febbrilmente nei primi anni del carcere e

poi si dedica quasi esclusivamente a rivedere i testi da lui scritti, sostanzialmente non

producendo nulla di nuovo? Come mai nei due anni di vita dopo l’uscita dal carcere

non riprende la scrittura, sebbene sottoposto a libertà vigilata, ma certo in condizioni

molto più libere di quelle carcerarie? Sono state imbastite delle vere e proprie spy-

story su questi fatti, che coinvolgono il rapporto di Gramsci col Partito Comunista

d’Italia e in particolare con Togliatti, col Partito Comunista dell’URSS, storie tutte

centrate su un unico assunto: Gramsci durante la prigionia cominciò a dissentire dalla

politica ufficiale dell’Internazionale Comunista, ma non poteva rivelarlo perché

ricattato in Italia a causa della sua condizione e in URSS a causa della presenza in

quel paese della moglie. La base documentaria di queste ipotesi sta sostanzialmente in

una sola lettera, quella in cui Gramsci auspicava che nel partito bolscevico si

ritrovasse l’unità in seguito ai violenti scontri ideologici e politici che coinvolsero la

sua dirigenza. Chiunque avesse mai letto le pagine dei Quaderni potrà sempre e solo

trovare critiche anche pesanti al pensiero di Trotskij (chiamato nel suo linguaggio

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crittografico col nome di Leone Davidovi) e apprezzamenti senza riserve per l’opera

politica e ideologica di Giuseppe Bessarione (Josif Stalin), definito il più genuino

interprete attuale della filosofia della prassi (il materialismo dialettico). Anche la

polemica che si è sollevata riguardante la scomparsa dell’ultimo dei suoi quaderni

lascia molto perplessi: ammesso che i quaderni siano 30 e non 29, in questo quaderno

mancante (o sottratto) cosa mai ci sarebbe stato? Qualcosa che contraddiceva a tal

punto i primi da risultare così scomodo per i dirigenti comunisti sovietici e italiani?

Insomma illazioni che non hanno alcuna base documentale.

Quanto alle condizioni di salute di Gramsci, negli ultimi anni di detenzione e

durante il periodo di libertà vigilata in clinica, erano talmente precarie da giustificare

ampiamente la sua impossibilità di dedicarsi a nuovi approfondimenti o anche solo a

poter leggere o scrivere, almeno con la profondità dimostrata nei primi anni. Questo è

documentato dalla semplice lettura della cronistoria dei suoi quaderni e anche dalla

distribuzione temporale dei nuovi scritti e delle riletture. E questo dovrebbe mettere a

tacere ogni illazione su dissidi, ricatti e altre assurdità che possono avere cittadinanza

su romanzi di fantascienza politica ma non su seri studi di critica politica.

Sulla ideologia. È stato, ed è tutt’oggi, molto in voga classificare Gramsci come

pensatore, come filosofo. E in particolare associarlo al filone idealista italiano, che

vede in Benedetto Croce il suo massimo esponente. È vero che Gramsci non può che

partire dalla lettura del massimo e più influente filosofo italiano vivente all’epoca, ma

qual è il suo rapporto con lui? Questo rapporto è stato paragonato a quello che Marx

ha avuto con Hegel, ossia – si dice – del più fedele discepolo che ha continuato la sua

opera. Ora ciò si afferma in barba a tutti gli scritti che Marx e Engels, dal loro lato, e

Gramsci, dal suo, hanno prodotto. Ma forse non c’è peggior sordo di chi non vuol

sentire.

Come tutti i lettori di Marx ed Engels sanno, il materialismo dialettico è il

ribaltamento della dialettica idealista, è la restituzione del meccanismo dialettico dal

mondo delle idee a quello della materia, ma soprattutto è un ribaltamento che riporta il

pensiero, la filosofia, dalla sterile speculazione alla prassi, all’azione: è benzina per

l’azione politica del proletariato. Marx ed Engels non sono filosofi, sono dirigenti

politici della classe operaia, non lo sono per loro espressa dichiarazione, ma

soprattutto per la loro storia politica. Lo stesso va detto con forza di Gramsci, con le

sue stesse parole: «Si potrebbe scrivere un nuovo Anti-Dühring che potrebbe essere 

un “Anti-Croce” da questo punto di vista, riassumendo non solo la polemica contro la 

filosofia speculativa, ma anche quella contro il positivismo e il meccanicismo e le 

forme deteriori della filosofia della prassi.» (Quaderno 8). Non bastano le ripetute

affermazioni del Gramsci del carcere, in cui esplicitamente dice che la sua filosofia

della prassi è il materialismo dialettico, quello fondato da Marx e che vedeva allora in

Stalin il più fedele interprete? Non bastano le pagine di vere lezioni di materialismo

storico che Gramsci ci impartisce sul Risorgimento italiano e la sua impareggiabile

17

analisi di classe, sul rapporti tra intellettuali e classi, sul fordismo e le origini e le

ricadute che esso ha sulla base materiale americana e sulla sua sovrastruttura?

Purtroppo, una volta che si è andata affermando questa falsità, molti filosofi e

politici italiani e non, che – invece di partire dalla lettura critica di Gramsci – si sono

adagiati su questa lettura fatta da altri, hanno finito per regalare Gramsci all’idealismo,

anziché difenderlo come grande dirigente del movimento comunista internazionale

che ha nel materialismo storico e dialettico il suo strumento di lotta più affilato.

Sulla politica. Qui le cose si fanno ancora più complicate, perché si intersecano

con tutta la storia del PCI dall’immediato dopoguerra, fino al suo scioglimento.

Gramsci è l’antesignano delle “vie nazionali al socialismo”? La sua concezione della

conquista dell'”egemonia” e della guerra di posizione che conquista una “casamatta”

dietro l’altra, sottraendola al nemico, è l’antesignana politica della “lunga marcia nelle

istituzioni” che il PCI iniziò al momento della famosa “svolta di Salerno”? La sua

concezione della “società civile”, dell'”Occidente” contrapposto all'”Oriente”, è una

concezione interclassista che rigetta la dittatura del proletariato e prefigura una

alleanza tra “produttori” che contrasta le forze reazionarie intese solo come quelle

“parassitarie”?

Noi crediamo fermamente di no. Questa lettura è profondamente sbagliata.

Basta leggere le pagine di Gramsci nell’originale per rendersi conto di quanto

profondamente marxista-leninista fosse il suo pensiero, di quanto tutta la sua analisi

fosse volta a scoprire le crepe di un sistema capitalistico-imperialista,  che in Europa

era riuscito a frenare l’impeto rivoluzionario e passava al contrattacco, di quanto la sua

concezione del Partito e dello Stato fosse indirizzata sempre e solo alla conquista del

potere politico da parte dell’avanguardia rivoluzionaria.

Chi aveva interesse a piegare, a torcere il suo pensiero per scopi legati

all’attualità e per giustificare e trovare “padri nobili” alle proprie scelte politiche, fece

un’operazione – prima di tutto culturale – che segnò pesantemente l’influenza che

Gramsci ebbe in Italia e che invece avrebbe potuto avere tutt’altro segno. Anche la

scelta di inserire Gramsci nell’empireo dei “pensatori” italiani, persino dei grandi

“scrittori”, fu una scelta tesa ad accreditare il PCI come grande partito “nazionale” e i

suoi dirigenti come fondatori della nuova società italiana che usciva dal fascismo.  La

scelta di quella politica imposta a tutto il Partito comunista italiano, l’idea che si

potessero “spostare gli equilibri” su un terreno più “avanzato” fa parte della revisione

politico-ideologica che abbiamo analizzato nelle pagine precedenti.

La lettura di Gramsci, del Gramsci vero, del grande dirigente del proletariato

italiano e internazionale, del grande teorico del marxismo-leninismo, è quello che noi

oggi sottoponiamo all’attenzione del proletariato internazionale, dei popoli

antimperialisti e anticapitalisti, che vedono nel socialismo la prospettiva rivoluzionaria

che può e deve cambiare il mondo.

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Necessità di una politica ideologica di massa  

Antonio Gramsci ha sempre attribuito un’importanza rilevante alla

preparazione ideologica non solo dei militanti comunisti ma delle stesse masse

popolari, al fine di condurre una efficace lotta contro il capitalismo e per il socialismo.

In uno scritto del maggio 1925 pubblicato su “ Lo Stato operaio “ del marzo-aprile

1931 egli afferma infatti che: “Noi sappiamo che la lotta del proletariato contro il 

capitalismo si svolge su tre fronti: quello economico, quello politico e quello 

ideologico, ma la lotta economica non può essere disgiunta dalla lotta politica, e né 

l’una né l’altra possono essere disgiunte dalla lotta ideologica. Perché la lotta 

sindacale, diventi un fattore rivoluzionario, occorre che il proletariato l’accompagni 

con la lotta politica, cioè che il proletariato abbia coscienza di essere il protagonista 

di una lotta generale che investe tutte le questioni più vitali dell’organizzazione 

sociale, cioè abbia coscienza di lottare per il socialismo. I tre fronti della lotta 

proletaria si riducono ad uno solo, per il Partito della classe operaia, che è tale, 

appunto, perché riassume e rappresenta tutte le esigenze della lotta generale. Perciò 

il Partito deve assimilare il marxismo e deve assimilarlo nella sua forma attuale, 

come leninismo.

Aspra e sferzante è infatti, a questo proposito, la critica di Gramsci alle

tradizioni del movimento operaio italiano: “L’attività teorica, la lotta cioè sul fronte 

ideologico, è sempre stata trascurata nel movimento operaio italiano. In Italia, il 

marxismo (all’infuori di Antonio Labriola) è stato studiato più dagli intellettuali 

borghesi, per snaturarlo e rivolgerlo ad uso della politica borghese, che dai 

rivoluzionari. Mai, le Direzioni del Partito immaginarono che per lottare contro la 

ideologia borghese, per liberare cioè le masse dalla influenza del capitalismo, 

occorresse prima diffondere nel Partito stesso la dottrina marxista ed occorresse 

difenderla da ogni contraffazione. Per lottare, quindi, contro la confusione che si è 

andata in tal modo creando, è necessario che il Partito intensifichi e renda 

sistematica la sua attività nel campo ideologico, che esso ponga come un dovere del 

militante la conoscenza della dottrina del marxismo-leninismo, almeno nei suoi 

termini più generali.

E ancora, sempre nello stesso scritto, in merito all’organizzazione del Partito:

Il nostro Partito non è un partito democratico, almeno nel senso volgare che 

comunemente si dà a questa parola. E’ un Partito centralizzato nazionalmente ed 

internazionalmente. Perché il Partito viva e sia a contatto con le masse occorre che 

ogni membro del Partito sia un elemento politico attivo, sia un dirigente. Appunto 

perché il Partito è fortemente centralizzato, si domanda una vasta opera di 

propaganda e di agitazione nelle sue file, è necessario che il Partito, in modo 

organizzato, educhi i suoi membri e ne elevi il livello ideologico per guidare, in 

qualunque condizione, la lotta della classe operaia e delle masse popolari. La 

preparazione ideologica di massa è quindi una necessità della lotta rivoluzionaria, è 

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una delle condizioni indispensabili della vittoria.

Il Partito Comunista  

In diversi momenti della sua vicenda politica ed umana, Antonio Gramsci ha

trattato il tema della funzione storica e dell’organizzazione del Partito Comunista. In

un articolo pubblicato su “ L’Ordine Nuovo “ del 4 settembre e 9 ottobre del 1920 egli

afferma : “Il Partito Comunista è lo strumento e la forma storica del processo di 

intima liberazione per cui l’operaio da esecutore diviene iniziatore, da massa diviene 

capo e guida, da braccio diviene cervello e volontà; nella formazione del Partito 

Comunista è dato cogliere il germe di libertà che avrà il suo sviluppo e la sua piena 

espansione dopo che lo Stato operaio avrà organizzato le condizioni materiali 

necessarie. Il Partito Comunista, anche come mera organizzazione si è rivelato forma 

particolare della rivoluzione proletaria, compiuta dagli uomini e dalle donne 

organizzati nel Partito Comunista, che nel Partito si sono plasmati una personalità 

nuova, hanno acquistato nuovi sentimenti, hanno realizzato una vita morale che tende 

a divenire coscienza universale e fine per tutta l’umanità.

E, ancora, in un articolo su “L’Ordine Nuovo” dell’11 giugno 1921: “Il Partito 

comunista è il partito politico, storicamente determinato, della classe operaia 

rivoluzionaria. La classe operaia è nata e s’è organizzata sul terreno della 

democrazia borghese, nel quadro del regime costituzionale e parlamentare. Ecco 

perché,nelle varie fasi del suo sviluppo, essa ha appoggiato i partiti politici più 

diversi. Con la creazione del Partito Comunista, la classe operaia rompe tutte le 

tradizioni ed afferma la sua maturità politica. Essa vuole lavorare positivamente per 

il proprio sviluppo autonomo di classe; essa pone la sua candidatura a classe 

dirigente ed afferma di poter esercitare questa funzione storica solo in un ambiente 

istituzionale diverso dall’attuale, in un nuovo sistema statale e non già nel quadro 

dello Stato parlamentare burocratico.

Sindacati e Consigli  

Il ruolo dei consigli di fabbrica come cellula del futuro Stato operaio è stato

uno dei temi su cui Antonio Gramsci ha più riflettuto e scritto. Così, nell’editoriale de

“ L’Ordine Nuovo “ del 11 ottobre 1919 leggiamo: “L’organizzazione proletaria che 

si riassume, come espressione totale della massa operaia e contadina, negli uffici 

centrali della Confederazione del Lavoro, attraversa una crisi costituzionale. Gli 

operai sentono che il complesso della “ loro “ organizzazione è diventato tale enorme 

apparato, che ha finito per ubbidire a leggi proprie, intime alla sua struttura ed al suo 

complicato funzionamento, ma estranee alla massa che ha acquistato coscienza della 

sua missione storica di classe rivoluzionaria. 

 La dittatura proletaria può incarnarsi in un tipo di organizzazione che sia 

specifico della attività propria dei produttori e non dei salariati, schiavi del capitale. 

Il Consiglio di fabbrica è la cellula prima di questa organizzazione. Poiché nel 

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Consiglio tutte le branche del lavoro sono rappresentate, proporzionalmente al 

contributo che ogni mestiere ed ogni branca di lavoro dà alla elaborazione 

dell’oggetto che la fabbrica produce per la collettività, l’istituzione è di classe e 

sociale. Perciò il Consiglio realizza l’unità della classe lavoratrice, da alle masse una 

coesione ed una forma della stessa natura di quella da esse assunte nella 

organizzazione generale della società. Il Consiglio di Fabbrica è il modello dello 

Stato proletario. L’esistenza del Consiglio dà agli operai la diretta responsabilità 

della produzione, li conduce a migliorare il loro lavoro, instaura una disciplina 

cosciente e volontaria, crea la psicologia del produttore, del creatore di storia.

Il Vaticano e l’Italia  

Particolarmente netto ed inequivocabile è il giudizio di Antonio Gramsci sul

Concordato fra Stato italiano ed il Vaticano compreso nei Patti Lateranensi siglati l’11

febbraio 1929 fra regime fascista e Chiesa Cattolica. Nei “ Quaderni del carcere”,

infatti leggiamo: “La capitolazione dello Stato moderno che si verifica per il 

concordato viene mascherata identificando verbalmente concordato e trattati 

internazionali. Ma un concordato non è un comune trattato internazionale: nel 

concordato si realizza, di fatto, una interferenza di sovranità in un solo territorio 

statale, poiché tutti gli articoli di un concordato si riferiscono ai cittadini di uno solo 

degli stati contraenti, sui quali il potere sovrano di uno Stato estero giustifica e 

rivendica determinati diritti e poteri di giurisdizione. Il concordato intacca in modo 

essenziale il carattere di autonomia della sovranità dello Stato moderno. La Chiesa, 

in cambio, si impegna verso una determinata forma di governo di promuovere quel 

consenso di una parte dei governati che lo Stato esplicitamente riconosce di non poter 

ottenere con mezzi propri, mentre quest’ultimo riconosce pubblicamente ad una casta 

di suoi cittadini determinati privilegi politici.

La questione meridionale  

A questo tema dedichiamo un ampio capitolo di questo documento, frutto delle

riflessioni aggiornate e della ricerca dei nostri militanti. Qui ci limitiamo, quindi, a

citare un brano de “ L’Ordine Nuovo “ del 3 gennaio 1920 che dimostra la

concretezza programmatica del pensiero di Gramsci come base per la formazione di

un blocco sociale di alleanza popolare. “La  borghesia settentrionale ha soggiogato 

l’Italia meridionale e le isole e le ha ridotte a colonie di sfruttamento; il proletariato 

settentrionale, emancipando se stesso dalla schiavitù capitalistica,emanciperà le 

masse contadine meridionali asservite alla banca ed all’industrialismo parassitario 

del Settentrione. La rigenerazione economica e politica dei contadini non deve essere 

ricercata in una divisione delle terre incolte e mal coltivate, ma nella solidarietà del 

proletariato industriale, che ha bisogno, a sua volta, della solidarietà dei contadini, 

che ha interesse a che il capitalismo non rinasca economicamente dalla proprietà 

terriera e che l’Italia meridionale e le isole non diventino una base militare di 

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controrivoluzione capitalistica. Imponendo il controllo operaio sull’industria, il 

proletariato rivolgerà l’industria alla produzione di macchine agricole per i contadini 

di stoffe e calzature per i contadini, di energia elettrica per i contadini; impedirà che , 

più oltre, l’industria e la banca sfruttino i contadini e li soggioghino come schiavi alle 

loro casseforti. Spezzando l’autocrazia nella fabbrica, spezzando l’apparato 

oppressivo dello Stato capitalistico, instaurando lo Stato operaio che soggioghi i 

capitalisti alla legge del lavoro utile, gli operai spezzeranno tutte le catene che 

tengono avvinghiato il contadino alla sua miseria, alla sua disperazione; instaurando 

la dittatura operaia, avendo in mano le industrie e le banche,il proletariato rivolgerà 

l’enorme potenza dell’organizzazione statale per sostenere i contadini nella loro lotta 

contro i proprietari, contro la natura, contro la miseria; darà il credito ai contadini, 

instituirà le cooperative, garantirà la sicurezza personale e dei beni contro i 

saccheggiatori, farà le spese pubbliche di risanamento e di irrigazione. Farà tutto 

questo perché è suo interesse dare incremento alla produzione agricola, avere e 

conservare la solidarietà delle masse contadine, rivolgere la produzione industriale a 

lavoro utile di pace e di fratellanza fra città e campagna, tra Settentrione e 

Mezzogiorno”.

In merito al confronto ideologico nel PCU(b) 

Nella seconda metà degli anni ’20, nel PCU(b) ( che diventerà PCUS nel 1952)

divampa un duro scontro politico sulle modalità e le forme di costruzione del

socialismo che vedono contrapposte la maggioranza guidata da Stalin e la minoranza

guidata da Trockij, Zinov’ev e Kamenev. Antonio Gramsci il 14 ottobre 1926 scrive

una lettera riservata, da lui firmata a nome dell’Ufficio Politico del PCdI ed inviata a

Mosca. In essa, dopo aver espresso attenzione e preoccupazione si afferma: “L’Ufficio 

Politico del PCdI ha studiato, con la maggiore diligenza ed attenzione che le erano 

consentite, tutti i problemi che oggi sono in discussione nel Partito Comunista dell’ 

Unione. Noi, finora abbiamo espresso un’opinione di Partito solo sulla questione 

strettamente disciplinare delle frazioni. Dichiariamo ora che riteniamo 

fondamentalmente giusta la linea politica della maggioranza del CC del Partito 

Comunista dell’ Unione. Ci impressiona il fatto che l’atteggiamento delle opposizioni 

investa tutta la linea politica del CC toccando il cuore stesso della dottrina leninista e 

dell’azione politica del Partito dell’Unione. E’ il principio e la pratica della dittatura 

del proletariato che vengono posti in discussione, sono i rapporti fondamentali di 

alleanza tra operai e contadini che vengono turbati e messi in pericolo, cioè i pilastri 

dello Stato operaio e della Rivoluzione. E’ questo per noi l’elemento essenziale delle 

vostre discussioni, è in questo elemento la radice degli errori del blocco delle 

opposizioni e l’origine dei pericoli latenti che nella sua attività sono contenuti. Nella 

ideologia e nella pratica del blocco delle opposizioni rinasce in pieno tutta la 

tradizione della socialdemocrazia e del sindacalismo, che ha impedito finora al 

proletariato occidentale di organizzarsi in classe dirigente.”. Il pieno appoggio alla

linea della maggioranza del CC del PCU(b), guidata da Stalin, smentisce il presunto

22

antistalinismo, in mala fede attribuito a Gramsci dai suoi esegeti opportunisti e

revisionisti, fuori e dentro il PCI.

Egemonia, guerra manovrata e guerra di posizione 

Una delle più disoneste manipolazioni del pensiero gramsciano, forse la

peggiore, viene attuata dai suoi esegeti revisionisti distorcendo il concetto di

egemonia, centrale in tutta la sua elaborazione, contrapponendolo al concetto leninista

di dittatura proletaria. Lo scopo dell’operazione consiste nel tentativo di attribuire a

Gramsci la paternità ideale e teorica dell’accettazione revisionista e opportunista della

democrazia borghese, del parlamentarismo e delle forme legali di lotta come valori

universali. Partendo da una falsa contrapposizione del “Gramsci immaturo”, cioè del

dirigente rivoluzionario dell’Ordine Nuovo e delle lotte del Biennio Rosso, al

“Gramsci maturo” delle riflessioni carcerarie, ridotto al ruolo di filosofo speculativo, i

revisionisti cercano di spacciare il naturale sviluppo, anche autocritico, del pensiero

gramsciano in merito alla sconfitta delle insurrezioni operaie del 1919-1920 come un

“salto” (Paolo Spriano), una presa di distanza dalla teoria rivoluzionaria di tipo

leninista.

Certamente, la manipolazione viene resa più facile dal linguaggio in codice che

Gramsci è costretto ad usare per evitare le maglie della censura carceraria, per cui, in

tutti i suoi scritti dalla prigionia, uno stesso termine viene utilizzato con significati

diversi, a volte etimologici, altre volte come alias di concetti che, per ragioni di

sicurezza, non potevano essere definiti col loro nome. Tuttavia, una lettura attenta e

priva di malafede consente di desumere dal contesto il giusto significato.

E’ il caso del concetto di egemonia. In alcuni casi viene usato con il significato

etimologico di “guida, capacità di direzione”, in altri è sinonimo criptato di dittatura

proletaria. Su questa apparente ambiguità il revisionismo ha imbastito l’assurdo

teorema della presunta opzione gramsciana per uno stato operaio, basato sulla sola

creazione del consenso, che di fatto riconoscerebbe la democrazia borghese, i suoi

istituti e i suoi principi come valori universali, cioè a prescindere dal loro contenuto di

classe. Nulla di più falso! Lasciamo alle parole di Gramsci il compito di confutare

questa menzogna: “... la supremazia di un gruppo sociale si manifesta in due modi, 

come «dominio» e come «direzione intellettuale e morale». Un gruppo sociale è 

dominante dei gruppi avversari che tende a «liquidare» o a sottomettere anche con la 

forza armata ed è dirigente dei gruppi affini o alleati. Un gruppo sociale può e anzi 

deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una 

delle condizioni principali per la stessa conquista del potere); dopo, quando esercita 

il potere e anche se lo tiene saldamente in pugno, diventa dominante, ma deve 

continuare ad essere anche «dirigente»” (A. Gramsci, Quaderni del Carcere, ed.

Einaudi 1975, p. 2010-2011). Nel concetto di egemonia, Gramsci sottolinea l’unità

dialettica tra dominio e direzione, tra coercizione e consenso, tra forza e convinzione

e, così facendo, ribadisce la concezione leniniana della dittatura proletaria come la più

alta forma di creazione del consenso all’interno del blocco sociale coagulato intorno

23

alla classe operaia, ma anche come la più implacabile forma di coercizione,  anche

violenta, del blocco avversario. E ancora: “Il proletariato può diventare classe 

dirigente e dominante nella misura in cui riesce a creare un sistema di alleanze di 

classe che gli permetta di mobilitare contro il capitalismo e lo Stato borghese la 

maggioranza della popolazione lavoratrice…” (A. Gramsci, La costruzione del Partito

Comunista, ed. Einaudi, 1971, p. 140).

E’ la riproposizione della politica delle alleanze della classe operaia concepita

da Lenin come condizione imprescindibile per il successo della rivoluzione e

l’instaurazione della dittatura proletaria. Gramsci, giustamente, si sofferma spesso

sulla componente consensuale dell’egemonia, in quanto cruciale per la creazione e la

tenuta del blocco sociale rivoluzionario. L’esercizio dell’egemonia dipende dalla

capacità di “dare soluzioni concrete ai problemi concreti” delle masse non proletarie,

di far comprendere loro che l’attuazione degli interessi proletari coincide con la

realizzazione dei loro stessi interessi, che la classe operaia, liberando sé stessa, libera

l’intera società. L’egemonia è quindi anche capacità “… di conservare l’unità 

ideologica di tutto il blocco sociale che appunto da quella determinata ideologia è 

cementato e unificato.” (A. Gramsci, Il Materialismo storico e la filosofia di

Benedetto Croce, Editori Riuniti, p. 7), allo scopo di mantenere unito un blocco

sociale disomogeneo e con contraddizioni di classe interne (pensiamo, ad esempio,

alla contraddizione tra l’elemento operaio e quello piccolo-borghese contadino). In

qualsiasi blocco sociale, questa “universalità” della classe egemone è affermata dagli

intellettuali a lei organici, la cui funzione è appunto quella di garantire la tenuta e la

compattezza del blocco sociale sul piano ideologico. Nel caso del proletariato, questa

funzione è svolta dal partito rivoluzionario, il “moderno principe”, intellettuale

collettivo organicamente legato alla classe operaia, che non si limita alla semplice

creazione del consenso, ma agisce sulla realtà trasformandola, in un’inscindibile

legame tra teoria e prassi, tra idea e azione.

Nella sua radicale critica al meccanicismo del marxismo volgare, Gramsci

ammonisce che il capitalismo è in grado di superare anche la più rivoluzionaria delle

crisi; il capitalismo non cade da solo se manca l’azione del soggetto rivoluzionario,

cioè del partito e in questo individua le cause della sconfitta del Biennio Rosso 1919-

1920: le condizioni oggettivamente rivoluzionarie, determinatesi dopo la guerra

imperialista mondiale, hanno dato vita ad un forte movimento insurrezionale del

proletariato, la cui sconfitta è dovuta al difetto di condizioni soggettive, cioè alla

mancanza di un partito rivoluzionario. Con buona pace dei revisionisti, Gramsci non

ha alcun ripensamento né sul merito, né sulle forme di lotta, ma constata

semplicemente il dato di fatto dell’assenza, in quella fase, di un partito comunista,

capace di organizzare la lotta insurrezionale e guidarla alla vittoria.

Come in Gramsci è chiarissimo il ruolo dei consigli di fabbrica come embrione

e modello della futura statualità proletaria, che ci autorizza “…ad affermare che il 

soviet è una forma universale e non è un istituto russo e solamente russo…” (A.

Gramsci, Ordine Nuovo, ed. Einaudi, 1954, p. 147), così è altrettanto esplicita in lui la

funzione del partito in condizioni di dittatura proletaria: “… il partito comunista educa 

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il proletariato ad organizzare la sua potenza di classe e a servirsi di questa potenza 

armata per dominare la classe borghese e determinare le condizioni in cui la classe 

sfruttatrice sia soppressa e non possa rinascere. Il compito del partito comunista 

nella dittatura è dunque questo: organizzare potentemente e definitivamente la classe 

degli operai e dei contadini in classe dominante; controllare che tutti gli organismi 

del nuovo Stato svolgano realmente opera rivoluzionaria; rompere i diritti e i rapporti 

antichi inerenti al principio della proprietà privata” (A. Gramsci,  Ordine Nuovo, ed.

Einaudi, 1954, p. 42). Un partito, quindi, che è fulcro e direzione del potere operaio,

che ne verifica l’attuazione pratica e che si pone fuori e al di sopra della legalità e del

diritto finora vigenti. Nulla a che vedere con la via revisionista, imboccata

successivamente dai gruppi dirigenti del partito fondato da Gramsci.

L’altra grande mistificazione revisionista trae lo spunto da diversi scritti, in cui

Gramsci analizza la fine della fase rivoluzionaria immediatamente successiva alla

guerra imperialista mondiale e alla Rivoluzione d’Ottobre, in Italia e in Europa,

ragionando di “guerra manovrata e guerra di posizione”. Premesso che dobbiamo

avere sempre ben presente che si tratta di riflessioni esposte in forma di appunti,

quindi prive di organicità, in una situazione di costrizione fisica e psicologica, le quali,

pertanto, non possono assumere il valore di un’opera compiuta, redatta in condizioni

di libertà, né tanto meno essere erette a dogma indiscutibile, anche in questo caso ci

sembra comunque forzata in estrema malafede l’interpretazione che di questi concetti

hanno dato i revisionisti. In posizione di forte critica all’interpretazione trotzkista della

concezione marxiana di “rivoluzione permanente”, Gramsci scrive: “E’ da vedere se la 

famosa teoria di Bronstein [Trotzki] sulla permanenza del movimento non sia il 

riflesso politico della teoria della guerra manovrata …, in ultima analisi il riflesso 

delle condizioni generali-economiche-culturali-sociali di un paese in cui i quadri 

della vita nazionale sono embrionali e non possono diventare «trincea o fortezza». In 

questo caso, si potrebbe dire che Bronstein, che appare come un «occidentalista» era 

invece un cosmopolita, cioè superficialmente nazionale e superficialmente 

occidentalista o europeo. Invece Ilici [Lenin] era profondamente nazionale e 

profondamente europeo. … Mi pare che Ilici aveva compreso che occorreva un 

mutamento dalla guerra manovrata, applicata vittoriosamente in Oriente nel 1917, 

alla guerra di posizione che era la sola possibile in Occidente … Questo mi pare 

significare la formula del «fronte unico» … In Oriente lo Stato era tutto, la società 

civile era primordiale e gelatinosa; nell’Occidente … lo Stato era solo una trincea 

avanzata dietro cui stava una robusta catena di fortezze e casematte; più o meno, da 

Stato a Stato, si capisce, ma questo appunto domandava un’accurata ricognizione di 

carattere nazionale.” (A. Gramsci, Quaderni del Carcere, ed. Einaudi 1975, p. 866-

865). E ancora: “ Questa mi pare la questione di teoria politica la più importante, 

posta dal periodo del dopo guerra e la più difficile ad essere risolta giustamente. Essa 

è legata alle questioni sollevate dal Bronstein, che in un modo o nell’altro, può 

ritenersi il teorico politico dell’attacco frontale in un periodo in cui esso è solo causa 

di disfatta. Solo indirettamente questo passaggio nella scienza politica è legato a 

quello avvenuto nel campo militare, sebbene certamente un legame esista ed 

25

essenziale. La guerra di posizione domanda enormi sacrifici a masse sterminate di 

popolazione; perciò è necessaria una concentrazione inaudita dell’egemonia e quindi 

una forma di governo più «intervenzionista», che più apertamente prenda l’offensiva 

contro gli oppositori e organizzi permanentemente «l’impossibilità» di disgregazione 

interna: controlli di ogni genere, politici, amministrativi ecc., rafforzamento delle 

«posizioni» egemoniche del gruppo dominante ecc. Tutto ciò indica che si è entrati in 

una fase culminante della situazione politico-storica, poiché nella politica la «guerra 

di posizione», una volta vinta, è decisiva definitivamente.” (A. Gramsci, Quaderni del

Carcere, ed. Einaudi 1975, p. 801-802).

Anche di queste considerazioni di Gramsci si sono serviti, stravolgendole, i

teorici revisionisti per affermare una sua presunta presa di distanza dall’esperienza

dell’Ottobre sovietico e dell’insurrezione armata, attribuendogli, a sproposito, la

paternità di una concezione gradualistica del processo rivoluzionario. Il tentativo

manifesto della manipolazione è quello di dare nobili natali alle successive deviazioni

revisioniste che hanno portato alla mutazione genetica e alla dissoluzione del PCI,

dall’accettazione aprioristica della democrazia e della legalità borghesi, alla

concezione di una via parlamentare al socialismo, alla partecipazione condivisa e

convinta alle istituzioni dello Stato borghese, anche a quelle non elettive. Nulla di

tutto ciò è presente nell’opera, teorica e pratica, di Gramsci.

Intanto, per capire la riflessione gramsciana, occorre tenere ancora una volta presente

il momento storico in cui scrisse questi appunti, contenuti nei Quaderni N° 6 e N° 7,

cioè dal 1930 al 1932 e, soprattutto, circoscriverla al reale oggetto di analisi. Sono

passati più di dieci anni dalla sconfitta delle insurrezioni operaie del Biennio Rosso in

Italia e dei tentativi rivoluzionari in Polonia, Ungheria e Germania. Il movimento

operaio è uscito battuto da quelle esperienze, l’ondata rivoluzionaria si è arrestata, è

iniziata una fase controrivoluzionaria, con l’ormai decennale affermazione del

fascismo in Italia e l’ascesa del nazismo in Germania, il tentativo di fermare il

fascismo sul piano militare, con l’esperienza degli Arditi del Popolo e delle Squadre

d’Azione Comunista, è fallito. D’altro canto, l’Unione Sovietica non solo resiste, ma

cresce. Su questi fatti, storicamente circoscritti, riflette Gramsci, valutando le tattiche

che il movimento operaio aveva applicato nei dieci anni trascorsi dalla fine dei

tentativi rivoluzionari, interrogandosi sulle ragioni della sconfitta. La riflessione

avviene tenendo conto della lotta tra la linea della maggioranza del PCU(b), guidata

da Stalin, contro le posizioni di Trotzki, ormai espulso dal partito e dall’Unione

Sovietica.

Nel primo testo citato, Gramsci si riferisce al fallimento delle insurrezioni

operaie in Europa – e solo a quelle -, non all’esperienza dell’Ottobre. Usa il passato,

quindi non fa affermazioni a valenza generale, ma a valenza particolare, con precisa

collocazione spazio-temporale; ragiona di tattica, non di strategia, cioè non mette in

discussione né l’obiettivo (la dittatura proletaria), né il metodo in sé (l’insurrezione

armata), ma acutamente rileva l’inadeguatezza dell’applicazione di una tattica in sé

giusta nel momento sbagliato, cioè quando ormai era incominciata la fase

controrivoluzionaria; giustamente fa notare l’assenza di una “ricognizione” preventiva,

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di un’analisi scientifica dei rapporti di forza reali all’interno di ciascun paese.  E’

questa la lezione storica che Gramsci trae dalle vicende degli anni 1919-1920 in

“Occidente”, cioè in Europa: la maggiore articolazione della società civile in questi

paesi rispetto “all’Oriente”, alla Russia e il sostanziale equilibrio tra società civile e

società politica, tra apparato di creazione del consenso e apparato di dominio,

influiscono sui rapporti di forza tra le classi e rendono necessario un intenso ed

efficace lavoro per la conquista dell’egemonia e la costruzione del blocco sociale

rivoluzionario prima (prima, non invece!) dell’assalto frontale, per crearne le

condizioni. In sostanza, una tattica non esclude l’altra, ma, a seconda della situazione

reale, la guerra di posizione può servire a creare le condizioni soggettive per la guerra

di movimento. Gramsci non dice che in Occidente l’unica tattica praticabile in

qualsiasi tempo è quella della guerra di posizione, ma dice che nel 1919-1920, in quel

preciso periodo storicamente determinato, questa sarebbe stata l’unica tattica

applicabile in Europa.

Nel secondo brano riportato più sopra, Gramsci sviluppa ulteriormente ciò che

Lenin aveva compreso già nel 1921, cioè che l’ondata rivoluzionaria si era arenata e

che un assalto frontale al capitalismo in Europa sarebbe stato destinato al fallimento e

avrebbe messo in pericolo la sopravvivenza stessa del primo stato proletario al mondo.

Lenin, Stalin e Gramsci, in forte sintonia e in contrapposizione all’avventurismo

trotzkista, capiscono che è giunto il momento di passare alla guerra di posizione, cioè

ad erigere quelle “trincee e casematte”, questa volta proletarie, che avrebbero

consolidato la costruzione del socialismo “in un paese singolarmente preso”. Per

Gramsci il passaggio a questa nuova, durissima, fase di guerra di posizione comporta

una concentrazione inaudita dell’egemonia”. Emerge in questo suo scritto il nesso

dialettico tra direzione e dominio all’interno del termine “egemonia”,  che viene a

coincidere con quello di dittatura proletaria.

La guerra di posizione, quindi, è una tattica, determinata dalle concrete

condizioni storiche, applicabile sia alla fase preparatoria dell’assalto rivoluzionario, sia

alla fase successiva di costruzione del socialismo. Non è, per Gramsci, l’alternativa

all’abbattimento violento della società borghese” (K. Marx, F. Engels, Il Manifesto

del Partito Comunista), né è sinonimo di via parlamentare, che non è guerra, ma

compartecipazione, né comporta l’osservanza della legalità borghese, così come la

“conquista delle trincee e delle casematte” non significa affatto l’insediamento,

lautamente retribuito, nelle istituzioni borghesi. Neppure implica una visione

gradualistica, per cui prima si dovrebbe conquistare l’egemonia e poi il potere. Anche

a volere scindere i due concetti, intendendo l’egemonia come sola capacità di

direzione e non anche come esercizio del dominio, è evidente che, se teniamo presente

il nesso indissolubile tra teoria e prassi che caratterizza tutto il pensiero gramsciano,

l’egemonia non può che costruirsi attraverso l’azione concreta  per la conquista del

potere, attraverso l’iniziativa rivoluzionaria.

 

Sono questi solo alcuni frammenti dell’articolato e profondo pensiero di

Antonio Gramsci su alcuni dei principali temi della sua elaborazione e della sua

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battaglia politica “nel mondo grande e terribile”, come era solito chiamare il contesto

in cui si trovò ad operare. Da essi i comunisti possono, ancor oggi, trarre spunto ed

ispirazione per la loro lotta, in un mondo non meno “grande e terribile” di quello in

cui visse e lottò il fondatore del Partito Comunista d’Italia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

28

4) Il revisionismo italiano, dal dopoguerra fino al PD. 

 

 

C’è sempre un inizio. Come il virus infetta il corpo, come la ruggine logora il

ferro. Ci chiediamo: cosa ha portato la grande esperienza storica e politica dei

comunisti in Italia alla irrilevanza politica e alla miseria odierna? Durante questo

percorso, su cui ha certo inciso anche il contesto esterno, ci sono state frenate e

accelerazioni, avanzate ed anche sconfitte. Alla fine il più grande partito comunista

d’Occidente – il partito di Antonio Gramsci – è arrivato alla sua consunzione. E’

chiaro che chi, come noi, vuole ricostruire un vero Partito Comunista in Italia, non

può esimersi da una analisi seria e approfondita di questi perché. Non affretteremo

conclusioni che solo con un percorso condiviso di rilettura del passato si potranno

avere, ma è utile fare un po’ di chiarezza qui ed  ora. Abbiamo ritenuto strategico

analizzare la storia del PCUS e dell’URSS, serve farlo anche per l’ Italia, il nostro

Paese.

 

La temperie in cui Palmiro Togliatti dirige il PCI post-resistenziale era

innegabilmente avversa ad una reale possibilità di ‘fare la rivoluzione’ in Italia. Detto

questo, non si può ignorare in che misura ed in che cosa Togliatti abbia fatto, o non

abbia fatto, nel fare pesare i ‘rapporti di forza’ nell’arena italiana. Non essendo

trotzkisti, non saremo così falsi e faziosi nel dire che il “tradimento” della rivoluzione

inizia con la svolta di Salerno, tuttavia sia questa, sia i suoi successivi sviluppi esigono

una riflessione più approfondita che il nostro Partito dovrà affrontare. Sarebbe infatti

troppo semplicistico liquidarla come un “tradimento”, sic et simpliciter. Nelle date

condizioni del 1944 il PCI, con il Nord del Paese occupato dai tedeschi e dai loro servi

fascisti e il Sud “liberato” dagli angloamericani (che appoggiano la monarchia e il

debole governo Badoglio), lavorò per emarginare le posizioni attendiste di chi voleva

delegare agli eserciti alleati la liberazione dell’Italia, coinvolgendo invece le masse

popolari nello sforzo, anche militare, antifascista. La linea del Congresso di Bari, che

ribadiva la pregiudiziale antimonarchica e propugnava il rovesciamento di Badoglio e

la sostituzione del suo governo con un governo del CLN, si stava rivelando

impraticabile e paralizzante.

 

E’ opportuno riportare quanto scrive a questo proposito Pietro Secchia: «Se 

non ci fosse stata la guerra e la necessità di vincerla per schiacciare il nazismo, noi 

avremmo potuto e saputo risolvere rapidamente la situazione con un’azione 

rivoluzionaria delle masse. Ma appunto perché c’è la guerra, che è malgrado tutto la 

nostra guerra, dobbiamo tutti evitare che le masse, giustamente esasperate da una 

situazione che non è più tollerabile, tentino di risolvere spontaneamente la situazione 

in forme che potrebbero essere una limitazione dello sforzo di guerra.» [P. Secchia, Il

Partito comunista italiano e la guerra di Liberazione, Feltrinelli, Milano, 1975 ]; e, più

oltre: «Il Consiglio nazionale del PCI iniziò i suoi lavori a Napoli il 30 marzo con un 

rapporto di Velio Spano sulla situazione del paese e del partito, dal quale emergevano 

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l’imbarazzo di chi era ormai convinto dell’impossibilità di risolvere la situazione 

restando sulle posizioni tattiche del congresso dei CLN di Bari e la logica della 

vecchia impostazione: “costituendo un governo democratico, che è il nostro obiettivo, 

noi faremo fare un passo decisivo in avanti alla situazione italiana e ci metteremo 

contemporaneamente in condizione di dare un maggiore contributo allo sforzo di 

guerra”. Togliatti nel suo intervento, sempre sulla base di un’analisi della situazione 

italiana ed internazionale, impostò la questione in questo modo: “Nessuna libertà 

potrà essere garantita al popolo italiano fino a che i nazisti non saranno stati cacciati 

dal territorio nazionale. Bisogna quindi intensificare lo sforzo di guerra per liberare 

il paese. Costituiamo dunque un governo di unità nazionale e in tal modo faremo fare 

anche un passo notevole alla situazione.” Dimostrò che bisognava uscire da una 

situazione caratterizzata dall’esistenza, da una parte, di un governo investito del 

potere ma privo di autorità perché privo dell’adesione dei partiti di massa, dall’altra 

parte di un movimento di massa autorevole, ma escluso dal potere. “Tale situazione, 

mentre alimentava confusione e disordine, stancava e deludeva le masse “creando un 

ambiente favorevole agli intrighi reazionari”. Il Consiglio nazionale approvava 

l’indicazione e l’iniziativa presa dal compagno Togliatti di costituire un governo di 

un’unità nazionale.»  [P. Secchia, Il Partito comunista italiano e la guerra di

Liberazione, Feltrinelli, Milano, 1975 ].

Anche a seguito dell’avvenuto riconoscimento del governo Badoglio da parte

dell’URSS, ai fini di ottimizzare e massimizzare lo sforzo bellico, l’idea di sviluppare,

in quel momento, un fronte di lotta e di alleanze, sociali e politiche, il più ampio

possibile contro un nemico fortissimo e mostruoso, rinviando ad un secondo momento

la questione istituzionale, era di per sé valida e imposta dalle condizioni oggettive (lo

stesso Secchia virgoletta sempre il termine “svolta”).

Si tratta di capire, invece, perché e come questo “compromesso temporaneo”

abbia perso il suo carattere di temporaneità, finendo per oscurare gli obiettivi

rivoluzionari in riferimento alla questione, centralissima per i comunisti, dello stato e

del potere. Assolutamente da respingere la tesi, secondo la quale ciò fu una

conseguenza della Conferenza di Yalta. A Yalta, Stalin, Roosevelt e Churchill non

divisero il mondo in sfere d’influenza talmente definite da segnare per sempre le sorti

dell’Italia in modo netto ed irrevocabile con quella “spartizione”. Infatti nelle

Conferenze di Teheran (1943), della stessa Yalta (febbraio 1945), e Postdam (luglio

1945) si decise in primo luogo del problema tedesco e si definirono ipotesi di assetto

provvisorio delle nazioni europee, in attesa di poter  realizzare il principio

dell’autodeterminazione dei popoli, con la conseguente scelta del sistema sociale.

Crediamo, piuttosto, che le deviazioni dal percorso rivoluzionario originino da errori

di valutazione della situazione e delle prospettive da parte di Togliatti e di parte del

gruppo dirigente del PCI.

L’insegnamento della Terza Internazionale fu fondamentale nella vittoria sul

nazifascismo, consentendo di acquisire stima, fiducia e simpatia da parte delle masse

popolari. Nel corso della Resistenza nei vari paesi europei, i partiti comunisti che ne

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avevano fatto parte, piccoli e clandestini, raccolsero gli elementi migliori espressi

dalla lotta antifascista e crebbero enormemente perché seppero unire al compito della

lotta alla barbarie nazifascista l’obiettivo dell’emancipazione delle classi oppresse. E’

ciò che fece anche il PCI, che crebbe molto, diventando, per numero di aderenti, il

primo partito popolare. Sempre l’eredità delle linee direttive della Terza Internazionale

imponeva di non delegare la liberazione dei popoli agli eserciti alleati, né che la

Resistenza al nazifascismo si manifestasse come fatto spontaneo e disorganizzato

senza riferimenti politici, né ancora che il crollo delle forze dell’Asse comportasse il

ritorno alle forme statuali prebelliche.

Quindi, una volta sconfitto lo Stato fascista, si pensava di sostituirlo con uno

stato di tipo nuovo che non fosse la semplice riedizione del vecchio stato liberale.

Quali dovevano essere le sue caratteristiche? La teoria comunista dello Stato prevede

che, una volta rovesciato il dominio borghese con la rivoluzione, non sia sufficiente

semplicemente sostituirsi alla borghesia alla guida dello stato, ma sia necessario

distruggere la “macchina” dello stato borghese per crearne un’altra, espressione della

nuovo potere proletario. Quale forma concreta doveva assumere il nuovo Stato, su

quale tipo di istituzioni doveva basarsi? Questo problema aveva trovato risposte

sempre più precise con la diffusione delle sollevazioni rivoluzionarie, dalla Comune di

Parigi fino all’Ottobre Sovietico. Gli stati usciti dalla guerra e dalla Resistenza

avevano, invece, forme non ancora definite; il potere non era saldamente e

definitivamente in mano a nessuna delle classi, al relativo potere di una classe faceva

da contrappeso il contro-potere della classe antagonista (dualismo di potere), con

rapporti di forza variabili in base a diversi fattori, tra cui non ultimi i rapporti di forza

internazionali, ma la battaglia per gli assetti istituzionali in Italia non era così definita.

I Comitati di Liberazione Nazionale avrebbero potuto costituire il modello di una

nuova macchina statale, in senso marxista-leninista e in un’accezione estensiva di

fronte popolare, con cui sostituire la vecchia macchina statale, distrutta, nel nuovo

Stato post-resistenziale. Molti Paesi dell’Europa Orientale, sconfitte le componenti

borghesi anche per via parlamentare, diventarono infatti democrazie popolari,

utilizzando quelle forme di coalizione politica e organizzazione statuale che si erano

affermate nella fase resistenziale e risolvendo il dualismo di potere a favore del

proletariato.

Una corretta analisi marxista-leninista dimostra che in Italia, dal 1944 al

1947, si è verificata appunto una tipica situazione di dualismo di potere, dove al potere

“legalmente costituito” della monarchia, della grande borghesia e dei governi che ne

furono espressione, faceva da contraltare il contro-potere di un proletariato che poteva

contare su un’avanguardia, anche armata, di 2.500.000 uomini, inquadrati nelle fila del

PCI, in forte analogia con il dualismo di potere tra governo provvisorio e soviet che si

manifestò nella seconda fase della Rivoluzione Russa. Mentre in Russia il dualismo si

risolverà nel modo che tutti conosciamo, in Italia darà vita al governo di unità

nazionale, del quale faranno parte i partiti antifascisti, compreso il PCI, fino al 1947.

31

Gli errori tattici e di valutazione di Togliatti e della maggioranza del gruppo dirigente

del PCI di quegli anni risultano comprensibili come tali – e non semplicisticamente

liquidabili come tradimento -, solo alla luce di questa analisi.

Un primo errore è costituito dall’accettazione dei meccanismi e delle forme

della democrazia borghese a priori. Fermo restando il rinvio della questione

istituzionale a liberazione avvenuta e guerra terminata, sarebbe stato indubbiamente

più coerente agli insegnamenti del marxismo-leninismo non abbracciare tout court la

soluzione dell’assemblea costituente eletta a suffragio universale (in un paese

disabituato all’esercizio dei diritti democratici, largamente analfabeta e manipolato dai

preti!), ma rimandare a quelle forme di coalizione e organizzazione del potere che

stavano concretamente scaturendo dalla Resistenza. Connesso a questo, il secondo

errore: l’assolutizzazione graduale di un compromesso che sarebbe dovuto essere

temporaneo e limitato al periodo di belligeranza, fino all’accettazione definitiva della

democrazia e delle istituzioni borghesi come unico terreno di lotta. Crediamo che le

cause di queste due deviazioni debbano essere individuate, da un lato, nella

sopravvalutazione delle capacità del Partito di risolvere a favore del proletariato il

dualismo di potere in atto agendo principalmente sul terreno scivoloso della

democrazia parlamentare borghese e, dall’altro lato, dalla sottovalutazione della forza

del Partito e della sua capacità di resistenza e dissuasione di eventuali tentazioni

reazionarie sul terreno a lui più consono, quello dello sviluppo delle lotte di massa,

mai venute meno, neanche durante la clandestinità e la lotta armata. La prima

considerazione ci insegna come non sia scontato che una grande forza organizzativa e

militante si traduca automaticamente in un analogo peso elettorale. Pensiamo al

risultato risicato del referendum monarchia-repubblica o all’insuccesso elettorale del

Fronte Popolare nel 1948. La seconda considerazione spiega il timore, esagerato, delle

possibili reazioni, interne e internazionali, di fronte a qualsiasi radicalizzazione dello

scontro di classe. Pensiamo all’inerzia con cui viene accettata l’esclusione del PCI dal

governo del Paese nel 1947, ma anche all’inserimento dei Patti Lateranensi e del

Concordato nell’art. 7 del progetto di Costituzione per paura di una guerra di religione,

minacciata da Pio XII. La valutazione sbagliata circa la durata e la tenuta dell’unità

antifascista, considerate ormai come scontate, darà origine a provvedimenti quali

l’amnistia ai fascisti e sfocerà poi nell’imprevista espulsione dei comunisti dal

governo. Questa espulsione risolverà definitivamente il dualismo di potere a favore

della borghesia. Infatti, l’analisi storica marxista-leninista ci insegna che le situazioni

di dualismo non sono eterne, ma storicamente determinate e limitate nel tempo, in

quanto vengono risolte, a favore di una classe o dell’altra, dalla dialettica della lotta di

classe in un insieme di condizioni oggettive e soggettive, un fatto che era sfuggito

totalmente alla maggioranza dei dirigenti del PCI di allora.

Lo stato italiano di oggi non ha nulla a che spartire con lo stato nato dalla

Resistenza, in quanto conclamatamente borghese per via della soluzione che il

dualismo trovò nel 1947. Non riconoscendo il dualismo che caratterizzò lo Stato

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italiano nato dalla Resistenza dal 1944 al 1947, i revisionisti e gli opportunisti

identificano lo Stato italiano di oggi con lo Stato post-resistenziale, in una visione

aclassista della storia. Specularmente, tutte le ricostruzioni storiche da parte delle

formazioni estremistiche di ultrasinistra presentano lo Stato italiano dell’immediato

dopoguerra come uno Stato borghese puro e semplice, fin dalla sua nascita,

negando anch’esse il dualismo di potere e la lotta di classe che si svolgeva al suo

interno. Si tratta di una rappresentazione appunto contraria ma simmetrica a quella che

danno i revisionisti.

Il Comitato di Liberazione per l’Alta Italia (CLNAI) aveva nelle brigate

partigiane e nei GAP le massime espressioni organizzative di lotta armata contro il

potere nazifascista. A differenza di quanto avveniva nei CLN delle zone “liberate”

dagli alleati, dove la passività delle masse era pressoché totale, il CLNAI, su spinta

del PCI, si preoccupò costantemente del loro coinvolgimento nella guerra di

liberazione, a partire dall’organizzazione dei grandi scioperi del 1943. Il CLNAI e il

PCI al suo interno avevano ben presente l’indispensabile collegamento tra lotta

partigiana e lotta politica e sociale di massa, magari innescata anche da semplici

rivendicazioni economiche. Queste particolari condizioni fecero maturare vere e

proprie esperienze di governo popolare, guidato dal CLNAI, in forme che avrebbero

potuto essere adottate per la futura organizzazione statuale dell’Italia liberata. Nelle

fabbriche, ad esempio, vennero istituiti i Consigli di Gestione, un embrione di

democrazia consigliare simile a quello sovietico. Le diverse condizioni oggettive nelle

zone occupate dagli angloamericani, la debolezza del PCI in quelle regioni e la

conseguente mancanza di esperienze soggettive analoghe a quelle maturate al Nord,

spiegano il relativo predominio delle “alchimie istituzionali” nel CLN

centrale. Mentre in Alta Italia, liberazione dal nazifascismo ed emancipazione sociale

formano un unico, inscindibile obiettivo, a livello centrale questa unicità viene a

mancare, per cui non solo la battaglia sull’assetto istituzionale, sulla forma, viene

rimandata a tempi successivi, – cosa ammissibile, come già detto -, ma anche la

battaglia sul contenuto sociale del nuovo stato, sulla sua sostanza di classe, sfuma in

una prospettiva temporale indefinita, sacrificata alle sole esigenze dello sforzo bellico.

Fu questo, probabilmente, il più grave errore di valutazione di Togliatti e della

maggioranza del gruppo dirigente del PCI. La “svolta”, comunque, passò a

maggioranza, ma venne interpretata e attuata in modo diverso al Nord, rispetto al

Centro e al Sud. Per Pietro Secchia e il gruppo dirigente del Nord, l’apertura a nuove

forze e componenti sociali, il loro coinvolgimento attivo nella lotta di liberazione non

doveva offuscare gli obiettivi di giustizia e emancipazione, ma favorire la lotta contro

gli elementi antinazionali: attendisti, industriali antifascisti a parole, ma

collaborazionisti nei fatti, alti ufficiali che aiutavano fascisti e tedeschi nella caccia ai

partigiani, doppiogiochisti e così via. A livello centrale, però, si invitava alla cautela e

alla moderazione, per non turbare le componenti più borghesi della coalizione

antifascista. Con il feticcio dell’unità a tutti i costi e della salvaguardia degli equilibri

iniziava, in quegli anni, ad incistarsi nel corpo del partito quel virus del “cretinismo

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parlamentare” che lo avrebbe infettato per tutti gli anni a venire, fino alla sua

dissoluzione.

Nel CNL si manifestarono da subito divergenze sul modo di condurre la lotta

e sulla funzione dei CLN stessi a liberazione avvenuta. La Democrazia Cristiana ed il

Partito Liberale li volevano organi transitori. Per comunisti, azionisti e socialisti,

questi organismi dovevano invece trasformarsi in strumenti di un nuovo ordinamento

politico-sociale.

Il comunista Eugenio Curiel, giovanissimo scienziato e studioso di

marxismo-leninismo, ucciso a Milano dai fascisti pochi giorni prima della Liberazione

a soli 33 anni, teorizzò una forma statuale che indicò come “democrazia progressiva”,

caratterizzandone così la funzione: “ garantire le  condizioni politiche e sociali 

migliori all’opera della ricostruzione, senza assegnare  per questo un confine 

precostituito tra problemi della ricostruzione e problemi dell’edificazione della 

società socialista…dobbiamo lottare perché la democrazia progressiva si realizzi 

superando i limiti e gli ostacoli che le vorranno frapporre le forze reazionarie, 

dobbiamo lottare perché la rottura si operi nelle condizioni a noi più favorevoli, 

quindi in condizioni tali che la rottura venga ad essere la meno costosa possibile per 

la classe operaia e per tutta la nazione”. 

La formulazione della democrazia progressiva fu fatta propria dal PCI al suo

V Congresso. Essa era intesa, nell’accezione di Curiel, come trasformazione

rivoluzionaria dello Stato, che avrebbe dovuto basarsi appunto sui CNL. Va rilevato

come in Curiel siano ben presenti sia il nesso tra liberazione e costruzione del

socialismo, sia l’ineluttabilità della rottura con la borghesia, cioè la temporaneità del

compromesso con questa. Uno Stato di tale genere avrebbe determinato condizioni

massimamente favorevoli per la rottura rivoluzionaria e per la conquista dell’egemonia

da parte dei comunisti. Nel rapporto alla Direzione del PCI del marzo 1945, Pietro

Secchia affermò: “Prima, durante e dopo l’insurrezione, dovremo riuscire a coprire 

le nostre città e le nostre campagne di una rete di migliaia e migliaia di Comitati di 

liberazione, di fabbricato, di villaggio, di officina. Saranno questi gli organismi 

popolari su cui poggia il movimento insurrezionale, sui quali poggerà il governo 

democratico in Italia. Senza questi organismi, base del potere popolare, è vano 

parlare di democrazia progressiva”.

Purtroppo, è difficile trovare una citazione di Togliatti che si riveli in sintonia

con Curiel e Secchia a proposito dei CLN e della democrazia progressiva. “Noi 

desideriamo – disse in un discorso a Napoli nel 1944 -, che al popolo italiano venga 

garantito nel  modo più solenne che, liberato il paese, un’Assemblea nazionale 

costituente, eletta a suffragio universale libero, diretto e segreto, da tutti i cittadini, 

decida delle sorti del  paese e della forma delle istituzioni…Questa posizione è 

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democraticamente la più corretta… Ponendo alla base del nostro programma politico 

immediato la convocazione di un’Assemblea costituente dopo la guerra, ci troviamo 

in compagnia degli uomini migliori del nostro Risorgimento, in compagnia di Carlo 

Cattaneo, di Giuseppe Mazzini e di Giuseppe Garibaldi, e in questa compagnia ci 

stiamo bene”.  

 

Togliatti non si richiama evidentemente alla storia e al patrimonio ideale del

proletariato Al già citato errore, la scelta aprioristica delle forme della democrazia

borghese a scapito delle forme che scaturivano direttamente dalla lotta partigiana e

popolare e alla dubbia scelta delle compagnie, almeno per quanto riguarda Cattaneo e

Mazzini, somma qui un altro, esiziale errore: la concezione della Resistenza come

questione di indipendenza nazionale a prescindere dai suoi contenuti e motivazioni

sociali, come continuazione ideale del Risorgimento. Gramsci definì il Risorgimento

come “rivoluzione incompiuta”, mettendo in luce la debolezza e lo spirito

compromissorio della borghesia italiana, incapace di costruire fino in fondo il proprio

stato nazionale senza un compromesso di classe con l’ancien régime. Stalin, nel saluto

alle delegazioni estere, presenti al XIX Congresso del PCUS, sottolineò come fosse

compito dei comunisti “raccogliere le bandiere che la borghesia lascia cadere” nella

corsa alla massimizzazione del profitto, perseguita calpestando i principi stessi delle

rivoluzioni borghesi. Tuttavia, per Gramsci come per Stalin, il compimento della

rivoluzione borghese, inteso come realizzazione effettiva dei proclamati principi di

libertà e eguaglianza, può avvenire compiutamente solo “dopo” la rivoluzione

socialista, non “invece” di questa. E’ evidente come, con queste premesse, la

democrazia progressiva venga svuotata di ogni contenuto rivoluzionario, per diventare

una chimera all’insegna di un gradualismo che nulla ha a che vedere con

l’insegnamento marxista-leninista. L’idea che fosse possibile “superare” il capitalismo

attraverso la sola via parlamentare e con graduali riforme che introducessero

“elementi di socialismo” era e rimane infondata e antiscientifica.

In merito alla mancanza delle condizioni oggettive per una rivoluzione proletaria,

Pietro Secchia, allora responsabile dell’organizzazione del PCI, fece saggiamente

notare (per quei tempi una precisazione del genere suonava come una critica

serratissima) che “..tra il fare l’insurrezione e non far nulla ce ne passa..” ed è chiaro

che il riferimento era diretto alla politica togliattiana, che scelse la via istituzionale

come strategica sin dal 1944, quando l’esperienza di governo popolare dei CLN

avrebbe potuto porre altre prospettive. La cacciata dei comunisti dal governo nel 1947

segnò il punto di non ritorno di tale strategia: quell’evento così significativo non ebbe

alcuna reazione, neanche uno sciopero generale politico, al massimo qualche strillo

sull’Unità.

Si può, quindi, affermare che il PCI, dopo la Liberazione, abbia perso “a

tavolino” la battaglia per la conquista del potere, senza aver mai tentato neppure di

ingaggiarla. In tutti i momenti decisivi ha prevalso la linea togliattiana della difesa

dello “Stato democratico, nato dalla Resistenza”.

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Dopo quanto detto finora, non si può passare sotto silenzio la politica dei

quadri condotta da Togliatti, con la quale nel PCI di fatto veniva esautorato il gruppo

dirigente proveniente dalla Resistenza, sostituendolo con funzionari certamente di

qualità ma di estrazione borghese, privi dell’esperienza della clandestinità e della

resistenza armata.

Togliatti costruì la svolta dell’VIII Congresso in modo, per quanto possibile,

indolore. Fu indetta la IV Conferenza Nazionale in preparazione del congresso, la

quale decise la sostituzione di ben il 30% dei dirigenti del partito con nuovi

funzionari e quadri politici. “Riguardo all’anzianità del partito, fra i delegati alla IV

Conferenza Nazionale, rispetto al VII Congresso, vi fu un’accresciuta partecipazione

di elementi entrati nel partito dopo il 25 aprile 1945”.

Le conclusioni della Conferenza, di fatto, anticiparono l’VIII Congresso

(1956): fu appunto allontanata dai vertici una gran parte dei dirigenti formatisi nel

fuoco della lotta partigiana, sostituiti da giovani quadri, entrati nel partito dopo il 25

aprile. A quattro giorni dalla chiusura della Conferenza venne formata una nuova

segreteria, dalla quale fu escluso uno dei più prestigiosi rappresentanti della

generazione che aveva combattuto in Spagna e poi in Italia, nella clandestinità e nella

Resistenza: Pietro Secchia. Dall’VIII Congresso in poi, lo stato borghese italiano verrà

identificato con lo “Stato uscito dalla Resistenza”, la cui salvaguardia acritica

diventerà il punto centrale del programma del PCI fino al suo scioglimento. Quel

Congresso sanzionò ufficialmente e irreversibilmente la svolta revisionista-

khruscioviana del PCI. Non a caso Togliatti disse: “Noi comunisti italiani siamo stati 

quel settore che ha dato un maggior contributo alla progressiva elaborazione di 

queste posizioni nuove (XX Congresso del PCUS)…”. “Il XX Congresso ha constatato 

che oggi il socialismo non è più limitato ad uno Stato, ma è diventato un sistema 

mondiale di Stati… Da queste constatazioni sono derivate parecchie conseguenze che 

riguardano il nostro orientamento politico generale, la nostra strategia, la nostra 

tattica. Prima grande conseguenza è la evitabilità della guerra … Il XX  Congresso 

ha ricavato anche la conseguenza che la marcia verso il socialismo prende aspetti 

diversi da quelli che ha avuto nel passato: non è più indispensabile…la via 

dell’insurrezione come si dovette fare in Russia nel 1917; è  possibile giungere ad 

attuazioni socialiste seguendo l’utilizzazione del Parlamento”. 

Con queste parole, pronunciate all’VIII Congresso del PCI, Togliatti assume a

bagaglio ideologico del partito gran parte delle deviazioni revisioniste di Khrusciov,

dalla teoria della coesistenza pacifica e dell’evitabilità della guerra, al parlamentarismo

come percorso per giungere al socialismo. Ci si può chiedere se lo fece convintamente

o sulla base della considerazione della necessità di sostenere comunque l’Unione

Sovietica, soprattutto dopo i fatti di Ungheria. Resta il fatto che quelle scelte

avvieranno definitivamente il PCI sulla strada del revisionismo.

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La storia degli anni successivi dimostra che la borghesia italiana, diventata

nel 1947 detentrice assoluta del potere statale, lo usa con lo scopo manifesto di

piegare la classe operaia e di scompaginare e mettere all’angolo il Partito Comunista.

Gli episodi di repressione e provocazioni negli anni bui del governo Scelba ne sono la

riprova. In questa situazione la politica il PCI si limitò alla difesa del proprio diritto

all’esistenza e alla difesa della legalità “democratica”, incapace di contrattaccare in

modo incisivo. Con il passare degli anni, il feticcio dell’unità interna ha sempre

viziato il dibattito su linea e programma, facendo sì che le divergenze apparissero in

forme attutite, nascoste, ovattate, tali da non rivelarsi mai come contrasti di principio,

in un’errata applicazione del centralismo democratico, tesa solo alla perpetuazione del

gruppo dirigente in carica. Le migliaia di militanti, che avevano dedicato la loro vita

alla passione comunista, ebbero difficoltà sempre più serie ad orientarsi e, tanto più, a

schierarsi.

Per contro, è innegabile il ruolo fondamentale che il PCI ha svolto nel

dopoguerra per l’affermazione dei diritti dei lavoratori, per il miglioramento delle loro

condizioni di vita e di lavoro, ottenendo conquiste significative, ma non irreversibili,

sul piano sociale ed economico. Da qui la nostra difesa del suo ruolo, che

rivendichiamo come parte della nostra storia, tanto dagli attacchi di destra e

reazionari, quanto da quelli dell’estremismo parolaio e avventuristico. Un conto è la

‘nostra’ critica, da comunisti, a Togliatti, che tra l’altro analizzò strutturalmente la

dittatura italiana nelle celebri “lezioni sul fascismo”, un altro è togliere il suo nome

dalla toponomastica delle città, come vorrebbero Alemanno e Volonté, o definirlo un

traditore del proletariato, come fanno alcuni cripto-estremisti: a questo ci opporremo

sempre.

Nel dopoguerra esistevano consistenti margini, economici e politici, che

rendevano possibile un disegno riformista, anche grazie agli equilibri e ai rapporti di

forza internazionali tra paesi socialisti e paesi imperialisti. Il PCI seppe utilizzarli con

successo a vantaggio della classe operaia e dei lavoratori, ma non fu capace di

collegare, o non volle collegare, queste conquiste e le contraddizioni che esse aprivano

con l’obiettivo politico della conquista del potere. Si comportò come un buon partito

socialdemocratico, ma altra cosa deve essere un partito rivoluzionario, un partito

realmente comunista che, tenendo sempre conto dei rapporti di forza esistenti,

mantenga inalterata la spinta verso l’obiettivo finale. Certamente, il PCI accumulò, in

quel lungo periodo, un immenso e qualificato patrimonio, fatto di  militanza, passione

e onesti rapporti umani, che ne ha costituito l’eredità più preziosa, purtroppo tradita e

dissipata dopo, anche dai gruppi dirigenti succedutisi alla guida del tentativo

“rifondativo”, che dicevano una cosa, ma ne avevano in testa un’altra, nettamente

diversa.

L’VIII Congresso sancì anche la definitiva adozione del concetto di ‘via

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nazionale al socialismo’. Al di là delle originali intenzioni di Togliatti, vere o

presunte, questa non divenne una creativa tattica per raggiungere il nobile scopo

tenendo nella dovuta considerazione le particolari condizioni e caratteristiche

dell’Italia, ma si trasformò in una teoria che negava la validità delle leggi generali

dello sviluppo capitalistico, economico, sociale e politico-statuale, che agiscono in

modo sostanzialmente uguale in tutti i paesi, indipendentemente dalle loro peculiarità

storiche e culturali, in nome di una indimostrata prevalenza del particolare sul

generale. Il suo naturale evolversi fu un continuo e progressivo allontanamento dai

principi scientifici del marxismo-leninismo, fino ad approdare alle aberrazioni,

teoriche e pratiche, dell’eurocomunismo.

Queste considerazioni ci consentono di comprendere l’ultima parte della

storia del PCI, da Berlinguer alla Bolognina. Sia chiaro che quanto affermiamo lo

facciamo col massimo rispetto per tutti quei compagni che in quel periodo hanno dato

gli anni migliori della loro vita alla militanza e che anche oggi possono dare un aiuto

formidabile alla nostra difficilissima opera.

Fatta salva la statura morale di Berlinguer, assolutamente imparagonabile alle

miserie dei politici attuali, occorre riconoscere che il livello della cultura politica di

tutti i protagonisti di quel periodo era incommensurabile rispetto agli odierni peones

che infestano le istituzioni. Vogliamo paragonare la pochezza dei Berlusconi, dei

Grillo, dei Renzi, dei Bersani di oggi con la statura e la capacità dei Nenni, dei Moro,

dei Fanfani, persino degli Andreotti e dei Craxi di ieri? Personalità discutibili,

avversari e nemici, ma tutti politici veri, non inetti corifei di un teatrino che ormai

disgusta tutti.

La politica dei quadri, è rivelatrice delle linee politiche che si vogliono

imprimere al partito e della sua composizione di classe; Berlinguer promosse, come

eredi del gruppo dirigente allora in carica, gli Occhetto, i D’Alema, i Veltroni, i

Fassino, i Bersani, ecc., così come nel successivo tentativo rifondativo furono scelti i

Garavini, i Bertinotti, i Giordano, i Diliberto ed i Ferrero. In entrambi i casi, anziché

quadri proletari, furono scelti professionisti in carriera della politica o del

sindacalismo post-EUR.

L’approfondimento delle note potrà darci decisamente ragione nell’affermare

che, se Togliatti mantenne almeno un legame, forse più formale che sostanziale, con il

marxismo-leninismo e riconobbe sempre il grande contributo dell’Unione Sovietica

alla causa della liberazione del lavoro e dei popoli, Berlinguer abbandonò decisamente

qualsiasi riferimento ad esso come teoria rivoluzionaria.  Al XIV Congresso del PCI,

nel 1975, Berlinguer propose e fece passare la modifica dello Statuto del partito,

eliminando i riferimenti all’ideologia marxista-leninista per affermarne la “laicità”.

Ciò stava a significare che il partito rinunciava ad avere una propria e definita visione

del mondo, aprendosi a quell’eclettismo ideologico che lo renderà privo di autonomia

e preda della cultura dominante. Una scelta certamente provocata dall’affanno di dare

sempre nuove e maggiori garanzie di “affidabilità” al nemico di classe e agli avversari

politici che ne erano espressione, dimenticando che il potere non si elemosina, ma si

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conquista e che entrare al governo non significa prendere il potere. Era il tentativo di

dimostrare che il PCI non doveva più spaventare la classe dominante, in quanto, a

parte le “mani pulite”, era come tutti gli altri partiti, avendo finalmente reciso ogni

cordone ombelicale con la teoria e gli obiettivi rivoluzionari, tutt’al più un buono e

onesto amministratore e gestore di un capitalismo dal volto umano. Questo

snaturamento si rese possibile anche grazie alla decisione, presa al XIII Congresso del

1972, di accorpare le cellule di lavoro alle sezioni territoriali, privandole

dell’autonomo potere di delega ai successivi congressi. In questo modo, l’elemento

proletario, veniva stemperato su un territorio dove prevaleva l’elemento piccolo-

borghese, che otteneva la possibilità di esprimere un numero maggiore di delegati al

congresso. La componente piccolo-borghese acquisì in tal modo un peso

preponderante nelle maggioranze congressuali e, conseguentemente, nelle scelte

tattiche e strategiche del partito. Fu proprio quel congresso a eleggere Berlinguer

formalmente vice-segretario, di fatto segretario, a causa della malattia che invalidava

Luigi Longo.

 

Nel pensiero di Berlinguer spiccano, tra tutti, alcuni punti cardinali: il

compromesso storico, la democrazia come valore universale, l’eurocomunismo,

l’accettazione dell’ombrello della Nato, l’adesione alla UE ed infine le considerazioni

sull’esaurimento della spinta propulsiva della Rivoluzione Sovietica.

Le riflessioni di Berlinguer sull’austerità e sulla questione morale non hanno la stessa

forza, né possono in qualche modo controbilanciarne l’effetto devastante. Del resto, se

si accetta alla fine il capitalismo come orizzonte, non ci si può stupire che esistano

clientele e  corruzione: se unico valore è il profitto, queste ne sono le naturali

conseguenze. Obiettivamente non si può negare che Berlinguer si sia anche trovato

‘schiacciato’ da un corpo politico del partito in cui i cosidetti ‘miglioristi’ (da

Amendola a Cervetti) avevano in mano i gangli vitali, anche economici (il mondo

della cooperazione ad es.) del Partito, da qui l’aggancio fortemente voluto dall’attuale

Presidente Napolitano con Craxi e col sistema di potere che rappresentava e la stessa

‘solitaria’ presenza di Berlinguer ai cancelli della Fiat nel 1980 e nella giusta lotta in

difesa della “scala mobile”. Sono episodi significativi che risultano però essere

ininfluenti su un quadro dirigente ed un corpo largo di partito in cui la “mutazione

genetica” era già avvenuta.

 

 

Partiamo dal compromesso storico, cioè da tre scritti di Berlinguer, pubblicati

su Rinascita tra il 28 settembre ed il 12 ottobre 1973 all’indomani della eroica morte

del Presidente del Cile Salvador Allende per mano dei golpisti di Pinochet prezzolati

dagli Usa. Invece di constatare semplicemente che la democrazia borghese esiste solo

se la borghesia è saldamente al potere, ma se questo vacilla, – come nel Cile di

Allende – e il popolo riesce in qualche modo ad emanciparsi per via istituzionale e

democratica, allora la borghesia rinnega le sue stesse regole formali, passando a

metodi violenti e terroristici, Berlinguer scrive: “noi abbiamo sempre pensato – e oggi 

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l’esperienza cilena ci rafforza in questa persuasione – che l’unità dei partiti dei 

lavoratori e delle forze di sinistra non è condizione sufficiente per garantire la difesa 

ed il progresso della democrazia…” A parte il leitmotiv della “difesa della

democrazia”, che non spiega mai di quale democrazia si stia parlando, prescindendo

dal suo carattere di classe, Berlinguer confonde le intese politiche con le alleanze

sociali tra la classe operaia e gli strati popolari di piccola borghesia, stravolgendo il

pensiero di Gramsci. Gramsci sottolineava come il motore della rivoluzione proletaria

in Italia dovesse essere un nuovo blocco sociale, egemonizzato dalla classe operaia,

che raggruppasse il proletariato e anche elementi di piccola borghesia, suoi alleati. Il

compromesso storico di Berlinguer, invece, non è un’alleanza sociale della classe

operaia, antagonista al blocco sociale della borghesia, ma un’alleanza politica tra i

maggiori partiti in quel momento, il PCI, il PSI e la DC, quest’ultima, per altro,

espressione politica della grande borghesia,  privata e di stato.

L’analisi di Berlinguer sul golpe in Cile del 1973 non ha nulla a che vedere

col marxismo-leninismo, anzi perviene a conclusioni diametralmente opposte. Da un

punto di vista leninista, l’errore di Allende è consistito proprio nel non avere neppure

cercato di “spezzare la macchina dello stato borghese”, ma di averla accettata,

confidando in una maggioranza parlamentare e nella lealtà dei vertici dell’apparato

statale. Sarebbe stato necessario sviluppare forti movimenti di massa a sostegno del

nuovo governo, creare una milizia operaia armata, cambiare i meccanismi

istituzionali, passando a organi eletti non su base delle circoscrizioni elettorali

territoriali, ma dei luoghi di lavoro, sospendere  l’attività dei partiti che non si

riconoscevano nel programma del nuovo governo, decapitare i vertici e modificare le

strutture dell’esercito, della polizia, dei servizi di sicurezza, dei ministeri economici,

con la massiccia introduzione di fidati elementi proletari. Sarebbe stato necessario,

insomma, instaurare la dittatura proletaria. Allende non lo fece e il popolo cileno pagò

a caro prezzo questo errore. Berlinguer, come sappiamo, ignorò queste considerazioni.

L’eurocomunismo, come teoria e prassi compiutamente revisioniste e

opportuniste, origina dall’incontro di Bruxelles del 26 gennaio 1974 tra Berlinguer e i

revisionisti spagnolo e francese, Santiago Carrillo e Georges Marchais, segretari dei

rispettivi Partiti Comunisti che sposarono le tesi sul valore della democrazia, da

Berlinguer così formulate: …”questa larga convergenza di opinioni riguarda 

anzitutto il fondamentale problema del rapporto tra democrazia e socialismo come 

sviluppo coerente ed attuazione piena della democrazia. Essa comprende il 

riconoscimento del valore delle libertà personali e della loro garanzia, i principi di 

laicità dello Stato e della sua articolazione democratica, della pluralità dei partiti, 

dell’autonomia del sindacato, delle libertà religiose e di culto, della libertà di ricerca 

e delle attività culturali, artistiche e scientifiche…”

Il nome stesso, termine coniato dai giornalisti, ma subito fatto proprio dai revisionisti,

marcava già di per sé un netto distacco, addirittura una forte contrapposizione alle

esperienze di socialismo storicamente realizzate. Il passo citato evidenzia con

chiarezza come Berlinguer avesse fatto proprie categorie tipiche del pensiero

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borghese, assolutizzandole al di fuori e al di là di qualsiasi contesto storico e sostanza

di classe. La visione del socialismo che ne scaturisce per specularità è quella di una

cupa tirannide dove questi nobili principi sarebbero negati. Una rappresentazione falsa

e del tutto subalterna alla propaganda borghese.

Resta il fatto che le teorie di Berlinguer hanno prodotto il disarmo teorico ed

organizzativo di ogni resistenza operaia e popolare in Italia e spianato la strada alle

forze più retrive del capitalismo monopolistico, che stanno dissanguando l’Italia e il

suo popolo.

L’intervista a Giampaolo Pansa (proprio lui!) sul Corriere della Sera del 15

giugno 1976 sancisce l’accettazione definitiva dell’Occidente capitalistico e della sua

micidiale alleanza militare, la NATO, portando a compimento la rottura con il campo

socialista che, anche se infettato dal germe del revisionismo khruscioviano, rimaneva

pur sempre il più formidabile baluardo di contenimento dell’imperialismo. «Pansa: 

“…insomma, il Patto Atlantico può esser anche uno scudo utile per costruire il 

socialismo nella libertà…” Berlinguer: “Io voglio che l’Italia non esca dal Patto 

Atlantico anche per questo, e non solo perché la nostra uscita sconvolgerebbe 

l’equilibrio internazionale. Mi sento più sicuro stando di qua….”».    

Ed infine, sempre su questo filone, c’è la famosa frase con cui, nel 1981, viene

definitivamente reciso il ‘cordone ombelicale’, anche ideale, con la storia del

movimento operaio e comunista: “…si è esaurita la spinta propulsiva della 

Rivoluzione d’Ottobre…”. 

 

Assolutamente rilevante è poi  la scelta strategica con cui Berlinguer ‘sposa’

il processo di unità europea e capitalistica mentre esistono ancora l’URSS ed il campo

socialista. Nella famosa intervista con Eugenio Scalfari, uno dei distruttori del PCI,

sul giornale La Repubblica del 2 agosto 1978: «“…Scalfari: “Il 1979 sarà l’anno 

dell’Europa. E lei ha detto nell’ultima riunione del Comitato Centrale che il PCI ha 

fatto una scelta europea definitiva. Lo conferma?”. Berlinguer: “Lo confermo. 

Sappiamo che il processo d’integrazione europea viene condotto, almeno per ora, 

prevalentemente da forze e da interessi ancora profondamente legati a strutture 

capitalistiche che noi vogliamo trasformare. Sappiamo che l’integrazione 

sopranazionale, condotta e guidata da quelle forze, pone vincoli al processo di 

trasformazione nazionale… Ma noi riteniamo che comunque bisogna spingere verso 

l’Europa e la sua unità e che la sfida che questo obiettivo comporta vada accettata, 

portando la lotta di classe, democratica e rinnovatrice, a livello europeo e a 

coscienza europea…”». 

Una rapida considerazione del pauroso peggioramento, sotto tutti gli aspetti,

della condizione dei lavoratori e dello stesso ceto medio in conseguenza della dittatura

dell’Unione Europea può certo darci la disastrosa portata degli errori teorici e delle

deviazioni pratiche di questo segretario del PCI.

Infine, alcune considerazioni sulla Costituzione italiana, che poteva essere

considerata, non a torto, la più avanzata dell’Occidente capitalistico, frutto appunto

dei rapporti di forza e della grande, ma non risolutiva, influenza dei comunisti

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nell’immediato dopoguerra. Mentre le costituzioni sovietiche succedutesi negli anni

erano di tipo statico, cioè sancivano, in modo quasi fotografico, l’ordinamento statuale

realizzato fino a quel momento e il livello dei diritti già realmente acquisiti, al di sotto

del quale non si poteva scendere, ma a partire dal quale si doveva progredire, la

costituzione italiana fu concepita come programmatica. Ordinamento e diritti, lungi

dall’essere acquisiti, costituivano l’obiettivo programmatico a cui lo Stato avrebbe

dovuto tendere. Nonostante la rigidità della procedura di modifica, è proprio questa la

sua più grande debolezza: per vanificarla è sufficiente non attuarne gli obiettivi.

Inoltre, le modifiche, apportate negli ultimi vent’anni alla sua parte attuativa ne hanno

di fatto paralizzato quella programmatica. Disattesa, quindi, stravolta ripetutamente, è

di fatto ormai sostituita da una ‘costituzione materiale’ che certifica i rapporti di forza

a favore del capitale. Oggi, con l’inserimento del ‘pareggio di bilancio’ voluto dalla

BCE e dalla UE, viene definitivamente violentata. “La stalla è aperta da tempo ed i

buoi sono scappati”. Non è un caso che, proprio in questo contesto, in quella che si

autodefinisce sinistra, si sentano flebili e contraddittorie voci a sua difesa. Tra i suoi

attuali difensori notiamo personaggi come Rodotà, il primo presidente del PDS di

Occhetto, Giulietti ed altri ancora che nel passato hanno fatto a gara nel mettere sul

banco degli imputati le posizioni ideologiche, politiche e rivendicative più avanzate

del movimento operaio. Della compagnia fa parte anche il contraddittorio Landini che

solo poche settimane fa siglava, insieme alla Camusso e alla CGIL, il più vergognoso

e anticostituzionale protocollo d’intesa con Confindustria per stroncare il sindacalismo

di base e oggi firma a favore della difesa della Carta costituzionale…

Se, da un lato, i comunisti devono essere in prima fila per evitarne ulteriori modifiche

peggiorative e restrittive, è fuori da ogni ragionevole dubbio che la Costituzione oggi

vigente non è più la Costituzione del 1948, frutto dell’unità antifascista e della

Resistenza. Soprattutto dopo l’inserimento dell’obbligo di pareggio del bilancio, che

avrà incalcolabili conseguenze negative sul piano sociale.

 

Un periodo di soli settant’anni separa l’oggi da quando, grazie alla solida

organizzazione del PCI clandestino, si formarono le prime ‘bande’ partigiane che si

batterono contro il nazi-fascismo. Oggi,  quegli uomini si rivolterebbero nelle tombe

se scoprissero quale immonda torsione è stata fatta ai principi che stavano alla base

del loro sacrificio. E’ anche per questo che, con immensa modestia ma con ferma

convinzione, vogliamo riprendere il loro cammino e ricostruire il soggetto

rivoluzionario, il Partito Comunista, evitando tanto le deviazioni parlamentariste,

quanto l’errore di una scolastica ortodossia slegata dai processi reali della società.

 

Queste note non esauriscono certamente il complesso problema dell’analisi

della storia, della mutazione degenerativa e della scomparsa del più forte Partito

Comunista dell’Europa Occidentale, ma devono servire come prima traccia per una

ulteriore, imprescindibile elaborazione analitica collettiva da parte di tutto il partito

che stiamo costruendo.

 

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PARTE SECONDA  

 

5) Il no comunista al golpe europeo.

Le cause della crisi che sta attanagliando l’Europa sono individuabili solo

attraverso una corretta analisi marxista-leninista della realtà. La crisi che stiamo

vivendo e che correttamente definiamo “crisi generale del capitalismo” ha la sua vera

origine nella maturazione della contraddizione fondamentale del capitalismo tra

carattere sociale della produzione e appropriazione privata del prodotto e si manifesta

come crisi di sovrapproduzione e sovraccumulazione, in conseguenza delle quali si

accentua la tendenza alla caduta del saggio di profitto, già endemica del modo di

produzione capitalistico.

Per cercare di arrestare la flessione del saggio di profitto, il capitalismo in

primo luogo intensifica lo sfruttamento della forza-lavoro e l’estrazione di plusvalore,

comprimendo il salario diretto, indiretto (servizi sociali), differito (pensione e Tfr)

allungando il tempo di lavoro in termini di orario e di età pensionabile. Un’altra via

che il capitalismo cerca di seguire a questo scopo è la delocalizzazione della

produzione in quei Paesi dove i costi di produzione, in particolare del lavoro, sono

inferiori.  In terzo luogo, il capitale cerca rimedio alla caduta del saggio di profitto

anche spostandosi dalla produzione di beni e servizi al settore finanziario, generando

effetti speculativi e accentuando il proprio carattere parassitario.

 

In quarto luogo, utilizza parassitariamente la spesa pubblica, finanziata dalla

fiscalità sostenuta in gran parte dal lavoro dipendente, mutandone la composizione a

proprio favore attraverso un insieme di provvedimenti di politica economica a

sostegno delle imprese private, di settori di imprese, di aree geografiche specifiche in

cui le imprese operano, di progetti speciali di “sviluppo”, di realizzazione di grandi

opere, ecc.. Si va dalle agevolazioni creditizie, alla defiscalizzazione e alla

decontribuzione, fino alla concessione di finanziamenti a fondo perduto. I costi

connessi a queste misure determinano un incremento del deficit dello Stato e del suo

indebitamento per finanziarlo. Il tutto ricade, come detto, sulle spalle dei lavoratori

contribuenti.

Infine, ricorre alla guerra. Marx e Lenin hanno analizzato e descritto i periodi

di crisi come caratterizzati non solo da licenziamenti e creazione di un esercito

salariato di riserva, cioè di disoccupati, ma anche dalle guerre tra stati imperialisti,

finalizzate sia al controllo e alla spartizione delle risorse e dei mercati, sia alla

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distruzione di parte della massa di capitale sovraccumulato nel tentativo di

compensare la caduta del saggio di profitto.

In tutti i casi, il capitale affronta la propria crisi cercando di scaricarne il peso

sui lavoratori, sia all’interno che all’esterno del proprio Paese. Nonostante questi

approcci, tuttavia, il capitalismo monopolistico non riesce più a riavviare

positivamente il ciclo di riproduzione e accumulazione, come aveva fatto con relativo

successo in passato, poiché la contraddizione fondamentale di questo modo di

produzione è giunta a maturazione e può essere risolta solo attraverso il mutamento

rivoluzionario del modo di produzione stesso. Il prolungamento dell’agonia del

capitalismo moribondo può verificarsi solo a prezzo di un insostenibile e inaccettabile

immiserimento dei popoli.

La natura stessa della concorrenza interimperialistica determina la

formazione di conglomerati imperialisti transnazionali, cioè di blocchi di stati,

disomogenei quantitativamente per livello di sviluppo industriale e per grado di

accumulazione, ma omogenei qualitativamente per il carattere monopolistico del

capitale e della proprietà dei mezzi di produzione. L’elemento unificante che li tiene

insieme è una relativa comunanza di interessi delle classi dominanti dei paesi che ne

fanno parte, comunque in competizione tra loro: la necessità di creare un mercato

interno più vasto di quello strettamente nazionale, tramite forme di unione doganale,

monetaria e bancaria; l’esigenza di acquisire maggior peso nell’ambito della generale

concorrenza interimperialistica per il controllo delle risorse, dei mercati e delle vie di

comunicazione; la volontà di attuare a livello di ciascun paese forme di sfruttamento

del lavoro più pesanti, mascherandole come misure “oggettivamente necessarie” o

“imposte” da un’insindacabile volontà esterna e superiore; l’intenzione di comporre il

conflitto tra gli “appetiti” delle diverse borghesie nazionali in modo incruento, senza

ricorrere all’uso delle armi, come accadeva nel passato.

L’Unione Europea è, appunto, uno di questi conglomerati imperialisti, per il

quale valgono tutte le considerazioni esposte sopra.  Gli Stati imperialisti europei che

ne fanno parte, spesso in aspra competizione anche tra loro, cercano di far pagare il

costo della crisi e della concorrenza mondiale con gli USA e i BRICS innanzitutto ai

propri lavoratori e ai popoli dei paesi terzi, ma si cannibalizzano anche fra di loro,

approfittando delle debolezze politiche ed economiche del vicino. Dall’introduzione

della moneta unica, le politiche economiche che l’Unione Europea, cioè il capitale

monopolistico industriale e finanziario europeo, impone ai popoli dei paesi aderenti

ruotano sostanzialmente sui seguenti cardini:

– rigore di bilancio, abbattimento del rapporto deficit/PIL e rientro del debito

pubblico;

– contenimento dell’inflazione;

– fiducia nella presunta capacità di autoregolazione del mercato.

44

Alla base di queste politiche vi è il tentativo di mantenere una relativa stabilità

dell’euro, rendendolo capace di guadagnare la fiducia dei mercati e di strappare al

dollaro il ruolo di mezzo universale dei pagamenti internazionali, in una visione

monetarista in cui il denaro viene considerato il regolatore supremo dell’economia. Gli

interventi di immissione o ritiro di moneta circolante da parte delle banche centrali,

secondo i monetaristi, consentirebbero di influenzare e regolare, almeno sul lungo

periodo, tutte le altre variabili, produzione e domanda di beni e servizi, importazioni

ed esportazioni, livello occupazionale, ecc.., determinandone la tendenza al

raggiungimento di posizioni di equilibrio sistemico. I marxisti sanno bene che il primo

mobile di qualsiasi economia è la produzione. Se non vi fosse produzione di merci,

non vi sarebbe scambio e, quindi, non vi sarebbe esigenza del denaro come

equivalente generale di scambio delle merci. La quantità d’equilibrio di moneta

circolante è quindi funzione della quantità di merci prodotte, non viceversa, tant’è vero

che le crisi di sovrapproduzione, quando l’offerta di beni supera la domanda,

generalmente rischiano di innescare pericolosi fenomeni deflattivi, cioè di

deprezzamento delle merci rispetto al denaro. Lo squilibrio è determinato non dalla

carente offerta di moneta, ma dall’eccessiva offerta di merci. Pertanto, in condizioni di

mercato capitalistico, qualsiasi intervento delle autorità monetarie teso ad aumentare

la massa di moneta circolante non è in grado di ripristinare l’equilibrio, in quanto non

agisce sulla produzione. L’equilibrio può essere raggiunto solo al di fuori del modo di

produzione capitalistico, del profitto e del mercato che lo caratterizzano, da

un’economia socialista centralmente pianificata.

Se analizziamo i cardini delle politiche economiche dell’UE, non possiamo non

rilevarne il segno di classe che le marca. Per come l’euro, i requisiti per far parte

dell’Eurozona e i vincoli di stabilità valutaria sono stati concepiti dai Trattati di

Maastricht, la sua stessa introduzione ha determinato un consistente trasferimento di

quote di reddito nazionale dal lavoro al capitale. Questo fenomeno ha interessato tutti i

paesi aderenti, anche se in misura differente per via delle diverse parità delle valute

nazionali con l’euro, provocando una relativa omogeneizzazione verso l’alto dei prezzi

in tutta la zona interessata. In Italia l’adozione dell’euro è stata particolarmente pesante

per i lavoratori. Mentre i prezzi venivano convertiti con un rapporto di 1:1, salari,

stipendi e pensioni subivano l’adeguamento al tasso di cambio 1:1937,26: ad un

raddoppio dei prezzi ha corrisposto un dimezzamento delle retribuzioni! La rapina,

evidente fin dall’inizio, tuttavia, non si è fermata a questo.

Le politiche di riduzione del rapporto deficit/PIL e di rientro dal debito pubblico,

imposte dall’UE, agiscono principalmente sulla spesa pubblica e sulla fiscalità. In fase

di recessione economica, quando il PIL decresce, l’unica via per ridurre il rapporto

deficit/PIL, non essendo possibile agire sul denominatore, rimane l’abbattimento del

deficit, cioè la riduzione della spesa e l’aumento delle entrate. La riduzione della spesa

pubblica si traduce, di fatto, in tagli drastici al finanziamento di servizi essenziali,

quali istruzione, sanità, trasporto pubblico, ricerca scientifica, infrastrutture necessarie

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allo sviluppo, assistenza e previdenza, mentre non vengono minimamente toccate le

voci di spesa riguardanti i trasferimenti, a vario titolo, dallo Stato alle grandi imprese e

alle banche private, o le missioni di guerra, o l’acquisto di nuove armi, o le grandi

opere inutili. Le defiscalizzazioni e le decontribuzioni, tra l’altro, avvantaggiano le

grandi imprese, ma contribuiscono a peggiorare i conti pubblici sul lato delle entrate,

il cui aumento è ormai affidato a dismissioni e privatizzazioni del patrimonio pubblico

del popolo e ad un insostenibile aumento della pressione fiscale, che sta strangolando

lavoratori e ceto medio produttivo. Si tratta di misure che deprimono ulteriormente la

domanda, amplificando gli effetti della crisi, ma consentono la sopravvivenza,

parassitaria e assistita, dei monopoli e delle banche private, scaricando il fardello del

loro mantenimento sulle spalle dei lavoratori e dei popoli, costretti a pagare un debito

di cui non sono minimamente responsabili.

Con l’introduzione dell’euro, il debito pubblico è diventato il vero e proprio

cappio al collo del popolo, determinato dall’uso di classe della leva fiscale e della

spesa pubblica per sostenere il tasso di profitto del capitale monopolistico, industriale

e finanziario. In Italia, il debito ha raggiunto quota 132% sul PIL. Strutturalmente, è

composto per l’83% da titoli del debito pubblico, detenuti per l’87% da banche d’affari,

fondi d’investimento, compagnie d’assicurazione, grandi imprese capitalistiche e, per il

52,4%, è posseduto da grandi investitori privati e fondi sovrani esteri. E’ evidente che

il piccolo risparmio diffuso costituisce la minima parte, marginale e ininfluente, dei

detentori di titoli del debito pubblico. Inoltre, stante il vigente meccanismo delle aste

per il collocamento dei titoli del debito pubblico, è altrettanto evidente che l’accesso

all’acquisto da parte dei piccoli risparmiatori può avvenire solo attraverso

l’intermediazione di banche e brokers finanziari, che ovviamente lucrano

sull’operazione. Queste considerazioni ci aiutano a capire la portata dell’operazione

attuata facendo leva sul terrorismo mediatico scatenato sulla questione dello “spread”,

cioè del differenziale tra il tasso di rendimento dei titoli pubblici nazionali in rapporto

al bund, il titolo pubblico tedesco. Il mercato mobiliare è controllato e dominato da

grandi gruppi concentrati di capitale finanziario, in grado di influenzarne l’andamento,

mentre il piccolo risparmio è del tutto ininfluente e subisce soltanto le tendenze

imposte da questi. Mentre il risparmiatore acquista il titolo in base al rendimento

nominale della somma investita e si orienta su un arco temporale di breve periodo, il

grande investitore punta a lucrare sulle differenze certe  tra prezzi d’acquisto e valori

nominali dei titoli e su quelle, aleatorie ma maggiori, tra prezzi d’acquisto e aspettative

di prezzi di vendita futuri, realizzabili probabilisticamente su un arco temporale più

lungo. Data l’inversa proporzionalità, a parità di valore nominale, tra prezzo e

rendimento dei titoli, è solo questa aspettativa di lucro a spingere al rialzo i tassi di

interesse sul debito e, quindi, ad aumentare lo spread. Considerando il carattere

transnazionale del capitale finanziario e l’enorme massa di denaro di cui dispone, non

è difficile comprendere come riesca a spostare l’attacco speculativo da un paese

all’altro, da un titolo sovrano all’altro. Che le oscillazioni dello spread non siano

motivate da considerazioni diverse dalla massimizzazione del profitto, quali la

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“fiducia nella solidità dell’economia” del dato paese e altre fandonie simili, lo

dimostrano i fatti. Il calo immediato dello spread nei casi in cui i ministeri economici

di un paese annunciano una nuova ondata di dismissioni e privatizzazioni è dovuto

alla creazione di occasioni alternative d’investimento, convenienti e appetibili per il

capitale in cerca di impiego, che quindi si sposta dal mobiliare ad altri settori

d’impiego. La “fiducia” non c’entra nulla. C’entra solo l’opportunità di saccheggiare il

patrimonio reale di un paese.

D’altro lato, l’operazione sullo spread ha coinciso con la concessione di prestiti

da parte della BCE al sistema bancario privato al tasso agevolato dell’1%, fornendogli

i mezzi per acquistare titoli del debito pubblico, lucrando la differenza tra il tasso

passivo del prestito e i tassi nominali dei titoli di alcuni paesi, tra cui l’Italia, schizzati

verso l’alto per la pressione speculativa di quegli stessi intermediari finanziari, con la

complicità delle colluse agenzie internazionali di rating. Le banche private si sono

arricchite ancora di più grazie all’intervento della BCE e il conto continua ad essere

pagato dai lavoratori attraverso il prelievo fiscale con cui ciascun paese finanzia la

BCE. La maggior parte dei debiti sovrani, compreso quello tedesco, è detenuta dalle

banche private. L’eventuale insolvenza di uno Stato comprometterebbe i sistemi

bancari e creditizi degli altri Stati, impossibilitati a far fronte alla crisi di liquidità con

l’emissione di moneta, non consentita dalla BCE, facendo così sprofondare nella

recessione i rispettivi sistemi produttivi. Per questa ragione, scegliendo di non

finanziare gli stati, l’Unione Europea e la BCE hanno regalato alle banche private,

negli ultimi quattro anni, 4.500 miliardi di euro, l’equivalente della somma del debito

di Portogallo, Spagna, Italia e Grecia, per ricapitalizzarle a spese dei popoli europei,

senza alcuna garanzia in termini di effettivo risanamento degli assets in portafoglio, di

trasparenza e veridicità dei bilanci e di reale abbandono delle azzardate pratiche

speculative che avevano determinato il disastro, né, tantomeno, di risarcimento ai

milioni di piccoli risparmiatori, pensionati e pensionandi, fraudolentemente derubati

dei loro modesti averi con la bufala dei derivati.

Più recentemente, la BCE e la Commissione Europea hanno creato il MES

(Meccanismo di Stabilità Europea), anche chiamato “fondo salva stati”, al fine di

immettere liquidità sui mercati e prevenire eventuali bancarotte o default, ma il prezzo

che dovrebbero pagare i popoli degli Stati che facessero richiesta al MES di un

intervento di sostegno sarebbe enorme in termini di privatizzazioni di beni pubblici, di

pezzi di territorio, di tagli ai servizi essenziali, ai salari ed alle pensioni. Inoltre, il

finanziamento pro-quota del MES è a carico della fiscalità generale degli Stati

aderenti e non fa che peggiorarne la situazione debitoria e di ingiustizia distributiva.

Alla depressione della domanda conducono anche le politiche attuate dalla UE

per contenere l’inflazione. La stabilità dei prezzi interni dovrebbe contribuire a fare

acquisire competitività al sistema in un ambiente di generalizzata concorrenza

internazionale e in condizioni di impossibilità di utilizzare lo strumento della

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svalutazione, ma in realtà viene perseguita colpendo e comprimendo i salari e le

retribuzioni dei lavoratori allo scopo di trasferire maggiori quote di reddito dal lavoro

al capitale. Una svalutazione competitiva dell’euro non viene neppure presa in

considerazione perché contraria agli interessi della lobby finanziaria, politicamente

predominante all’interno della borghesia monopolistica europea.

Il martellante battage messo in atto dall’apparato di propaganda di Bruxelles, le

“raccomandazioni” della BCE a firma Mario Draghi, ogni esternazione degli

euronotabili, le insistenti richieste dei rappresentanti del grande capitale, concorrono a

imporre la riduzione del costo del lavoro, nelle sue componenti salariale e fiscale-

contributiva, quale unica via percorribile per controllare l’inflazione e aumentare la

competitività, come se il costo del lavoro fosse l’unica componente determinante nella

formazione dei prezzi e come se il prezzo fosse l’unica variabile che influisce sulla

competitività. Questa non si basa esclusivamente sul dato quantitativo, ma anche e

molto più efficacemente su quello qualitativo, a determinare il quale concorrono

fattori come il grado di infrastrutturazione, il livello della ricerca scientifica,

l’introduzione di innovazioni di prodotto e di processo, l’organizzazione del lavoro e

delle risorse umane, la rete di distribuzione, l’assistenza al cliente, la capacità di

credito, ecc.. Il potenziamento di questi fattori a scopo competitivo è impedito in parte

dalle stesse politiche di rigore di bilancio, imposte dall’UE, ma, dall’altra parte, da un

grande capitale, monopolistico e cartellizzato, che concepisce la concorrenza

internazionale solo come guerra dei prezzi, restio a destinare risorse, soprattutto in

fase di sovrapproduzione, all’innovazione e alla ricerca. Ricondurre il problema della

competitività al solo costo del lavoro, quindi, è un approccio riduttivo e in mala fede.

Certo, il costo del lavoro influisce sul livello dei prezzi, ma anche il profitto, nelle

condizioni del mercato capitalistico, contribuisce a determinarlo. Mentre i lacchè del

capitale si affannano a presentare la compressione dei salari e degli oneri sociali,

quindi delle pensioni future, come unica via per la “ripresa”, nessuno osa mettere in

discussione il profitto, diventato oggi una vera e propria “variabile indipendente”,

intangibile e indiscutibile, neppure i sindacati, privi ormai di un orientamento di

classe, imprigionati tra il corporativismo di categoria e la concertazione al ribasso.

La crisi ha rivelato l’inconsistenza dell’illusione circa la capacità di

autoregolazione del mercato. Il mercato che l’UE ha idealizzato a fini propagandistici,

dove merci e capitali circolerebbero liberamente, mossi dal meccanismo benefico di

una  libera concorrenza puntiforme, esiste solo nelle elucubrazioni degli economisti

borghesi. Il mercato europeo è in realtà dominato da pochi gruppi monopolistici,

altamente concentrati e cartellizzati tra loro, che impongono i propri interessi e la

propria volontà, oltre che le proprie merci, ai popoli d’Europa; nessuna “libera

concorrenza”, quindi. L’illusione è tale per il pubblico, non per gli attori. Alla

deregolamentazione proclamata a parole fa riscontro nella realtà un’estrema e

dettagliata regolamentazione dei sistemi economici nazionali e dei rapporti tra questi.

Dal contingentamento delle produzioni attraverso la fissazione centralizzata di quote,

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ai criteri di stabilità finanziaria, fino all’inserimento nelle costituzioni dell’obbligo di

pareggio del bilancio dello Stato, qualsiasi aspetto della vita economica è

dettagliatamente disciplinato dalle fonti normative dell’UE, originanti principalmente

da organismi non elettivi, quali la BCE, la Commissione Europea, l’Ecofin, ecc., che

riflettono e attuano la volontà del capitale monopolistico transnazionale.

I Comunisti non possono che combattere con la massima fermezza l’Unione

Europea per questo suo carattere di braccio politico-amministrativo delle borghesie

europee, ma devono farlo con un’estrema chiarezza di impostazione teorica e pratica

della lotta.

Occorre che sia ben chiaro che, in questo gioco al massacro dei lavoratori, non

esiste una borghesia nazionale più o meno colpevole delle altre. La borghesia di

ciascun paese aderente all’UE è ugualmente responsabile delle politiche di rapina ai

danni del lavoro, anche se partecipa alla spartizione delle spoglie in proporzione al suo

peso specifico e alla sua posizione nella piramide imperialista. In qualsiasi banda di

rapinatori, gli accoliti hanno diverse categorie di peso. Dobbiamo quindi sgombrare il

campo da qualsiasi tentazione di condurre una battaglia, ad esempio, antitedesca, dove

la Merkel fa la parte del cattivo e i vari Marchionne, Colaninno, De Benedetti,

Squinzi, Marcegaglia, rappresentati dai vari Berlusconi, Monti e Letta, fanno la parte

dei buoni e vengono assolti. Il grande capitale italiano è perfettamente inserito in

queste logiche di competizione e di redistribuzione della ricchezza e riesce a trarne

notevoli profitti, mentre il proletariato ed i ceti popolari italiani subiscono una doppia

oppressione ed un doppio sfruttamento, quello da parte della propria borghesia

nazionale e quello attuato dalle borghesie dei paesi collocati più in alto nella piramide

dell’imperialismo europeo.

Bisogna abbandonare un uso improprio e fuorviante di termini come

“colonialismo” e “sovranità nazionale”, applicati alle vicende interne dell’Unione

Europea. Non dobbiamo dimenticare che proprio “questa” Europa è stata voluta dalle

classi dominanti di ciascun paese aderente. Quando era ancora possibile rifiutare

l’inserimento in costituzione del pareggio del bilancio, è stata la nomenclatura politica,

espressione della borghesia nazionale, ad approvarlo con maggioranza quasi assoluta.

Parlare di un presunto disegno coloniale significa negare ogni responsabilità della

borghesia nazionale. Allo stesso modo, affermare che “occorre ripristinare la sovranità

nazionale”, significa non rendersi conto che la borghesia non l’ha mai persa, ma ha

deciso sovranamente, in quanto detentrice del potere, non di “rinunciare a quote di

sovranità”, bensì di centralizzare alcune funzioni, concentrandole nell’UE; se non si

capisce questo, si finisce per accettare per buono l’alibi che la borghesia stessa

propone. Peggio ancora se si parla di “sovranità popolare”: non si può ripristinare ciò

che non è mai esistito.

 

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L’irriducibile opposizione dei Comunisti all’Unione Europea e alla NATO, che

sempre più si caratterizza come il suo braccio militare, assieme ad una strenua difesa

degli interessi immediati della classe operaia e degli strati popolari produttivi, deve

porsi in modo realistico gli obiettivi dell’uscita da entrambi questi organismi

imperialisti e dal sistema dell’euro, del loro smantellamento e dell’azzeramento

unilaterale del debito pubblico, della nazionalizzazione di banche e monopoli.

 

La constatazione dell’irriformabilità del capitalismo in generale, quindi anche

di quello europeo, segna il punto di rottura irrevocabile tra i Comunisti e gli

opportunisti del Partito della Sinistra Europea. Non si può pensare che sia possibile

ristabilire semplicemente lo status quo precedente, che la borghesia stessa ha scelto di

abbandonare, né che vi siano ancora spazi per un riformismo che non ha più mezzi

materiali per attutire il conflitto di classe. L’unica via percorribile per cambiare

l’Europa ed evitare povertà di massa e barbarie è il rovesciamento rivoluzionario del

capitalismo e l’instaurazione del potere proletario.

Questo obiettivo non può che essere perseguito attraverso uno stretto

coordinamento, politico e operativo, dei Partiti Comunisti e Operai dell’area, che ne

rafforzi l’unità ideologica e politica con un intenso lavoro di analisi delle

problematiche europee, di studio e di elaborazione di adeguate tattiche e forme di lotta

praticabili nelle date condizioni, che sfocino in incisive azioni comuni e congiunte

delle avanguardie proletarie di ogni paese.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

50

 

6) La questione meridionale, il paradigma italiano da Gramsci ai tempi nostri.  

 

“È noto quale ideologia sia stata diffusa in forma capillare dai 

propagandisti della borghesia nelle masse del Settentrione: il Mezzogiorno è la palla 

di piombo che impedisce più rapidi progressi allo sviluppo civile d’Italia; i 

meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari 

completi per destino naturale; se il Mezzogiorno è arretrato la colpa non è del 

sistema capitalistico o di qualche altra causa storica, ma della natura che ha fatto i 

meridionali poltroni, incapaci, criminali, barbari, temperando questa sorte matrigna 

con la esplosione puramente individuale di grandi geni, che sono come le solitarie 

palme in un arido e sterile deserto. Il partito socialista fu in gran parte il veicolo di 

questa ideologia borghese nel proletariato settentrionale.” 

Antonio Gramsci 

Gramsci ha dato uno specifico contributo al movimento operaio mondiale,

facendo un’analisi di classe (ossia pienamente marxista) dell’Unità d’Italia.

Quell’unità fu il risultato dell’alleanza tra gli industriali del Nord e gli agrari del Sud,

sotto l’egida della Corona britannica. Non che non ci fossero altre classi coinvolte,

come gli agrari del Nord, gli industriali del Sud e gli intellettuali; ma quelle due

furono le classi trainanti, “egemoniche”. Questa egemonia fu profondamente

antidemocratica, perché – contrariamente per esempio a quanto accadde nella

Rivoluzione francese – non risolse, ma anzi aggravò il problema contadino, creando

inoltre il problema territoriale che fu chiamato la “questione meridionale”. La

necessità impellente di risolvere i problemi finanziari del virtualmente fallito Regno

sabaudo si fusero con i giochi geostrategici europei: un’Inghilterra gelosa

dell’attivismo mercantile e navale dello Stato borbonico, un oscuramento

dell’influenza della protezione asburgica, una inconcludenza della diplomazia

francese. Tutto ciò rese vulnerabile dall’esterno la monarchia napoletana. Inoltre la

nascente borghesia meridionale, emergente all’ombra della monarchia, si proiettava

sulla scena internazionale commercialmente ma non militarmente (al contrario dello

sfrenato attivismo cavouriano) e ciò rese lo stato duo siciliano vulnerabile anche

dall’interno.

 

Fu quindi possibile per gli agrari del Sud stringere il patto infame, attratti dai

facili guadagni della promessa “privatizzazione” ante litteram della mano morta delle

terre demaniali e della Chiesa. Naturalmente ciò doveva passare dalla negazione più

radicale e violenta delle istanze di riscatto dei contadini poveri. Chi ne fece subito le

spese, oltre a questi, fu la nascente industria meridionale, condannata a un percorso di

sottosviluppo insieme a tutto l’intero territorio meridionale. Quella classe degli agrari

del Sud ha avuto nei decenni la possibilità di governare attraverso la mafia intere

regioni e di accumulare enormi profitti, riciclandosi infine anche come classe sociale,

ma sempre all’ombra del grande capitale finanziario, fino a ieri nazionale, oggi

51

europeo.

 

Dopo l’Unità non solo il latifondo non fu distrutto, ma le terre espropriate al

demanio e alla Chiesa furono appannaggio di pochi affaristi. Alle promesse inevase ai

contadini si rispose con il terrore militare. Da lì cominciò una lunga storia di

emigrazione. Il fascismo non fece che aggravare il divario Nord-Sud sia in termini di

infrastrutture che di produzione. Solo nel secondo dopo-guerra la questione

meridionale venne al centro di un’azione politica nazionale e per alcuni anni

l’ampliamento del divario cessò, invertendone il senso. Fu il forte fronte popolare a

saldare gli interessi delle classi che avevano perso la battaglia dell’Unità nazionale,

ma che ora si battevano insieme: “Nord-Sud uniti nella lotta”.

La stagione durò poco. Essa coincise con il tempo dei grandi movimenti di lotte

operarie, e i due movimenti, sincroni nella loro azione progressiva, arretrarono anche

di pari passo negli anni 80. Altrettanto importante ricordare è che il tramonto di quella

stagione viene ben prima del crollo dell’URSS, e che quindi le ragioni vanno cercate

nell’abbandono del partiti popolari della loro collocazione di classe e della loro

prospettiva rivoluzionaria.

 

Ma che convenienza ha avuto il Nord a tenere un terzo abbondante della

propria popolazione in condizioni di sottosviluppo per 150 anni? Non avrebbe avuto

grande vantaggio ad avere una parte del Paese forte, produttivo e ricco dove poter

esportare i propri prodotti? Certo non si può spiegare tutto con quell’atto di pirateria

che fu il furto dell’oro meridionale, né con l’abbattimento delle barriere doganali che

sbaragliarono la debole industria meridionale. In realtà il Sud è stato tenuto in

condizione di subalternità, ma non tutto, ci sono state classi sociali estremamente forti

che hanno imposto i loro interessi a Roma; improduttivo, nel senso che non ha fatto

concorrenza all’industria manifatturiera del Nord, ma si è caricato la parte più

inquinante della produzione; povero, ma certo non tutto, presentando sacche di

ricchezza testimoniate da una concentrazione di sportelli bancari ineguagliata in

Europa. Quindi una divisione dei ruoli tra pezzi del capitalismo italiano, in cui però è

stato il popolo meridionale a pagare il prezzo più elevato. Quindi non è vero che

lasciare intere regioni al sottosviluppo e al degrado sia un cattivo affare per il

capitalismo, anzi è stata la cifra del “miracolo” italiano.

 

È interessante anche vedere come sono evoluti i rapporti di forza tra i vari

settori del capitalismo nazionale. Dopo la stagione caratterizzata da un flusso di

investimenti pubblici nel Sud degli anni ’70 (appena paragonabile a quello

settentrionale), si è assistito a una politica sempre più Nord-centrica. Gli aspetti

eclatanti sono rappresentati dall’assorbimento nei grandi Istituti bancari del Nord dei

due colossi meridionali (Banco di Napoli e Banco di Sicilia, con le relative banche che

avevano precedentemente annesso). Il tessuto bancario meridionale si è trasformato

sempre più in una rete per la raccolta dei risparmi e non per la erogazione del credito.

Testimonianza di ciò sta nelle differenze insopportabili tra i tassi di interesse praticati

52

al Nord e quelli praticati al Sud. La recente restrizione di accesso al credito (credit

crunch) lamentata da settimane dai giornali padronali nel Sud c’è sempre stata e ora si

è più ancora aggravata. Si notino due cose essenziali.

Primo, analoghe restrizioni sono ben tamponate dal sistema bancario pubblico e

privato in Francia e Germania. È singolare che le banche prevalentemente speculative

del Nord Europa, rimpinzate di titoli spazzatura, abbiano una valutazione migliore

delle banche italiane, prevalentemente votate al prestito alle famiglie e alle aziende,

tanto che si è temuto la possibile “scalata” da parte dei grandi colossi finanziari. Per

ora la partita è ferma, ma è solo rimandata.

Secondo, difficoltà di accesso al credito – o addirittura taglio improvviso dei

fidi e esazione impietosa dei debiti attraverso Equitalia – nel meridione vuol dire

gettare il malcapitato nelle braccia della mafia, con buona pace dell’antimafia di

facciata dello Stato capitalista. Non si può non scorgere in questa situazione una regia

che tende all’ulteriore compressione dell’Italia, e del Sud in particolare,

incrementando i flussi finanziari dalla periferia al centro. Il capitalismo internazionale,

sappiamo, ha da tempo trasformato la propria vocazione di esportatore di capitali dei

tempi di Lenin a quello di importatore per sostenere le proprie bolle speculative.

Terzo, l’irrealisticamente elevato cambio dell’euro penalizza le economie più deboli,

come quelle del Sud Europa e tra queste maggiormente quelle del Sud Italia, mentre

favorisce le industrie tecnologicamente più avanzate, come quelle tedesche. Se

bisogna sfoltire la concorrenza si comincia dalle industrie dei Paesi politicamente più

deboli. Questa è la collocazione internazionale che è stata riservata al nostro Paese, e

al Meridione in particolare, dalla dittatura della UE.

 

Quante volte ci hanno turlupinato con la favola che il Sud doveva diventare il

ponte con i Paesi dell’altra costa del Mediterraneo? Quante volte si è parlato di

“piattaforme logistiche” in cui trasformare l’intera Sicilia? Ebbene erano chiacchiere

buone solo per andare da un’elezione all’altra. (Le piattaforme logistiche che invece

sono state realizzate sono rappresentate dal porto di Gioia Tauro, del tutto avulso dal

resto del territorio e che a esso non porta alcun beneficio).

Abbiamo visto l’Europa cosa intende per cooperazione nel Mediterraneo. La

Sicilia è servita come base operativa per aggredire un popolo indomito come quello

libico, e ci son voluti sette mesi di incessanti bombardamenti della più vasta

coalizione dai tempi di Desert Storm, per ridurre a ceneri fumanti un’intera Nazione.

La Sicilia è sede di decine e decine di basi americane, tra le quali la più vasta

d’Europa, Sigonella, e ora si prevede l’istallazione di un sistema radar a raggio

intercontinentale, il MUOS, che costituisce un pericolo incombente alla salute delle

popolazioni esposte, che viene a sommarsi alle 46 antenne del sistema NRTF già

presenti a Niscemi da oltre vent’anni.

Un altro fenomeno che investirà nel prossimo futuro soprattutto le

amministrazioni locali è l’enorme peso del debito che esse hanno contratto al d fuori

di ogni controllo. Se oggi i Comuni più indebitati sono Torino e Milano, abbiamo

invece già assistito a vere “bancarotte” come quelle del comune di Brindisi e fra poco

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si prepara il grosso botto del Comune di Palermo gravato da un debito che non sarà

mai più ripianabile e che peserà a vita.

L’ingresso nell’Unione Europea ha avuto per l’agricoltura meridionale lo

stesso effetto che ebbe l’Unità d’Italia: protezionismo per il Nord e liberismo per il

Sud. I contributi elargiti nel tempo sono serviti a distruggere le coltivazioni di pregio a

favore di produzioni di scarsa qualità e comunque non competitive col Nord. Si è

pensato sempre come sostenere e far passare leggi in sede comunitaria a favore dei

grandi gruppi industriali (vedi vicenda delle sementi), che hanno stravolto la

trasformazione dei cibi (lo zuccheraggio dei vini, l’aranciata non più fatta con le

arance, oli de-acidificati) e delle aziende agricole del Nord Europa (vedi le quote

latte). Il calo dei prezzi, imposto dalla grande distribuzione porta all’erosione dei

margini, ha comportato il calo della qualità e lo sfruttamento selvaggio della

manodopera. Chi crede che i problemi dell’agricoltura sono da attribuirsi alla

concorrenza dei prodotti provenienti dal resto del mondo, si sbaglia. Le ragioni sono

da cercare nella speculazione privata e nel liberismo selvaggio. Le produzioni di

qualità (vino, ortofrutta) spesso si collocano su mercati di nicchia, che poco o niente

incidono sui livelli occupazionali. Dietro a ogni prodotto acquistato a basso costo c’è

sfruttamento. Nardò con le angurie, Rosarno con gli agrumi e nella zona di Foggia e di

Pachino con i pomodori, rappresentano uno spaccato di una realtà diffusa. Il fenomeno

del caporalato è parte integrante dello sfruttamento capitalistico e non un accidente

locale, è la modalità dello sfruttamento schiavistico proprio delle regioni periferiche

dell’imperialismo. Ne è prova che mai nessun governo ha voluto – non potuto –

contrastare questo fenomeno, né con legislazioni efficaci, né con azioni di repressione.

Né più né meno ciò che accade per gli incidenti sul lavoro.

Stesso discorso si può fare per il comparto della pesca. La fine

dell’assistenzialismo, l’incremento abnorme dei costi, lo strangolamento della

distribuzione e l’iper-sfruttamento del mare da parte delle multinazionali a cui nessun

governo si è occupato di opporsi. A fare il mercato ovviamente è la grande

distribuzione, spesso in mano o a capitali “oscuri” o a grandi multinazionali.

In Sicilia e in Sardegna abbiamo assistito a un fenomeno di ribellione che ha

saldato classi e interessi eterogenei: i pastori sardi, i contadini, i pescatori e gli

autotrasportatori siciliani. Occorre riconoscere che solo i primi si sono saldati

stabilmente alle lotte operaie in difesa del posto di lavoro e hanno davvero avuto la

unanime solidarietà del popolo sardo. Invece più variegato è il panorama in Sicilia. Il

nostro Partito ha espresso una chiara posizione, respingendo le accuse di “mafiosità”

indiscriminata di cui i rappresentanti dei capitalisti hanno bollato queste lotte. Se

all’interno del movimento dei forconi ci sono parole d’ordine che – pur nella

limitatezza dello spontaneismo – hanno dato voce alle istanze dei braccianti agricoli e

giuste accuse e meritate ingiurie indirizzate ai rappresentanti politici locali e nazionali,

dall’altro lato occorre ricordare che questi strati sociali fino a ieri godevano della

mediazione politica delle destre. In realtà è proprio questa mediazione politica che è

saltata col governo Monti, un governo che, contrariamente al precedente, è

completamente impermeabile alle istanze del ceto medio. Il crollo della mediazione

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politica può aprire notevoli spazi di manovra per i comunisti, solo se essi sapranno

esprimere una voce di opposizione di classe che leghi innanzitutto gli sfruttati contro

il sistema capitalistico e quindi realizzi le giuste alleanze con gli altri ceti produttivi.

 

Se il comparto primario subisce forti penalizzazioni, la situazione nel

comparto industriale è allo stremo. Lo smantellamento della potenza manifatturiera

italiana, che tanta concorrenza fa al sistema mittel-europeo, comincia da qui. La

metalmeccanica siciliana è scomparsa o sta per chiudere, non solo la FIAT e con essa

l’indotto, ma anche tante piccole e medie realtà, come i Cantieri Navali di Trapani e

Palermo, la chimica sarda, le industrie di trasformazione. Anche alcuni punti di

eccellenza, come l’Etna Valley, sono in difficoltà. A parte alcune, restano i pezzi più

inquinanti e devastanti: il petrolchimico (in Sicilia si raffina oltre la metà del petrolio

italiano), i previsti rigassificatori e le trivellazioni. In queste condizioni il destino del

Sud è segnato. Pensare che l’occupazione possa venire da produzioni di nicchia, o da

un turismo d’élite è ridicolo. Restano invece i grandi affari legati agli appalti pubblici,

di cui la mafia gode i benefici. Tuttavia è da sottolineare che anche qui le aziende

locali svolgono per di più un ruolo di supporto sul territorio che consente di fare il

lavoro sporco a basso prezzo, mentre le grandi commesse vengono aggiudicate da

grandi multinazionali. È questo il caso, per esempio, della costruzione degli

inceneritori o del Ponte di Messina. Le grandi ditte del Nord si aggiudicano gli appalti

grazie a ribassi, che possono garantire da un lato con un sistema di subappalti che le

rende invulnerabili rispetto alle numerose infrazioni sulla normativa del lavoro, o

all’iniezione anche qui di capitali di origine illegale. Il tutto sotto l’egida della

criminalità organizzata che, lungi dal creare un ostacolo all’impresa capitalistica,

garantisce la pace sociale e sindacale.

 

Il comparto sanitario sta sempre più diventando una delle principali voci

utilizzate dalla criminalità organizzata sia come forma di riciclaggio del denaro

illecito, sia come fonte di reddito “pulito”, legale. Ma le mani sul business non sono

solo quelle mafiose; prendiamo ad esempio il caso delle “sette sorelle della sanità

privata”; in cui si annoverano banchieri e immobiliaristi con forti interessi

nell’editoria. Le loro holding svettano per il numero di posti letto sparsi in cliniche,

centri di riabilitazione, case di riposo per lo più accreditati, attraverso le Regioni, al

Sistema sanitario nazionale, dunque a carico delle casse pubbliche in base a tariffe

predeterminate. Oltre alle Sette sorelle c’è la Grande madre, cioè la Chiesa, che del

business della sanità privata rappresenta una fetta importante, ma difficile da

quantificare. La proprietà delle strutture è frammentata tra fondazioni, ordini religiosi,

diocesi, tutti enti che non sono tenuti a rendere pubblici i propri bilanci. Esiste anche

l’ottava sorella rappresentata dalla Compagnia delle Opere, braccio economico di

Comunione e Liberazione: chiunque voglia fare affari deve entrare nei meccanismi

ciellini; ogni settore ha una sua associazione, ognuna di queste associazioni fa capo a

propri partner. Il sistema capitalistico è ben oliato e funziona a pieno regime

soprattutto al Sud. Uno dei centri più potenti di organizzazione del consenso è proprio

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la rete clientelare dei medici. Ulteriore scandalo è la commistione pubblico-privato

che non si vuole estirpare, un sistema che garantisce un continuo travaso di soldi e

potere pubblici verso i potentati locali che finora sono stati la cinghia di trasmissione

del potere capitalistico-mafioso-clientelare.

 

Negli ultimi decenni abbiamo assistito in Italia al processo di smantellamento

di vari settori pubblici, ma quello che ha subito gli attacchi più grossi è stato quello

dell’istruzione, attraverso l’azione convergente dei governi sia di centro-destra che di

centro-sinistra. Dai ministri della pubblica istruzione Luigi Berlinguer alla Gelmini,

tra riduzione dei fondi di finanziamento alle “riforme” che hanno espulso decine e

decine di migliaia di lavoratori precari sia la scuola che l’università statali italiane

hanno subito continue penalizzazioni: niente tempo pieno che meglio agiva sul

contrasto alle disuguaglianze sociali, introduzione del maestro unico, aumento

inaccettabile del numero minimo di studenti per classi e contestuale riduzione del

personale scolastico. Anche il ruolo svolto dagli enti locali, cui compete fornire le

dotazioni infrastrutturali, contribuisce ad aumentare il divario, infatti nel Mezzogiorno

il volume di spesa è più basso che altrove e col federalismo fiscale la situazione non

migliorerà.

Notevole è il divario in percentuale tra i diplomati e laureati nel Centro Nord

e nel Mezzogiorno con una forbice che si può calcolare dai 3 ai 7 punti percentuali o

più nei vari ordini scolastici. Lo SVIMEZ ci avverte che nel Sud, e particolarmente in

Sicilia, oggi si registrano i minori tassi di passaggio dalla scuola superiore

all’università, mentre nel 2001-2002 questo differenziale si era sostanzialmente

annullato. Questo avviene in un Paese che presenta il minor numero di laureati

d’Europa e il più alto numero di laureati disoccupati. Ciò è testimonianza dello stato

di arretratezza culturale del tessuto economico italiano in genere. Questa caratteristica

è anche abbinata col fatto che in Italia si spende per ricerca e sviluppo circa la metà

dei paesi nostri diretti concorrenti; ma la parte drammaticamente carente è soprattutto

quella privata.

Nella scuola l’espulsione dei lavoratori precari è stata particolarmente

massiccia nel Sud rispetto al Nord, ricordiamo che solo in Sicilia si sono persi finora

ben 20mila posti. Inoltre la realizzazione dei test INVALSI hanno dato dei risultati

dall’effetto comico. Laddove i risultati davano punteggi superiori alle scuole del

meridione, si sono manomessi a posteriori i criteri di valutazione statistici, al solo

scopo di ottenere ciò che era già stato scritto:  gli italiani meridionali sono più ciucci

di quelli del nord.

Stesso furore si è messo nell’università statale. Dopo la rottura dell’unità

amministrativa attraverso le “autonomie” degli Atenei e la “liberalizzazione” dei piani

di studio, i fondi per gli Atenei meridionali sono andati progressivamente

prosciugandosi molto più di quanto non sia avvenuto per quelli del Nord. Attacco

finale al diritto allo studio verrà con la prevista eliminazione del valore legale del

titolo di studio. Inoltre già si è creata una rete di Atenei sedicenti “eccellenti” che si

trovano tutti nel centro-nord.

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A cosa mirano queste azioni che non possono essere classificate come “errori” o

“disattenzioni”? Allo smantellamento del sistema pubblico e statale dell’istruzione.

Ciò porterà a due risultati convergenti. Il primo, più scontato, aprire le praterie della

privatizzazione alle scuole private che presentano costi almeno tripli rispetto a quelle

pubbliche. Ma anche le università statali (?) del nord avranno il loro beneficio,

posizionandosi come poli di attrazione privilegiati per i figli delle classi dirigenti di

tutta Italia. Quindi penalizzazione per il Sud e doppia penalizzazione per i suoi figli

delle classi non abbienti. Il secondo risultato, più perverso, è un generale decadimento

della linfa vitale culturale della società italiana, che nei prossimi decenni non potrà

che portare a una progressiva espulsione del nostro Paese da quelli avanzati.

 

Il fenomeno mafioso in Sicilia si manifesta prima dell’Unità d’Italia. Essa si

può considerare uno strumento di oppressione ideato dai rappresentanti del grande

capitale agrario del sud (latifondisti ed aristocratici) per bloccare le rivolte scoppiate

nel Regno delle Due Sicilie tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo. Il

fenomeno mafioso muta nel tempo e acquisisce sempre maggiore forza in Sicilia fino

a rendersi sempre più indipendente dal grande capitale agricolo alla fine del XIX

secolo. La mafia in quel periodo stringe una forte alleanza con il grande capitale

finanziario del Nord, ampiamente rappresentato a Roma in tutti i governi nazionali

che si succedono dal 1861 fino all’inizio del ventennio fascista. Questa prima

mutazione genetica avviene in concomitanza con la perdita di potere del grande

capitale agricolo meridionale che soccombe progressivamente dinanzi alle esigenze

espansionistiche del capitalismo agricolo ed industriale del nord. Il legame tra il

grande capitale e la mafia rimane intatto durante il ventennio fascista e nel 1943 la

mafia ha un importante ruolo nello sbarco alleato a Gela ed è decisiva nell’immediato

dopoguerra quando il governo nazionale dovrà fronteggiare le spinte autonomistiche

della Sicilia, reprimendole nel sangue (strage di Portella della Ginestra del 1° Maggio

1947), per bloccare le rivolte contadine e l’avanzata delle forze socialiste e comuniste.

Il connubio tra i partiti di governo (in particolare la DC) e la mafia rimane saldo e anzi

si estende anche alle altre mafie meridionali durante il periodo che va dal 1945 al

1992 (vicenda Ciro Cirillo). Le organizzazioni mafiose meridionali non hanno più

come fonte di entrata solo il “pizzo”, lo sfruttamento della prostituzione, il traffico di

droga e di armi, ma si arricchiscono soprattutto con gli appalti pubblici. Infatti una

parte consistente dei 280000 miliardi di lire erogate dalla Cassa del Mezzogiorno tra il

1951 ed il 1992 per lo sviluppo delle regioni meridionali è intercettato dalla mafia,

mentre la maggior parte degli appalti va spesso a società ed aziende del Nord Italia.

Molti sono stati, negli ultimi 30 anni, i casi segnalati dalla magistratura inquirente di

infiltrazioni criminali negli appalti delle grandi infrastrutture meridionali che vedono

protagoniste grandi gruppi imprenditoriali del Nord colluse (ed a volte controllate)

dalla mafia. La mafia infatti diventa sempre più un soggetto capitalista che mantiene

inalterato il suo potere criminale. La mafia imprenditrice non si manifesta solamente

in Sicilia ma anche nel Nord Italia. Quanto avviene in Sicilia sarà decisivo nella

formazione dei nuovi equilibri tra il sistema politico, le organizzazioni criminali e la

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grande imprenditoria del Nord, che stabilizzeranno dopo il 1992. La mafia siciliana

dopo la stagione delle stragi cercherà da quel momento in poi di rendersi meno

visibile e penserà solo a fare affari con la nuova classe dirigente.

Uno degli affari più grandi su cui la mafia ha cercato di sfruttare è quello del Piano

Regionale dei Rifiuti redatto alla fine del 2001 dalla Regione Siciliana governata da

Totò Cuffaro, condannato nel Gennaio del 2011 per mafia. Il piano dei rifiuti

prevedeva la costruzione di quattro megainceneritori del gruppo Falck,

sovradimensionati e progettati secondo criteri obsoleti che li rendevano ancora più

pericolosi. Inoltre il piano istituiva la formazione di 27 Ambiti Territoriali Ottimali,

tramite i quali i comuni avrebbero gestito il trasporto e il conferimento dei rifiuti, con

criteri di gare di appalto che avrebbero favorito le aziende di trasporto riconducibili a

“Cosa Nostra”.

Ma l’affare del secolo rimane per la mafia e la ndrangheta il Ponte sullo

Stretto. Un opera pubblica, inutile e dannosa, da oltre 6 miliardi di euro, di cui 1,1

miliardi già spesi solo per la progettazione. Un’opera da molti ritenuta irrealizzabile,

dall’impatto ambientale devastante, su cui le due organizzazioni criminali avevano

allungato i tentacoli. In conclusione esso era un affare solo per il grande capitale

nazionale ed internazionale, oltre che per la criminalità organizzata.

Queste vicende dimostrano che la mafia diventa nei secoli imprenditrice, non

solo perché ha sempre gestito una grande quantità di denaro, ma perché riesce anche a

gestire il consenso politico-amministrativo-elettorale. La sua natura è quindi di essere

la specifica declinazione che il capitalismo assume nelle regioni meridionali e non un

“cancro” estraneo asportabile. Ecco il motivo per cui dove c’è capitalismo c’è la mafia

e ci sono comportamenti di tipo mafioso, e dove c’è la mafia c’è il capitalismo con i

suoi interessi.

 

Negli ultimi cinquant’anni ogni giorno 75 ettari di terra vengono trasformati

in asfalto, 600 mila ettari di suolo vengono sommersi da colate di cemento, altrettanti

rischiano di fare la stessa fine nei prossimi venti. In Sardegna è stato urbanizzato il

suolo addirittura del 1.154% rispetto agli anni 50. Persino in quei comuni che si sono

svuotati per ogni abitante perso abbiano guadagnato in media 800 metri quadri di

cementificazione a causa dell’abusivismo e l’attività di cava ad opera delle lobby del

cemento, favorite, negli ultimi 16 anni da ben tre condoni edilizi. Nel solo 2006 le

cave hanno mutilato il territorio scavando 375 milioni di tonnellate di inerti e 320

milioni di tonnellate di argilla, calcare, gessi e pietre ornamentali. Ne risulta un

territorio fragile, in equilibrio precario, soggetto a frane, smottamenti, alluvioni,

esondazioni, a forte rischio desertificazione, come mai prima d’ora. Ne sono

l’emblema Sicilia, Calabria, Campania, Metapontino. Gli interventi per via della

intempestività, occasionalità, non programmazione, infiltrazioni malavitose, gestione

non oculata o speculativa risultano oltremodo onerosi e spesso inutili. I costi sulla

società, soprattutto in termini di vite umane e danneggiamenti, sono esorbitanti. Tutto

ciò è l’effetto di un capitalismo predatorio che non si arresta davanti a nulla.

Oggi è impossibile pensare di poter ritornare all’interno del sistema

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capitalistico alla tradizionale gestione del territorio. Questo perché la lentezza che

contraddistingueva le società tradizionali non risponde alla logica del massimo

profitto.

Il cemento armato si è sostituito alle tecniche e ai materiali locali,

l’approvvigionamento idrico attuale sta prosciugando le falde e i bacini idrici naturali,

i fertilizzanti chimici e i pesticidi si sono sostituiti ai concimi naturali a scapito della

qualità dei cibi, le monocolture intensive alla rotazione agraria con conseguente

inaridimento del suolo. Alle economie locali, fondate sull’agricoltura, l’allevamento,

l’artigianato, gestite secondo metodi e modelli tradizionali si sono sostituiti sistemi e

modelli finalizzati alla grande distribuzione, attraverso lo sfruttamento e l’uso

intensivo dei suoli per aumentare la produttività e ottenere tutto ciò che la natura non

riesce a fornire secondo i suoi cicli. Se continueremo a reiterare gli attuali

comportamenti, entro i primi anni del 2030 avremo bisogno di due Pianeti per

soddisfare il fabbisogno dell’umanità di beni e servizi.

La globalizzazione dell’economia e degli scambi ha fortemente indebolito la

funzione degli Stati nazionali sotto diversi aspetti, nella capacità di contrattare con la

grande impresa multinazionale che, sotto l’imperativo della flessibilità, distribuisce

investimenti in settori e regioni in modo quasi capillare, e mal sopporta le esigenze di

stabilità e continuità del paese ospite. Inoltre, al naturale indebolimento della base

geopolitica di riferimento delle aree di influenza, una volta fondate sulla disponibilità

di risorse e materie prime, vie d’acqua navigabili, porti e accessibilità, ora esse cedono

il passo a fattori come la copertura dei satelliti televisivi, di segnali radio, etc.

 

Sul piano strettamente teorico, una posizione da ecologismo borghese – che

non si manifesta solo nei salotti-benpensanti, ma pure in larghi settori di movimento, o

di falso-movimento – è assolutamente fuorviante proprio perché nega la

contraddizione capitale-lavoro come principale, soprattutto nell’analisi della finitezza

dello sviluppo materiale e della qualità dei modelli di un possibile, futuro sviluppo.

Nefasto è pure il non considerare come il famigerato ciclo dei rifiuti nel Mezzogiorno

d’Italia sia figlio legittimo ed oggi fratello stretto del ciclo delle cave e del ciclo del

calcestruzzo, significa non solo non comprendere le sue radici materiali ed i suoi modi

di produzione, in termini di logistica, impiantistica, tempi, distribuzione, ma anche

derubricare la presenza strategica delle mafie in tale settore produttivo a semplice

incidente, occasione casuale, e non invece elemento strutturale, tutto interno ad aspetti

di un preteso sviluppo capitalistico che, lungi dall’essere definibile come arretrato, ne

rappresenta invece una punta avanzata, anticipatrice di diffusioni addirittura

planetarie.

Del resto la stessa prevalenza in tale ciclo industriale della specialistica del

ciclo dei rifiuti nocivi industriali mette in risalto la natura di classe degli enormi danni,

soprattutto alla salute pubblica, che da essa sono derivati e tuttora derivano

massicciamente, ben al di là dei dati ufficiali.

Anche qui declassare la questione ad una querelle tra un nefasto Nord

industriale e un Sud buono e bucolico è non solo puro esercizio di fantasia, ma

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sostanzialmente un tentativo disperato di deviare le gravissime responsabilità, anche

morali, del sistema capitalistico nel suo insieme.

Le proposte dei comunisti di breve-medio periodo devono anche tenere conto

del livello del dibattito politico che si è realizzato oggi in Italia tra i “movimenti”,

facendo sedimentare le novità e i contributi interessanti che ne son venuti e

contrastando le derive piccolo-borghesi che oscurano la contraddizione capitale-lavoro

come fondamentale nella nostra società.

La contraddizione che questi movimenti hanno affrontato è quella tra una gestione dei

beni collettivi (acqua, trasporti, …) di tipo privatistico, che è stata rigettata anche nelle

forme di Società di capitali a intera o prevalente partecipazione pubblica, perché

portatrice di interessi antisociali e non certo garanzia di efficienza, e una gestione

pubblica che nelle esperienze passate si è spesso rivelata un baraccone parassitario del

potere economico ed elettorale del sottobosco politico.

La ricetta alla quale quei movimenti hanno messo capo è  “pubblico e  partecipato”,

ossia Società di gestione che abbiano una natura pubblicistica, ma che siano sottoposte

a un costante e puntuale controllo della collettività, che si esprimerebbe per il tramite

organizzativo  di  associazioni costruite dal basso.

Naturalmente sappiamo che tali soluzioni non possono essere definite come soluzioni

ottimali, perché esse cercano di perseguire una impossibile compatibilità col sistema

capitalistico.

 

Aumento della produttività significa solo abbattimento dei costi da parte del

padrone ed espulsione di manodopera, modernizzazione e globalizzazione significa

solo importare in Italia le condizioni di lavoro del cosiddetto terzo mondo. Solo una

produzione “sociale” e non per il mercato, pianificata e controllata dalla classe

operaia, può liberare le straordinarie energie produttive odierne e aumentare il

benessere di tutti i cittadini. Questo è particolarmente vero nel Mezzogiorno d’Italia,

dove si accumulano tutte le più stridenti contraddizioni del capitalismo moderno:

mafia, devastazione del territorio, disoccupazione e precarizzazione del lavoro

dipendente (ma oggi anche quello autonomo), bassissima spesa sociale utile e sprechi

per sanità, infrastrutture, istruzione e ricerca.

 

 

 

 

 

 

 

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7) Internazionalismo ed antimperialismo.  

 

 

Il Partito Comunista che stiamo costruendo ha nell’antimperialismo e

nell’internazionalismo proletario due ragioni fondanti. E’ indispensabile che tutto il

corpo del Partito assimili pienamente e definitivamente i contenuti dell’analisi che, da

tre anni a questa parte, il Partito ha compiuto in merito alla cosiddetta

“globalizzazione” capitalistica, che altro non è se non il recupero del dominio

mondiale incontrastato, salvo rare e limitate eccezioni, da parte del capitale

monopolistico dopo la scomparsa del blocco socialista.

Questa analisi deve partire da una corretta definizione e comprensione

dell’imperialismo, troppo spesso erroneamente identificato con la sua fenomenologia,

cioè con la guerra, l’espansionismo, le politiche neo-coloniali. Queste sono le forme

con cui si manifesta, ma è la concentrazione monopolistica del capitale che ne

costituisce la sostanza. La concentrazione del capitale e la concentrazione della

proprietà, che ne è la proiezione giuridica, la loro trasformazione in capitale

monopolistico e in proprietà monopolistica dei mezzi di produzione al fine della

massimizzazione del profitto sono una legge oggettiva generale dello sviluppo

capitalistico nella sua fase imperialista, una legge che oggi opera allo stesso modo

tanto negli Stati Uniti, quanto in Europa e, al di fuori di essa, in Asia, in America

Latina e persino in Africa, sia pure con intensità diverse.

Non è quindi accettabile, perché falsa e sbagliata, la teoria del

“superimperialismo” statunitense egemone che imporrebbe la propria volontà ai

“subimperialismi” degli altri paesi industrializzati all’interno di un blocco omogeneo.

Nella realtà esistono diversi disomogenei poli imperialisti, in aspra competizione tra

loro per il controllo delle rotte commerciali, delle vie di comunicazione e

telecomunicazione, dell’informazione e per la spartizione delle risorse del pianeta,

dalle fonti d’energia, alle materie prime, all’acqua fino alle risorse umane, immense

masse di diseredati che costituiscono l’esercito di riserva dei nuovi schiavi della

produzione capitalistica. Anche quando apparentemente si manifestano coincidenze

d’interessi, la competizione interimperialistica non cessa di operare, rimandando

semplicemente la contrapposizione aperta ad un momento successivo. E’ appunto il

tentativo di comporre la concorrenza interimperialistica, o di acquisire massa critica al

suo interno, che spinge gruppi di paesi capitalistici alla creazione di conglomerati

imperialisti quali l’Unione Europea.

La teoria del “superimperialismo” conduce direttamente ad un’ulteriore e

pericolosa degenerazione. E’ sufficiente che la contraddizione interimperialista si

manifesti come contrapposizione di un qualsiasi imperialismo all’imperialismo USA

per generare, soprattutto in certa “sinistra”, l’illusoria idea della dicotomia tra

“imperialismo buono”, nei cui confronti scattano pulsioni di simpatia e “imperialismo

cattivo”. Non è forse anche questo il senso dell’insistere del Partito della Sinistra

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Europea sulla necessità di creare un Esercito Europeo e di potenziare la Polizia

Europea? E non deriva forse tutto questo dall’incapacità o dal rifiuto di comprendere

la vera sostanza di qualsiasi imperialismo?

Solo queste considerazioni, basate su una definizione scientifica

dell’imperialismo, possono farci comprendere il ruolo reale dei BRICS, la cui vera

natura sfugge, per le ragioni che citavamo più sopra, alla maggior parte della

cosiddetta “sinistra”.

 

Riportiamo una recente dichiarazione del generale in congedo Vladimir

Dvorkin, esperto dell’Istituto dell’Economia Mondiale e delle Relazioni Internazionali

presso l’Accademia delle Scienze di Russia, una fotografia precisa su questo aspetto

delle attuali relazioni internazionali “… L’Occidente è infatti preoccupato per

l’eventuale formazione dell’alleanza russo-cinese. Questa alleanza, che in precedenza

era meramente economica, si sta trasformando adesso in politico-militare. Da una

parte, ci sono le alte tecnologie russe nella sfera dell’aviazione e della

navalmeccanica, le armi missilistiche e il potenziale nucleare russo, nonché le risorse

russe. Dall’altra parte, la laboriosità, la numerosa popolazione e l’espansione

demografica della Cina. È una tremenda forza. Ovviamente, l’Occidente è molto

preoccupato da questo vettore di sviluppo dei rapporti russo-cinesi. Ciò, in sostanza,

mette in forse il dominio dell’Occidente nel mondo.” Affermazione importante e piena

di buon senso. Il problema è che non si può essere così ingenui da pensare che oggi i

BRICS possano svolgere il ruolo che ieri svolgevano i paesi socialisti. La maturità del

loro capitalismo, data dal livello di alta concentrazione del capitale industriale e

finanziario in forme monopolistiche, ne certifica l’entrata nella fase imperialista. Il

grado di accumulazione di capitale di questi paesi non è ancora ai livelli di USA e UE,

anche se si sta rapidamente adeguando, così come è diverso il loro modus operandi

nelle relazioni internazionali, possono apparire “più simpatici” ma la loro natura

economica è sostanzialmente la stessa.

 

I BRICS sono quindi certamente in grado di mettere in discussione il

predominio dell’Occidente, ma da una posizione imperialista e attraverso i ben noti

meccanismi della concorrenza interimperialistica. Non si capirebbe altrimenti la

differenza di comportamento tra la vicenda libica e quella siriana. Un loro eventuale

successo comporterebbe solo lo spostamento del baricentro del dominio imperialistico

da un polo all’altro. Per quanto detto, è evidente che i BRICS sono entrati in rotta di

collisione con gli imperialismi tradizionali. La collisione, per ora, si manifesta

soprattutto con l’erezione di dazi e altre limitazioni commerciali contro le merci, intese

in senso lato, provenienti dai BRICS, ma il fatto stesso che sia questi, sia i poli

imperialisti tradizionali siano legati al WTO, non consente un uso estensivo di queste

restrizioni protezionistiche.

La necessità di assicurarsi il controllo delle risorse strategiche e dei mercati di

sbocco, comune sia ai BRICS, sia agli imperialismi tradizionali sfocerà prima o poi in

un confronto militare. Questo confronto in realtà già esiste, sia pure in modo indiretto

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e si manifesta nella moltiplicazione dei conflitti militari locali, cioè combattuti in casa

d’altri. Afghanistan, Iraq, Jugoslavia, Libia, Siria sono la conferma più eclatante della

competizione interimperialista, condotta a spese dei popoli di paesi terzi

I comunisti e il movimento operaio non hanno oggi che un’arma da contrapporre a

questi processi: la solidarietà proletaria internazionalista. Fin dalla sua fondazione, il

nostro Partito sta infatti lavorando per costruire una solida rete di rapporti bilaterali

con altri partiti comunisti e operai, a livello europeo e mondiale, ponendosi l’obiettivo

di un coordinamento, anche organizzativo, sempre più stretto tra essi, sulla base di una

teoria e prassi marxiste-leniniste coerenti e rigorose.

Per quanto riguarda le questioni europee, abbiamo da tempo stabilito e pratichiamo

una linea di netta contrarietà e rottura con l’Unione Europea e la NATO, per l’uscita

dell’Italia da entrambe.

Abbiamo svelato e il ‘feticcio’ delle alleanze politiche e del parlamentarismo,

dimostrando come non esistano, nella fase attuale, partner o interlocutori plausibili per

un partito comunista. Il Partito Socialista Europeo, a cui aderisce il PD, condivide con

il Partito Popolare Europeo la rappresentanza del grande capitale industriale e

finanziario, in un rapporto di alternanza di governo che, al di là di differenze

marginali, in sostanza garantisce la continuità del potere della borghesia monopolista.

Gli opportunisti del Partito della Sinistra Europea del quale fa parte, a vario titolo, la

cosiddetta “sinistra radicale” italiana, predicano l’alternativa ma hanno comunque un

rapporto subalterno e funzionale alla UE, ingannando le masse con l’illusione della

riformabilità del capitalismo e il miraggio della possibilità di una sua umanizzazione.

Sanno perfettamente che, nel quadro di questo sistema e di queste istituzioni, l’Europa

dei popoli non esiste né mai esisterà,  ma continuano a svolgere il ruolo ideologico di

stampella sinistra dei palazzi di Bruxelles. I nomi dell’opportunismo sono simili in

ogni paese, – Bloque de Esquerra, Izquierda Unida, Die Linke, Front de Gauche,

Siryza ecc – ma ovunque mascherano la gabbia riformista entro cui vorrebbe confinare

e neutralizzare la conflittualità di classe.

Per questo riteniamo che non vi siano oggi le condizioni per alleanze politiche

dei comunisti con altri partiti. Crediamo invece che sia necessario lavorare per

costruire le alleanze sociali della classe operaia con gli altri ceti popolari,

promuovendo il coordinamento delle lotte anche a livello europeo. Anche in questo

senso vediamo nell’internazionalismo proletario una delle leve strategiche della

rivoluzione in Europa e nel mondo. La coerenza delle nostre posizioni e lo scambio di

analisi ha portato il Partito all’instaurazione di rapporti fraterni, non solo formali ma

fattivi, con importanti organizzazioni del movimento comunista internazionale che

consideriamo partiti fratelli. Le sezioni nazionali della nostra Federazione Estera

operano in stretto contatto e collaborazione con i partiti fratelli, ad un livello che va

oltre la semplice condivisione di analisi e documenti per arrivare all’organizzazione di

manifestazioni e azioni politiche congiunte e, fatto inedito fino ad ora, alla militanza

degli emigrati di un partito nei ranghi del partito fratello del paese ospitante.

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Insieme a trenta partiti comunisti e operai europei, aderiamo e partecipiamo

attivamente all’Internazionale “’Iniziativa dei Partiti Comunisti e Operai d’Europa”, il

primo organismo di coordinamento dei comunisti per dare maggiore efficacia alla

lotta contro l’UE e gli opportunisti del Partito della Sinistra Europea.

 

Consolidiamo costantemente i rapporti di solidarietà internazionalista col

Partito Comunista Siriano e come quello del Messico, con  Cuba socialista e il PCC,

con la Repubblica Bolivariana di Venezuela, il PCV e il PSUV, mantenendo viva

l’attenzione verso qualsiasi movimento rivoluzionario nel continente latinoamericano,

cercando di contribuire a rafforzarne l’orientamento verso uno sviluppo socialista.

Quando parliamo di Cuba, il nostro pensiero va ai Cinque Eroi, di cui quattro ancora

illegittimamente incarcerati e trattenuti negli Stati Uniti. Anche in queste sede

esprimiamo la nostra solidarietà militante a loro, alle loro famiglie e al popolo cubano

tutto, impegnandoci ad esigerne con sempre maggior insistenza la restituzione alla

patria. Manteniamo viva la solidarietà con la Repubblica Democratica Popolare di

Korea e con il Partito del Lavoro di Korea

 

Condividendo il principio dell’autodeterminazione dei popoli, il loro diritto a

scegliere il proprio futuro senza l’intervento dell’imperialismo, esprimiamo solidarietà

piena al popolo e al Partito Comunista di Palestina, contro l’occupazione sionista

sostenuta dall’imperialismo statunitense ed europeo, per la liberazione di quelle terre,

la liberazione dei detenuti politici palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, il ritiro

di Israele entro i confini del 1967, lo smantellamento degli insediamenti illegittimi dei

coloni israeliani e l’immediata cessazione dell’embargo contro la popolazione

palestinese di Gaza.  La nostra solidarietà va anche ai popoli e ai legittimi governi di

quei paesi che oggi sono minacciati o aggrediti dall’imperialismo perché non ne

vogliono accettare il rapinoso diktat. Come abbiamo fatto ieri con la Libia di

Gheddafi, così facciamo oggi con la Siria di Assad e domani, se necessario, con l’Iran.

Paesi che hanno sistemi politici diversi tra loro, nei confronti dei quali esprimiamo

criticità anche forte, ma che meritano la nostra totale solidarietà “senza se e senza ma”

quando subiscono l’aggressione imperialista. In questa nostra unicità nel panorama

politico italiano, siamo lontani dalla finta sinistra, anche radicale, tanto “politicamente

corretta” quanto totalmente subordinata al pensiero unico del capitalismo, la quale si

limita tutt’al più a qualche generico appello pacifista, nel quale non distingue mai tra

vittime e aggressori.

 

 

 

 

 

 

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 8) Natura della crisi; un programma di trasformazione socialista. 

Il capitalismo è giunto oggi ad una devastante crisi di sovrapproduzione e

sovraccumulazione dalla quale non riesce ad uscire, né applicando ricette fondate

sull’intervento pubblico a sostegno della domanda (keynesismo), né con il più sfrenato

monetarismo fondato sul disequilibrio fra domanda ed offerta. Così, non riesce più a

riavviare un duraturo ciclo di riproduzione allargata e di accumulazione. Quale la

causa di tale situazione ?

Nel mercato capitalistico, le nuove tecnologie permettono la riduzione della

forza- lavoro impiegata nei processi produttivi, generando disoccupazione, con

relativa diminuzione del costo del lavoro nel breve periodo. Tuttavia, il conseguente

aumento della composizione organica del capitale – cioè il rapporto tra capitale

costante (edifici, terreni, macchine, impianti etc.) chiamato così perché il suo valore

rimane invariato al termine di ogni ciclo produttivo, e capitale variabile (forza-lavoro)

che, invece, è l’unica a trasferire un valore aggiunto al prodotto, con la diminuzione

dell’impiego delle quantità di quest’ultima – provoca, inevitabilmente, una

diminuzione del saggio di profitto, come scientificamente dimostrato da Marx.

La caduta tendenziale del saggio di profitto, da un lato obbliga il capitale a

distruggere una parte di se stesso, cioè quella invenduta  ed accumulata in quota

maggiore rispetto alla domanda del mercato, da cui i licenziamenti ed i

disinvestimenti; d’altro lato, lo obbliga ad intensificare lo sfruttamento della forza-

lavoro con l’incremento dell’estrazione di plusvalore attraverso l’estensione

dell’orario di lavoro, l’allungamento dell’età pensionabile, la riduzione del salario

nominale e la sua deindicizzazione dal costo della vita, i tagli ai servizi sociali ed alla

entità delle pensioni erogate.

L’indebitamento pubblico è, oggi, da molti indicato come causa principale

della crisi. In realtà, esso è stato uno degli strumenti principali con cui, nelle fasi di

sviluppo, il capitale ha sostenuto il tasso di profitto attraverso politiche di sgravi

fiscali e contributivi alle imprese, di agevolazioni creditizie, di finanziamenti ai vari

settori industriali. Basti pensare, poi, che nella crisi in corso, tra il 2007 ed il 2009, il

deficit di bilancio della media dei paesi dell’Unione Europea è cresciuto di 10 volte,

dallo 0,7 al 7% del PIL, non a causa dell’aumento delle spese sociali, ma in seguito

alla crisi delle banche che ha pesato sui bilanci pubblici dell’Unione Europea, dal

2008 ad oggi, per un ammontare di 3500 miliardi di euro, equivalente alla somma dei

debiti pubblici di  Spagna, Portogallo, Italia e Grecia.

E’ vero, invece, che i costi di questi interventi di spesa, come l’ultimo

concordato a Bruxelles e denominato scudo anti-spread – che altro non è che un

65

intervento di acquisto di titoli sottoposti a vendita speculativa sui mercati, finanziato

dal Fondo salva stati, cioè con i soldi di tutti noi  – vengono oggi scaricati sulla classe

operaia, sui lavoratori e sui popoli.

La crisi attuale, quindi, non è dovuta all’indebitamento pubblico, il quale è

stato creato in conseguenza dell’incapacità del capitale a riavviare il ciclo di

riproduzione ed accumulazione, ma, nel suo stesso aspetto finanziario, è dovuta al

fatto che, in seguito alla sovrapproduzione e tendenziale caduta del saggio di profitto,

una parte del capitale ha cercato remunerazione al di fuori della produzione,

trasformandosi da industriale in finanziario. Si pensi, a questo proposito, che nel 1980,

gli attivi finanziari formati da azioni, obbligazioni, titoli di credito e di debito ed il PIL

del mondo si equivalevano, ammontando entrambi a 27 trilioni di dollari, mentre nel

2008 gli attivi finanziari, avendo superato i 240 trilioni, valevano più di quattro volte

del PIL mondiale che valeva 60 trilioni.

La crisi, quindi, è strutturale e sistemica a causa della contraddizione

fondamentale ed insanabile del modo di produzione capitalistico tra il carattere sociale

della produzione e la appropriazione privata del prodotto.

Infatti l’imperialismo, cioè l’attuale fase di sviluppo del capitalismo, è

caratterizzato dalla concentrazione monopolistica del capitale e della proprietà privata

che provoca il controllo pressoché totale delle risorse mondiali da parte di una

piccolissima parte della popolazione e di un ristrettissimo gruppo di paesi e

l’imposizione del proprio volere alla stragrande maggioranza della popolazione

mondiale; i dati dell’ONU ci dicono infatti che oggi nel mondo 12 milioni di individui

(lo 0,2% della popolazione mondiale) detengono la metà del patrimonio finanziario

dell’umanità, mentre 3 miliardi di persone ne detengono solo il 4,2%. Sempre secondo

l’ONU, oggi, il reddito del mondo supera ormai i 65mila miliardi di dollari e con soli

100 miliardi di dollari si potrebbe sradicare la povertà più estrema e la fame dei 2,6

miliardi di poveri che vivono con 2 dollari al giorno, ma nulla di tutto ciò è avvenuto

negli ultimi anni. Anzi, si è assistito ad una gigantesca redistribuzione del reddito dai

poveri a favore dei ricchi. Nel periodo 1976-2006, in tutti i paesi dell’OCSE,

l’incidenza della quota salari del PIL (comprensivo anche del lavoro autonomo) è

diminuita mediamente di 10 punti percentuali passando dal 68% al 58%. In Italia il

calo è stato di 15 punti a favore delle rendite e dei profitti. Negli USA ed in Italia oggi

un decimo della popolazione percepisce la metà del reddito nazionale.

L’Unione Europea, è lo strumento con il quale il capitalismo monopolistico

europeo persegue i propri interessi. Per reperire le risorse necessarie a contendere agli

USA l’egemonia mondiale ed a competere da una posizione di forza con i BRICS

(Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), l’UE e la BCE impongono ai popoli

d’Europa sacrifici insostenibili ed un vero e proprio massacro sociale ai danni del

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lavoro salariato, di ampi settori di lavoro  autonomo e di piccola borghesia in via di

proletarizzazione, a favore del capitale.

L’adesione al Trattato di Maastricht ed all’Unione Monetaria Europea ha

privato la borghesia italiana dell’arma della svalutazione competitiva, ma le ha fornito

gli strumenti per portare più a fondo l’attacco alle posizioni della classe operaia ed ai

diritti dei lavoratori.

Oggi l’Italia è il Paese d’Europa a maggiore “flessibilità“ del lavoro, dove i

lavoratori hanno meno tutele, dove il salario medio di un operaio metalmeccanico con

32 anni di anzianità può non superare i 1.200 euro al mese (se non c’è cassa-

integrazione), dove un giovane è costretto a lavorare con contratti trimestrali a 400

euro al mese, dove si muore sul lavoro per una paga oraria di 3,90 euro senza

contributi, dove si va a lavorare malati pur di conservare il posto, dove i padroni

possono licenziare liberamente, dove il resoconto degli incidenti sul lavoro è un vero e

proprio bollettino di guerra che registra 4 morti al giorno.

 

Mentre si spremono salari e pensioni, privando del presente e del futuro

giovani e donne, si reperiscono fondi per il sostegno alle banche ed ai monopoli, per le

guerre imperialiste e per mantenere il Vaticano, mentre la sanità e l’assistenza, le

scuole e l’università, la scienza ed il mondo della cultura, l’ambiente ed il territorio

sprofondano nel più rovinoso degrado. È una stridente realtà quella che vede, nel

mondo, la ricchezza accumulata crescere sempre più, assieme alla povertà dei popoli,

perchè concentrata in una elite sempre più ristretta.

Secondo uno studio recente del Politecnico di Zurigo, 147 multinazionali, tutte

strettamente connesse fra di loro, di cui la maggioranza banche, rappresentano la rete

capitalista che domina l’intera economia mondiale.

I loro nomi sono JP Morgan, Mehrril Lynch, Barcloys, Goldman Sachs, Bank

of America, UBS, Deutsche Bank, Credite Suisse, BNPParibas e Unicredit. Esse

fanno capo a 737 maggiori azionisti che, attraverso una rete fittissima di relazioni e

proprietà intrecciate si sostengono a vicenda.

In un recente studio di James Henry, ex capo economista della Mc Kinsey, è

stato calcolato che 21 mila miliardi di dollari di denaro cash depositato dai super

ricchi del mondo in conti correnti ed in strutture finanziarie segrete nascoste nei

paradisi fiscali – che, raggiungono i 32 mila miliardi se si aggiungono beni come

yacht, ville e simili -appartengono a circa 10 milioni di persone, di cui solo 91mila di

esse posseggono la metà di tale cifra. Inoltre, l’ammontare del valore nominale dei

prodotti derivati è attualmente di 600mila miliardi di dollari, sette volte l’intera

ricchezza prodotta a livello globale. Nel corso del 2012 i principali fondi speculativi

hanno spostato, infine, sulla Europa in crisi ben 100 miliardi di dollari destinati ad

acquistare, a prezzi stracciati, banche, imprese e qualsiasi altra cosa che i governi

europei stretti dalla crisi decideranno di mettere in vendita, per far fronte ai debiti.

L’Europa, infatti, che aveva investito inseguendo il modello americano, ne seguì le

67

sorti.

Ma, mentre gli americani nascondevano i loro problemi sotto il tappeto sul

piano internazionale con il dollaro la cui domanda continuava a sostenere i consumi

ed a finanziare il deficit commerciale, e sul piano monetario, con la politica dei bassi

saggi d’interesse che dava l’opportunità di consumare ed investire in case a credito,

stimolando la domanda aggregata e sostenendo la crescita del PIL; in Europa,

nonostante dal 2002 la moneta unica avesse reso il credito più abbondante ed a buon

mercato, i vantaggi commerciali conseguenti non si manifestarono perchè gli scambi

intraeuropei ridussero il loro peso rispetto alla crescita degli scambi extraeuropei,

cosicché, trasferendo in Asia la manifattura dei beni standardizzati di largo consumo,

l’industria europea cominciò ad accumulare, in Europa, capacità produttiva

inutilizzata.

 

La ricchezza privata in Italia, costituita da denaro contante, case, azioni e

titoli, veleggia nel 2012 verso la cifra di 9000 miliardi di euro netti, cioè più di quattro

volte il debito pubblico che ha raggiunto e superato a fine anno i 2000 miliardi di

euro. Ma il debito pubblico è di tutti, mentre la ricchezza è di pochi. Infatti, il debito

pubblico viene spalmato su 60 milioni di cittadini per una quota di circa 32.000 euro

ciascuno, mentre per la ricchezza nazionale, la metà di essa, cioè oltre 4mila miliardi

di euro, appartiene al 10% della popolazione, cioè a 6 milioni di persone che vivono

nell’assoluto benessere, mentre il restante 90% dei cittadini, cioè 54 milioni di

persone, si divide l’altra metà.

 

La ricchezza di tutte le famiglie del mondo ammonta a 150mila miliardi di

dollari, le famiglie italiane ne possiedono il 6%, benchè l’Italia rappresenti solo l’1%

della popolazione del pianeta ed il suo PIL sia il 3,4% di quello mondiale. Perciò, è

giusto dire che l’Italia è un Paese ricco abitato da poveri.

 

Al vertice della ricchezza, nel nostro Paese, secondo i dati dell’indagine

biennale  della Banca d’Italia sui redditi degli italiani (2012), troviamo 240mila

famiglie (circa 600mila persone), che possiedono un patrimonio di circa 5 milioni di

euro a testa. Di essi, i primi dieci sommati valgono 50 miliardi e, da soli, possiedono

quanto 3 milioni di loro concittadini di modesta condizione. Al primo posto c’è la

famiglia Ferrero, con 19 miliardi di dollari di patrimonio personale. Al secondo posto,

Leonardo del Vecchio (Luxottica), con 11 miliardi di dollari. Al terzo posto, Giorgio

Armani, con 7,2 miliardi, al quarto Miuccia Prada con 6,8 miliardi. Al quinto posto, i

fratelli Rocca proprietari del gruppo Techint con 6 miliardi ed al sesto posto, Silvio

Berlusconi, proprietario di Fininvest e Mediaset con 5,9 miliardi. E questi sono solo i

redditi dichiarati.

 

Dopo i super ricchi, troviamo il secondo livello, 2,5 milioni di famiglie

(6.250.000 persone) che hanno ciascuna un patrimonio pari a 1,7 milioni di euro. Sono

imprenditori, professionisti e commercianti di successo.

68

Al terzo livello troviamo 9,6 milioni di famiglie (circa 24 milioni di persone)

con  un patrimonio di poco più di 400mila euro a testa.

Al quarto livello, vi sono i 12 milioni di famiglie più povere, con un

patrimonio medio di 72mila euro ciascuno: sono impiegati, insegnanti, dipendenti

pubblici, precari, depositari del solo stipendio con cui cercano di vivere.

Al quinto livello, troviamo i poverissimi e cioè 3,2 milioni di famiglie (8

milioni di persone) che non posseggono nemmeno la cifra minima ritenuta

indispensabile per la sopravvivenza, cioè 1011 euro al mese.

Infine, troviamo 1,4 milioni di famiglie (3,5 milioni di persone) che non arrivano a

500 euro al mese e vivono la miseria nera. Dal 2007 al 2011, questi sono aumentati

del 14%, al Sud del 74%.

 

Se i 9000 miliardi di ricchezza privata nazionale fossero divisi equamente tra

i 24 milioni di famiglie che compongono il popolo italiano, ciascuno avrebbe un

patrimonio di 360mila euro. Invece, le famiglie superricche, che rappresentano appena

l’1% della popolazione, hanno un patrimonio 65 volte superiore alla media e, da sole,

si spartiscono il 13% del reddito pari a 1120 miliardi di euro.

La ricchezza nazionale, è composta per metà da case in proprietà che

accomuna l’80% della popolazione italiana. Il patrimonio immobiliare complessivo

vale 5mila miliardi ma, il 25% di esso è concentrato nelle mani del 5% dei proprietari.

I restanti 4mila miliardi, sono in parte in denaro depositato sui conti correnti delle

banche od alle poste (1000 miliardi). Altri 1.500 miliardi sono investimenti finanziari:

il 90% degli italiani ha messo i suoi risparmi in azioni, obbligazioni e titoli di Stato.

Lo stipendio medio dei lavoratori italiani è di 1286 euro mensili netti, mentre,

secondo Eurostat, la soglia della povertà relativa per una famiglia composta da due

persone è di 1011 euro mensili.

 

La distanza tra il superstipendio del manager che dirige l’azienda e quello di

un dipendente è, in media,  di 400 volte ma può arrivare, in alcuni casi, a mille volte.

I salari medi italiani sono i più bassi d’Europa: in una classifica di 31 nazioni stilata

dall’OCSE, gli italiani risultano al 23° posto.

Il lavoro dipendente ed i pensionati, circa il 68% dei contribuenti, si

accollano il 93% di tutto il gettito Irpef che entra, ogni anno, nelle casse dello Stato.

Negli ultimi 10 anni, una quota di circa 15 punti percentuali di ricchezza si è spostata

dal lavoro alle rendite ed ai profitti.

Sui quasi 17 milioni di pensionati, la metà prende meno di 1000 euro al mese,

3 milioni meno di 500 euro e 2 milioni più di 2000 euro. Ma quello che è più grave è

che, con le recenti modifiche al sistema pensionistico, in futuro le pensioni medie si

aggireranno attorno ai 600 euro e precari e lavoratori in nero potranno aspirare, al

massimo, alla pensione sociale di 460 euro.

 

In questo contesto, di per sé desolante, l’Italia, obbligata dalla Unione

Europea, ha approvato una norma capestro, il cosiddetto fiscal compact, che obbliga il

69

nostro Paese al pareggio di bilancio ed alla riduzione forzata del debito pubblico. Ciò

significherà tagli per 45 miliardi l’anno per venti anni, a partire dal 2014.

Il carattere strutturale della crisi è dato, quindi, anche nel nostro Paese dal fatto che:

– Il bilancio pubblico deve conseguire un avanzo primario, sottraendo alla

spesa finale almeno 3 punti di PIL all’anno.

– L’economia in fase depressiva ha bisogno del formarsi di un nuovo

risparmio.

– Il calo generalizzato della domanda riduce i fatturati delle imprese.

La gente, lentamente, sta prendendo coscienza dei meccanismi che muovono

l’economia mondiale e che determinano la divisione in ricchi e poveri.

La classe operaia è costretta ad abbandonare qualunque illusione di emancipazione

all’interno di questo sistema. Il ceto medio è arrivato al culmine della sopportazione,

essendo risospinto indietro dai processi di proletarizzazione.

La borghesia si stringe a difesa dei suoi privilegi continuando la sua politica

di rapina del popolo e l’enorme blocco sociale di poveri e disoccupati che sta

crescendo, prima o poi, chiederà il conto. Un recente sondaggio commissionato dalle

Acli (Associazione cattolica lavoratori italiani), ha dato risultati sorprendenti:

– Il 75% del campione ritiene che la crisi la debbono pagare i ricchi.

– Il 37% è convinto che da questa situazione si esca solo attraverso una

rivoluzione.

Nell’analisi delle cause e delle dinamiche della crisi in Italia, si cerca sempre di

nascondere, da parte della cultura dominante, che, ricordiamo, è espressione degli

interessi delle classi dominanti, le principali voci che hanno contribuito a determinare

l’enorme debito pubblico del nostro Paese, attribuendone, in genere la responsabilità

alle varie voci della spesa sociale. Vogliamo smentire tali menzogne con alcuni dati di

cui non si parla mai.

 

Secondo l’analisi della società Ricerche e Studi presentata il 10 ottobre 2000 alla

Commissione Bilancio della Camera dei Deputati, le uscite dello Stato verso IRI,

ENEL, ENI, ed EFIM dalla loro fondazione fino al 2000, ammontavano a 139.700

miliardi di lire, il cui rendimento è valutabile, nello stesso periodo, in 33.900 miliardi

di lire di dividendi incassati, e 70.800 miliardi di lire di introiti netti delle vendite di

titoli. Se si aggiunge a tali cifre il valore delle attività residuali che tuttora possiede lo

Stato, dopo le privatizzazioni degli anni ’90, si calcola in circa 80mila miliardi il saldo

attivo. A tale risultato, concorrono soprattutto ENI ed ENEL, mentre il bilancio finale

dell’IRI manifatturiero presenta un saldo negativo di 47.600 miliardi di lire. A

distruggere ricchezza, inoltre, hanno grandemente contribuito i grandi gruppi

dell’industria privata e cioè la FIAT bruciando 27.457 miliardi di lire, la Olivetti

14mila, Montedison 9mila e Italcementi più di mille.

70

Anche per questo, è particolarmente ingiusto il peso di sofferenze che viene

scaricato dai gruppi dominanti sul popolo con la motivazione del rientro dai livelli del

debito pubblico accumulato.

Dal 2008 ad oggi il PIL italiano è diminuito dell’8% (230 mld secondo la Corte dei

Conti), la produzione industriale è diminuita del 20%, gli investimenti del 17% ed un

deposito clandestino di 150mld di capitali italiani giace nei forzieri delle banche

svizzere, mentre il tasso di disoccupazione in Italia è praticamente raddoppiato. Prima

che il 2013 sia terminato è prevista, da varie fonti, un’ulteriore diminuzione del PIL

dell’1,7% e dei consumi del 2,4%.

Una particolare attenzione, infine, contrariamente a quanto solitamente

accade, merita la composizione sociale del popolo italiano composto, ormai da 60

milioni di persone. Di essi, 8 milioni sono operai, 15 milioni lavoratori dipendenti a

tempo indeterminato, 2,3 milioni lavoratori dipendenti a tempo determinato, 3,2

milioni lavoratori dipendenti del settore pubblico, 5,2 milioni lavoratori autonomi di

cui 3,2 senza dipendenti, 530mila lavoratori cassintegrati, 433mila collaboratori

atipici, 1,8 milioni di studenti universitari, 4 milioni di imprenditori di cui il 97% con

meno di 50 dipendenti e 16,7 milioni di pensionati, 3 milioni di disoccupati ufficiali,

ma in realtà 6 milioni di persone in età da lavoro privi di qualsivoglia attività

lavorativa. (Fonte: ultimo censimento)

È alla luce di questa situazione che bisogna chiedersi quale programma

politico sia necessario per cambiarla a favore dei lavoratori e delle masse popolari.

Noi comunisti indichiamo punti programmatici molto chiari e netti come base di una

vera svolta politica per avviare l’edificazione del nuovo ordinamento sociale.

 

Politica internazionale 

 

Uscita dell’Italia dalla NATO con disimpegno del nostro Paese da tutte le

missioni di guerra all’estero e la conseguente chiusura di tutte le basi militari straniere.

Adozione di una politica estera orientata in senso antimperialista e limitazione delle

spese di bilancio militare alle sole esigenze di difesa del popolo e del territorio

italiano, in ottemperanza all’art. 11 della Costituzione.

Uscita dell’Italia dall’Unione Europea e dalla Unione Monetaria Europea

(sistema dell’euro) e ripristino della sua sovranità politica ed economica al fine di

sviluppare tutte le potenzialità di sviluppo del nostro Paese, per non sprofondare

ulteriormente nell’indebitamento e nella recessione.

Azzeramento unilaterale della parte del debito detenuto da banche ed

istituzioni finanziarie, monopoli e fondi speculativi italiani ed esteri, difendendo i

fondi dei piccoli risparmiatori. Divieto di qualsiasi attività e pubblicità delle agenzie

di rating sul territorio italiano e sottoposizione delle agenzie stesse e dei loro dirigenti

a procedimento penale per associazione a delinquere con finalità eversive, in base alle

leggi italiane.

71

 

Politica del lavoro 

Abrogazione di tutte le leggi che legittimano la precarietà del lavoro e che

discriminano i lavoratori per genere ed età e messa fuori legge e perseguibilità penale

del caporalato sotto qualsiasi forma. Ripristino della piena validità e preminenza del

Contratto Nazionale Collettivo di Lavoro e di chiari e rigidi limiti di legge per il

licenziamento dei lavoratori e la possibilità di riassunzione del lavoratore su

indicazione del giudice. Superamento di tutte le forme di false cooperative. Istituzione

del salario minimo garantito per legge dallo Stato, per un’esistenza dignitosa alle

lavoratrici ed ai lavoratori, di un’indennità di disoccupazione a tempo indeterminato

fino alla proposta di nuova assunzione non inferiore all’90% dell’ultimo salario

percepito, di un’indennità a tempo indeterminato fino alla proposta di assunzione pari

al 60% del salario medio per i giovani in cerca di prima occupazione al termine

dell’istruzione obbligatoria.Riduzione dell’orario lavorativo a parità di salario e

contributi e ripristino dell’indicizzazione dei salari al costo della vita (scala mobile),

accompagnato da una politica di controllo popolare alla fonte dei prezzi dei generi di

prima necessità e di largo consumo con l’abolizione delle imposte indirette (IVA)

sugli stessi. Controllo dei lavoratori sulle condizioni di sicurezza e salute sul lavoro e

politiche di prevenzione degli incidenti e delle malattie professionali con inasprimento

delle pene per chi le disattende. Politiche di sostegno alla ricerca applicata ed

all’innovazione, di prodotto e di processo, per le piccole imprese, favorendone la

concentrazione e l’integrazione in forme associate consortili o cooperative, in modo di

consentire loro di acquisire economie di scala.

 

La questione fiscale 

Oggi, nel nostro Paese, fra le tante e gravi questioni che determinano il

malessere sociale dei lavoratori e del popolo italiano, vi è la questione fiscale. La

pressione fiscale ha raggiunto, ormai, in Italia, il 55% ( rapporto fra entrate fiscali e

Pil ), colpendo sia i lavoratori dipendenti ed i pensionati ( che pagano il 93% dell’Irpef

totale), ma anche i lavoratori autonomi e le piccole imprese. Da dove nasce, negli Stati

ad economia capitalistica, l’esigenza di un prelievo fiscale così intenso? Nel

capitalismo monopolistico, lo Stato è impegnato ad erogare una forte spesa pubblica,

per riprodurre i propri apparati burocratico-militari, per garantire un minimo di servizi

sociali, ma, soprattutto, per sostenere in varie forme ( contributi a fondo perduto,

incentivi ed agevolazioni fiscali ecc. ) la produzione e l’attività finanziaria dei grandi

gruppi industriali e bancari.Tanto più lo Stato, non è proprietario di attività produttive

di beni e servizi e di banche, che garantiscano introiti economici, tanto più il fisco è

l’unica fonte di sostegno alla spesa pubblica.

72

In Italia, lo abbiamo constatato chiaramente: quando il sistema economico era a

carattere misto, con la proprietà privata ma anche pubblica delle attività produttive

fondamentali del Paese, la pressione fiscale era più bassa, dopo le privatizzazioni degli

anni ’90 e successivi, essa è svettata a livelli insopportabili.Qui sta il nodo della

questione fiscale: lo Stato preleva le risorse di cui ha bisogno, principalmente per

sostenere l’attività dei grandi gruppi industriali e finanziari, dal reddito dei lavoratori,

dei pensionati e delle piccole imprese. Non esiste paese ad economia capitalistica che

non sia strutturato in tal modo, pur con qualche differenza fra di loro.

I comunisti propongono come obbiettivo programmatico principale ed

iniziale del loro progetto politico l’esproprio, la nazionalizzazione ed il controllo

operaio e popolare dei principali gruppi produttivi e bancari come base per un livello

inizialmente significativo di socializzazione dell’economia nazionale. Ciò ha come

conseguenza, sul piano fiscale, che lo Stato, nel nuovo ordinamento socialista, è in

grado, in quanto detentore e pianificatore dell’utilizzo della ricchezza prodotta dai

lavoratori nelle imprese socializzate, di allentare, fin da subito, consistentemente la

pressione fiscale, fino alla sua riduzione ai minimi termini e alla sua eliminazione

nelle fasi più avanzate della transizione socialista-comunista, come testimoniato dalla

storia dell’Urss e degli altri Stati socialisti. Per questo, il socialismo, con la

socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio, è il sistema che è in grado di

liberare i lavoratori dal giogo dell’oppressione fiscale lasciando il reddito da essi

guadagnato a loro disposizione.

Questa è la nostra proposta di “ riforma fiscale “, dopo decenni di prelievo statale sui

redditi di lavoratori e pensionati e di menzogne delle forze politiche e sociali

dominanti sulla possibilità di ridurre il carico fiscale in un ordinamento socio-

economico capitalistico.

 

 

Politica di tutela ambientale 

 

Dato lo stato del sistema industriale italiano, è urgente una politica di

riconversione produttiva delle aziende inquinanti, in grado di rilanciare l’occupazione

lavorativa attraverso la riqualificazione ambientale degli impianti stessi, procedendo

in un processo di collettivizzazione delle grandi proprietà. L’applicazione e la

diffusione di tecnologie non inquinanti che consentano il risparmio energetico assieme

all’introduzione di un serio sistema sanzionatorio per le aziende che ancora inquinano

sono i primi fondamentali elementi in grado di imporre una svolta nella direzione

della necessaria modernizzazione e riqualificazione del nostro apparato produttivo per

garantire nello stesso tempo nuova occupazione qualificata e tutela dell’ambiente e

della salute dei lavoratori e dei cittadini.

A questi fini è urgente lo studio e l’applicazione sempre più diffusa delle

tecnologie fondate sull’utilizzo delle fonti rinnovabili ed alternative di energia, in

contrasto con le politiche degli inceneritori, un’educazione di massa ai consumi

fondati sul risparmio energetico e dei materiali e la sottrazione della raccolta,

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smaltimento e riciclo dei rifiuti al business criminale attraverso la completa

nazionalizzazione del ciclo.

 

Politica dei servizi sociali 

 

Il diritto alla salute, alla casa, all’istruzione, alla cultura ed allo sport sono

oggi duramente messi in discussione dalle politiche dei vari governi borghesi.

I comunisti pensano che la salute possa essere difesa e seriamente tutelata solo

rilanciando il carattere universalistico della prestazione sanitaria, abolendo qualsiasi

tipo di ticket sanitari, nella prospettiva di garantire l’assistenza sanitaria gratuita, a

partire dai farmaci salvavita. Per raggiungere tale obbiettivo è necessario il blocco

delle privatizzazioni in corso e dei tagli di bilancio nel sistema della sanità, in

particolare per i servizi di assistenza ai disabili ed agli anziani, garantendone anzi il

loro miglioramento, potenziamento ed espansione. A tali fini è necessario un crescente

intervento statale nel settore farmaceutico e nella sanità, nella prospettiva di una sua

totale pubblicizzazione. Volevano far credere che la salute andava gestita in termini

manageriali: il sistema sarebbe migliorato e si sarebbero annullate le perdite

economiche, abbiamo visto come è andata a finire: i servizi sono notevolmente

peggiorati ed i conti sono sempre più in rosso.  Gli ospedali devono tornare in mano

pubblica, sotto la gestione del popolo e di chi ci lavora. La stessa cosa vale per

l’industria farmaceutica, così come la rete delle farmacie deve diventare al servizio del

cittadino per garantirne la salute.

L’istruzione deve effettivamente essere gratuita ed obbligatoria fino al

compimento dei 18 anni, cessando di finanziare, col denaro pubblico, scuole ed

università private e destinando le ingenti risorse così liberate al potenziamento del

sistema formativo statale a tutti i livelli, allo sviluppo della libera ricerca scientifica ed

alla creazione di condizioni di accesso all’istruzione ed alla cultura per tutti, in tutti i

suoi aspetti, senza barriere di classe, per uno sviluppo armonico della personalità

umana.

L’abitazione è un diritto fondamentale della persona e dovrà essere garantito

a tutti attraverso grandi politiche di riqualificazione dell’edilizia popolare pubblica,

affitti commisurati al salario percepito e la requisizione dei grandi patrimoni

immobiliari sfitti.

 

 

Una profonda riforma istituzionale 

 

Innanzitutto, è necessario applicare un capillare controllo popolare sul

sistema dell’informazione che deve restare preminentemente pubblico, vietando

qualunque ingerenza del capitale in questo campo per impedire la manipolazione

dell’informazione e delle coscienze.

74

Devono ugualmente essere profondamente riformate le istituzioni che

garantiscono la difesa, la sicurezza e la giustizia, ricordando che l’arma della ‘legalità’

viene usata dalla borghesia per combattere la lotta di classe. Polizia, Carabinieri,

Guardia di Finanza, Forze Armate e Magistratura debbono essere riportate sotto il

controllo popolare, integrandone gli organici, a partire dai massimi gradi, con quadri

di provenienza proletaria, eliminando qualunque rischio di casta separata, favorendone

lo stretto rapporto col popolo, estendendo in questi settori le garanzie ed i diritti

sindacali per tutti a partire dalla ricostruzione di un esercito fondato principalmente

sulla leva popolare.

 

Nell’ambito delle istituzioni, transitoriamente all’istituzione del potere

popolare, servono una legge elettorale proporzionale, senza sbarramenti, secondo il

principio “una testa un voto“ ; un Parlamento monocamerale per semplificare e

velocizzare l’iter legislativo e consentire anche un notevole risparmio di spesa, nella

prospettiva di un parlamento dei lavoratori; l’equiparazione delle indennità

parlamentari alla retribuzione media di un lavoratore in trasferta; l’istituzione del

vincolo di mandato, per evitare che il deputato tradisca i propri elettori; la revocabilità

del mandato parlamentare da parte degli elettori.

Infine, deve essere sancita una netta separazione della Chiesa dallo Stato e

l’affermazione della laicità di quest’ultimo, nel rispetto paritario di tutte le confessioni

religiose e dell’ateismo.

 

Le risorse per le riforme 

 

Le risorse per attuare queste riforme devono essere trovate attraverso le

seguenti misure di politica economica:

La nazionalizzazione, senza indennizzo, delle banche, delle società finanziarie, dei

fondi speculativi, delle assicurazioni, delle grandi aziende e dei settori strategici di

rilevanza nazionale, delle aziende che hanno de localizzato produzioni all’estero.

La competenza statale sul commercio estero, al fine di salvaguardare gli interessi

nazionali sulla base di reciproci vantaggi, cooperazione, equità e parità di rapporti nei

confronti dei nostri partner internazionali.

La lotta alla rendita parassitaria, attraverso la tassazione dei grandi patrimoni

e delle transazioni finanziarie.

La lotta all’evasione fiscale, prevedendo il carcere e la confisca dell’intero patrimonio

per i casi più gravi.

La lotta alla corruzione nell’apparato statale e nella pubblica

amministrazione, con la confisca del patrimonio tanto per il corrotto che per il

corruttore, nonché nei casi di concussione.

75

L’abolizione di tutti i privilegi fiscali della Chiesa cattolica e delle altre

confessioni religiose, delle politiche di agevolazione e dei trasferimenti statali in loro

favore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

76

9) Il Fronte unitario dei lavoratori (FUL) per la ricostruzione del sindacalismo di 

classe in Italia 

 

 Il nostro progetto politico

 

La debolezza politica e la frammentazione che oggi affliggono la classe

operaia ed i lavoratori italiani richiedono che il Partito Comunista operi,

immediatamente e con la massima energia, per ricomporre l’unità della classe operaia,

con l’obbiettivo di creare, attorno ad essa, un vasto blocco sociale che raggruppi

lavoratori della città e della campagna, giovani e donne del mondo del precariato,

lavoratori della cultura e della scienza, strati di piccola borghesia, piccoli imprenditori,

piccoli commercianti ed artigiani, auto-impiegati, oppressi dal capitale monopolistico

e proletarizzati dalla crisi.

Il Partito ha individuato nel Fronte Unitario dei Lavoratori l’organizzazione di

massa, in grado di costruire, sulla base dell’egemonia operaia, questo blocco sociale

che dovrà divenire, sotto la guida del Partito Comunista, il pilastro della rivoluzione

proletaria in Italia, con la finalità di strappare il potere politico alla borghesia,

abbattere il capitalismo, instaurare la dittatura proletaria come la più alta ed estesa

forma di democrazia, sulla base della quale avviare la costruzione del socialismo-

comunismo. Il Fronte Unitario dei Lavoratori dovrà essere strutturalmente organizzato

per categoria di lavoratori, che esprimeranno i propri delegati nei Consigli dei diversi

livelli, da quelli di base sul luogo di lavoro, a quelli di categoria, fino a quelli centrali,

che devono costituire il momento supremo di sintesi dell’organizzazione, fornendo

così l’embrione ed il modello del futuro potere statuale.

 

Il Fronte Unitario dei Lavoratori non si deve identificare con il Partito. Il

FUL è un’organizzazione di massa, mentre il Partito è un’organizzazione di quadri e,

quindi,  non deve essere inteso come presenza organizzata dei comunisti sui luoghi di

lavoro. Per questa funzione esistono le sezioni e le cellule del partito, coordinate dalla

Conferenza Nazionale dei Lavoratori Comunisti. I criteri di adesione devono essere

meno rigidi, rispetto a quelli che adottiamo nel Partito: può far parte del FUL

qualsiasi lavoratore, indipendentemente dalla propria appartenenza sindacale o

partitica, dalla propria ideologia o religione, purché ne riconosca la piattaforma

politica e rivendicativa e l’orientamento di classe. Anche il requisito della militanza,

irrinunciabile nel Partito, nel FUL diventa meno vincolante: è sufficiente la

partecipazione agli scioperi e alle mobilitazioni indette dal FUL, non è necessaria la

condivisione di tutto il lavoro di elaborazione e organizzazione che vi sta dietro.

Permane, ovviamente, l’impegno a sostenerne finanziariamente l’attività con un

contributo proporzionale al livello del salario percepito.

Fatte salve queste distinzioni, il legame tra il Partito e il FUL deve essere il

più possibile ombelicale, affinché quest’ultimo diventi davvero la “cinghia di

trasmissione”, grazie alla quale il Partito riceve la sollecitazione proveniente dalla

classe operaia, la astrae dal semplice conflitto tra padroni e operai, generalizzandola

77

nei termini della teoria rivoluzionaria e, quindi, la restituisce alla classe stessa come

indirizzo pratico di lotta.

 

Pur non essendo un sindacato, il FUL non può che partire dallo stesso

terreno, quello delle rivendicazioni immediate, economiche e non, con la differenza

che queste devono essere collegate ad obiettivi generali, dichiaratamente politici, che

abbiano un marcato connotato di classe. Occorrerà, allora, partire dalle lotte per gli

aumenti salariali, per il salario minimo garantito, per la stabilità del posto, per la

sicurezza sul lavoro, per il ripristino delle garanzie contrattuali nazionali collettive,

per i diritti del lavoro e sul lavoro, per la riduzione dei ritmi e dei tempi di lavoro, per

le pensioni e per l’assistenza, per i servizi e il diritto all’abitazione, spiegando ai

lavoratori che tutto ciò crea contraddizioni che un modo di produzione in cui il

profitto è diventato variabile indipendente non può a lungo tollerare. Occorrerà

convincere che la soluzione del problema immediato non può essere slegata

dall’abbattimento di questo sistema, che la classe operaia può e deve essere classe

dirigente e dominante, che questo è l’unico modo rendere definitive le conquiste. La

resistenza sociale non basta, occorre al FUL una piattaforma politica di classe.

 

Per ricostruire l’unità di classe occorre saper convincere che il

corporativismo, il localismo e le altre gravi forme di frammentazione, alimentate da

sindacati concertativi fino al collaborazionismo, sono perdenti nel breve periodo e

esiziali nel lungo. La difesa individualista e corporativa, limitata al “proprio” posto di

lavoro, alla “propria” fabbrica, al “proprio” settore produttivo, è impotente e porta

all’isolamento e alla sconfitta. Questa tendenza è il riflesso nella coscienza dei

lavoratori della pratica, imposta dai padroni e accettata dai sindacati, di neutralizzare

la contrattazione di primo livello a favore di quella di secondo livello, dove i

lavoratori sono più frammentati, isolati e ricattabili.  Il FUL si batterà per ripristinare

la sostanza collettiva delle lotte, della contrattazione, dei diritti come elemento

fondante dell’unità di classe. Questo dovrà diventare il senso della parola d’ordine

“uniti si vince”. Non l’unità delle sigle sindacali, ma l’unità della classe operaia!

Al collettivismo della sostanza deve corrispondere il collettivismo delle forme di lotta,

ripristinando i legami di solidarietà tra categorie e settori diversi, ridando efficacia alle

agitazioni e agli scioperi.  Il FUL dovrà fare ricorso a tutta la fantasia e creatività della

classe operaia per inventare forme di lotta in grado di ottenere il  massimo risultato col

minimo costo per i lavoratori.

 

A questo scopo, il FUL dovrà coordinarsi strettamente con analoghe

organizzazioni già esistenti in altri paesi, come il PAME in Grecia e i CUO (Comitati

di Unità Operaia) in Spagna, anche per pervenire a forme di agitazione comuni e

congiunte.

 

Estremamente importante è il lavoro che il FUL dovrà svolgere nei confronti

delle categorie di lavoratori non operaie e non proletarie. Il FUL e i Comunisti al suo

78

interno dovranno essere in grado di convincere questi strati popolari sostanzialmente

piccolo-borghesi, diffidenti nei confronti dei Comunisti e degli operai, che oggi i loro

interessi e la loro stessa sopravvivenza possono essere garantiti solo da un’alleanza di

blocco con la classe operaia. In alternativa, ciò che li aspetta non è la cooptazione

nella classe dominante, ma un tragico immiserimento.

 

A proposito di quanto qui detto, compiti immediati del Partito, subito dopo il

Congresso, dovranno essere, in successione:

– convocazione di una Conferenza Nazionale dei Lavoratori Comunisti, che

censisca la presenza e la collocazione dei membri del Partito per luogo di

lavoro e mansione; la Conferenza dovrà anche stabilire tempi e modalità per

la costituzione giuridica del FUL, elaborarne una bozza di statuto e di

piattaforma, da approvarsi in sede di  Direzione Centrale e Comitato

Centrale;

– organizzazione, in tutti i luoghi di lavoro dove i Comunisti sono presenti, di

assemblee di presentazione del FUL e della sua piattaforma, in cui si

stabiliscano tempi e modalità di elezione dei Consigli di luogo di lavoro,

come istanza primaria e di base.

 

Siamo, ovviamente, all’inizio di un duro lavoro che richiede da parte di tutti noi

un grande impegno, individuale e collettivo, ma che ci consentirà di sviluppare la

militanza e la lotta nei luoghi di lavoro, un terreno fondamentale per verificare

l’efficacia della nostra azione politica. Non basta essere l’avanguardia della classe

operaia per vocazione, ma occorre che essa ci riconosca come tale, in base

all’esempio, all’impegno, alla preparazione e alla coerenza che sapremo dimostrare. Il

lavoro  così  prefigurato  non  potrà  quindi  essere  realizzato  a  tavolino,   ma

neppure  dovrà  essere  immerso  in  quei  gorghi  di  ingraiana  memoria,  che  ne

farebbe  perdere  senso  ed  orientamento;  lavorare  quindi  senza  alzare

continuamente  bandierine,  ma  pure  evitando  processi  e  rapporti  indeterminati.

 

Indicazioni operative di lavoro 

 

Dobbiamo avere attenzione nel corso della mobilitazione, ma anche

semplicemente nei rapporti quotidiani con i lavoratori, colleghi di lavoro, ad esporre

con chiarezza e semplicità le cause e le responsabilità della sofferenza che i lavoratori

provano sulla loro pelle, svelando i nessi di causa-effetto che legano le politiche

dell’Unione Europea e dei governi del nostro Paese agli interessi della classe

padronale nel fare pagare ai lavoratori stessi il costo della crisi.

Una particolare attenzione andrà posta, inoltre, al fatto che ogni mobilitazione, ogni

sciopero, che Lenin  definiva – la scuola di guerra degli operai contro i padroni – lasci

un patrimonio di esperienza e di organizzazione consolidato fra i protagonisti della

lotta, tale da poter ripartire, per iniziative successive con un più consolidato

patrimonio di consapevolezza, di coscienza politica e capacità organizzativa.

79

Se tutto ciò riusciremo a fare, allora, avremo gli elementi per creare più

stabili rapporti fra diversi settori dei lavoratori con stabili strutture organizzative per

dare  ad un movimento di lotta sempre più ampie dimensioni di alleanze sociali,

ponendo così le condizioni per eleggere forme di rappresentanza e di direzione

politica quali Consigli di luogo di lavoro in grado di guidare la lotta aziendale,

settoriale verso sbocchi positivi, che consolidino e moltiplichino il livello di coscienza

popolare.

 

Naturalmente, queste, sono solo alcune indicazioni molto generali, che

ciascuno di noi potrà applicare con creatività e duttilità nelle varie situazioni in cui si

trova ad operare, occupandosi anche del le  realtà  di  lavoro  per  loro  natura

“disgregate”,  quali  quelle  dei  giovani  impegnati  nei  call-center  e  nelle

telecomunicazioni,  per  le  quali  occorrerà  pure,  da   subito,   realizzare

un’inchiesta  significativa  e  su  larga  scala.

Andranno  anche  affrontate  vicende  del  precariato  diffuso, quello

tradizionale  e  quello  recente,  sviluppatosi  soprattutto  a  latere  del  Pubblico

Impiego  ( grazie  alle  invenzioni  lsu, lpu, ecc.  di  bertinottiana  memoria ).

Un  rilievo  specifico, ma  non  meno  impegnativo,  va  pure  dato  alla  condizione

dei  lavoratori  delle  cooperative,  forse  oggi  i  più  sfruttati  in  termini  economici

ed  i  meno  tutelati  in  termini  normativi.  Quello  che di  positivo ha  rappresentato

storicamente  il  movimento  cooperativo , come  figlio  delle  esperienze

mutualistiche  e  solidaristiche,  cresciuto  a  fianco  del  movimento  sindacale

operaio,  si  è  trasformato  brutalmente,  negli  ultimi  40  anni,  in  un  vero  cavallo

di  troia,  dentro  cui  si  sono  sperimentate  inedite  forme  di  asservimento  e

disinvolte  operazioni  di  riconversione  finanziaria.. Da tutto ciò ne deriva, dunque,

per il Partito, il compito di saper dare ad ogni militante nel mondo del lavoro il

necessario supporto con materiale specifico di propaganda ed agitazione volto a

divulgare fra i lavoratori i contenuti delle nostre proposte di lotta e le forme di lotta

con cui sostenere le stesse, al fine di permettere ai nostri militanti di esserne

protagonisti, divenendo così, agli occhi dei propri compagni di lavoro, avanguardie

reali.

 

Accanto  e  parallelamente  a  tale  lavoro  potranno  essere  impostati  due

interventi, tendenzialmente  di  massa  ed  a  carattere  generale:

 

– la costruzione su  base  nazionale  di  un  coordinamento  di  legali  e  di

giuristi  comunisti  che,  richiamando  ma  non  ricalcando  pedissequamente

le  esperienze  storiche  del “soccorso rosso”, utilizzi  a  pieno  gli  spazi

aperti  dall’ abrogazione  dell’art. 19  dello  Statuto  dei  Lavoratori  da  parte

della  Corte  Costituzionale,  e  la  prevedibile  non  legiferazione  in  tempi

brevi  intorno  alla  rappresentanza  sul  lavoro,  ciò  in  esatta

contrapposizione  con  quanto  ha  rappresentato  e  realizzato  il  cosiddetto

80

Forum  diritti-lavoro ( la nefanda soglia  del  5%  sulla  rappresentanza  sui

luoghi  di  lavoro  è  una  loro  brillante  invenzione  legislativa );

– l’apertura  di  uno  spazio  largo,  ma  specifico,  dentro  cui  si  possano

centralizzare  e generalizzare  le  esperienze  di  lotta  per  la  sicurezza  e

contro  le  nocività  sui  luoghi  di  lavoro,  seguendo  la  migliore  tradizione

del  69’  operaio  e  correggendo  l’impostazione  che  è  andata  assumendo

Medicina  democratica,  spesso  ostaggio  delle  stucchevoli  passerelle  para-

istituzionali,  a  partire  da  quelle  aperte  dal  Quirinale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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10) Gioventù comunista 

 

Come la questione del lavoro, anche la condizione e l’organizzazione della

gioventù rivestono una forte importanza. La disoccupazione giovanile, secondo le

previsioni, sfonderà a breve la  quota del 50%, la stragrande maggioranza dei giovani

lavoratori è assunta a tempo determinato, con forme di contratto precarie, con salari

sempre più bassi e tutele inesistenti. I vincoli europei del patto di stabilità con il

blocco delle assunzioni nel settore pubblico e l’aumento dell’età pensionabile,  che ha

rallentato il ricambio generazionale hanno contribuito ulteriormente alla diminuzione

di posti di lavoro. Ogni misura governativa o legislativa degli ultimi due decenni si è

risolta in un peggioramento ulteriore delle condizioni dei lavoratori in generale, delle

nuove generazioni di lavoratori in particolare. Basti pensare ai danni prodotti dalla

recente legge Fornero.

 

Masse sempre maggiori di giovani di estrazione popolare sono espulse dal

sistema dell’istruzione. È il caso della diminuzione secca di 50.000 universitari tra il

2012 ed il 2013, ma anche nella scuola superiore si inizia a vedere un riemergere

dell’abbandono scolastico. La causa sono i drastici tagli ai finanziamenti, la sempre

maggiore richiesta di tasse e contributi diretti ed indiretti, che insieme al costo dei libri

di testo, degli alloggi nel caso dei fuori-sede universitari, spingono a ridurre

complessivamente il numero degli studenti e, nel caso delle scuole superiori, ad

operare scelte di indirizzo sulla base delle possibilità economiche e non partendo dalle

aspirazioni individuali del singolo studente.

 

Questo contesto risulta ulteriormente aggravato nelle regioni del

mezzogiorno d’Italia, dove la cronica mancanza di lavoro si somma con gli effetti

della crisi economica, con un aumento del lavoro nero e forme di nuovo caporalato,

spingendo ad una nuova ondata migratoria di giovani dal sud Italia alle regioni del

centro nord ed in generale dall’Italia all’estero. Questo flusso interessa oggi anche

giovani laureati, privi di reali sbocchi lavorativi nel nostro paese.

Le nuove generazioni subiscono tutti i limiti del sistema capitalistico e vedono ad uno

ad uno cadere i miti di sviluppo universale e di prosperità, che dal crollo dell’Unione

Sovietica sono stati propagandati a “reti unificate”.

 

Tuttavia questi venti anni di propaganda ideologica non sono passati in un

giorno. La propaganda anticomunista, l’idea che non esistano alternative reali a questo

sistema, insieme con il tradimento operato dai partiti opportunisti e dai sindacati

concertativi, hanno creato un mix di elementi che potranno essere superati nel tempo

solo attraverso un lavoro militante che faccia emergere concretamente la diversità

comunista rispetto ai partiti borghesi, che rinsaldi i legami di classe combattendo

l’individualismo esasperato, il prodotto peggiore della propaganda ideologica di questi

anni, che trasmetta un’idea del socialismo, come necessità e unico futuro dell’umanità,

non come esperimento sconfitto e di conseguenza non ripetibile.

82

 

Nella nostra analisi è d’obbligo ricordare che sebbene spesso si parli in modo

generico di “giovani”, la nostra attività deve essere rivolta ad intercettare ed

organizzare i giovani di estrazione proletaria e popolare, che provengono da famiglie

di lavoratori e disoccupati, che più drammaticamente vivono sulla propria pelle le

contraddizioni di questo sistema. I giovani non sono infatti una classe sociale. Un

conto è esser il figlio di Agnelli, un conto è esser figlio dell’operaio Pautasso. In ciò

dobbiamo sempre evitare di prestare il fianco all’idea di uno scontro generazionale,

che di volta in volta contrappone i giovani precari ai “vecchi garantiti”, i pensionati ai

giovani che non avranno una pensione, o scadere nel “giovanilismo” come visione

positiva di tutto ciò che è giovane. L’enorme capacità di questo sistema di dissimulare

le sue colpe, facendo cadere lo scontro di classe nel vortice dello scontro all’interno

della classe, è una delle caratteristiche del capitalismo, che dobbiamo combattere con

maggior forza, rinsaldando l’idea dell’unità di classe, presupposto fondamentale per

ogni avanzamento collettivo.

 

Per far questo è necessario un lavoro profondo che deve combinare una

puntuale analisi politica e un’appassionata campagna ideologica con la capacità di

trasmettere quest’analisi alle nuove generazioni ed al contempo lavorare per

organizzare i giovani, come leve fondamentali nella lotta contro il capitalismo, per

avvicinarli all’idea del partito, inteso nella sua forma leninista, mettendo in luce le

profonde differenze con il sistema politico borghese.

 

Per questo il nostro partito sostiene la costruzione del Fronte della Gioventù

Comunista, progetto al quale danno forza quotidianamente nostri militanti, quadri e

giovani dirigenti. Molti dei giovani che aderiscono oggi al Fronte della Gioventù

provengono dalle deludenti esperienze della diaspora comunista dell’ultimo ventennio,

oppure sono alla loro prima esperienza di militanza comunista. Non è possibile, in

questa fase e nelle condizioni date, costruire un’organizzazione che riesca ad

amalgamare e tenere insieme queste diverse provenienze, sulla base di una chiara

teoria e prassi marxista-leninista e del rigetto di qualsiasi forma di opportunismo,

revisionismo e riformismo, senza un’autonomia organizzativa del Fronte della

Gioventù Comunista, che faccia emergere tutto il potenziale rivoluzionario che i

giovani possono e devono esprimere. Un progetto da sostenere perché, tra l’altro,

concilia l’organizzazione della lotta dei giovani contro il capitalismo con la

ricomposizione, su una piattaforma realmente rivoluzionaria, delle divisioni che hanno

afflitto il movimento comunista in Italia in tutti questi anni, nella convinzione che le

nuove generazioni debbano tornare a dare un contributo fondamentale alla crescita del

Partito Comunista in Italia e un impulso decisivo alla rivoluzione socialista.

 

 

 

83

11) Differenza di genere, differenza di classe.  

 

Nell’era della lotta mediatica non dimentichiamo quanto è stata

indispensabile, fondamentale all’emancipazione di un’intera classe, la lotta delle

donne per la conquista dei diritti sociali prima e civili poi e per l’affermazione dei

principi di autodeterminazione e parità ma ricordiamo come questa lotta sia stata vera,

autentica, densa di contributi ideali e di apporti concreti, a partire dalle fila della

Resistenza e quindi nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro.

Oggi la condizione delle donne, in tutto il mondo, arretra a vista d’occhio,

perchè la complessiva condizione della classe operaia, dei lavoratori, dei vasti ceti in

via di veloce proletarizzazione e delle grandi masse emarginate ed escluse dello

sviluppo della società capitalista, sono in difesa, aggredite dalla forza incontrollata del

capitale globalizzato, capaci, per ora, solo di una lotta di retroguardia, a difesa,

appunto, di una condizione che ormai è stata erosa ed esposta ad ogni aggressione,

non esistendo un soggetto politico (ma nemmeno sindacale) capace di rendere

protagoniste autorevolmente e senza ipocrisie, interessi, condizione, aspirazioni, ideali

della classe operaia e dei lavoratori.

 

La condizione della donna, migliorata, avanzata, divenuta spesso traino di

nuove conquiste e nuove dinamiche ideali e pratiche, quando la lotta popolare era

forte e rappresentata da un’entità ancora salda e comunque ancorata a principi non

compromessi, era altrettanto forte e le conquiste ottenute sono state immense.

Le otto ore, la parità di condizione dell’accesso al lavoro, lo statuto dei lavoratori, le

previdenze sociali, il nuovo diritto di famiglia, divorzio, aborto, servizi sociali

pubblici, tutto oggi che ciò è conservatore, antiriformista, ci ripetono alla nausea i

governanti di destra e della finta sinistra, che coi loro governi, in questi due decenni,

alternativamente, ne hanno fatto scempio.

 

Oggi quella condizione soffre maggiormente la sconfitta e paga il prezzo più

alto dell’arretratezza economica e culturale che, sia pure con facce e forme diverse, si

manifesta in modo devastante, in tutto il pianeta.

Se il lavoro manca, se grandi masse di ex lavoratori vengono espulse dalla produzione

e dal complessivo mondo del lavoro, le prime a farne le spese sono le donne: è facile

rispolverare la sottocultura (in realtà mai sopita) della donna che torna fra le mura

domestiche, dopo aver fatto l’operaia, la commessa, l’impiegata o l’assistente nei

servizi di cura per decenni. Saranno loro anche a tappare il buco della sanità pubblica

che non c’è più, ad agire in via “sussidiaria”, come piace tanto alla destra (ma pure al

PD che ha copiato il modello lombardo, esportandolo nelle Regioni che monopolizza

da anni ed affidando alla rete delle sue cooperative – ex rosse – i servizi sanitari e

sociali che sono stati pubblici: un affare dopo l’altro, terminato quello andato male

delle cooperative edili …) in quelli sociali, di cura, rivolti alla persona, che torneranno

ad essere appannaggio del lavoro (gratuito) delle donne.

 

84

Per questo ricordiamo come solo con un movimento operaio e popolare forte

si possano far avanzare in modo altrettanto forte e duraturo le conquiste delle donne. E

per mantenerle, tali conquiste che sono di un’intera società e ne sottolineano la cifra

complessiva della civiltà, occorre che il movimento, nella sua espressione pratica e

contemporaneamente ideale ed ideologica, resti sempre forte.

Così non è avvenuto e così le conquiste ottenute, i diritti, il progresso sociale e civile

strappato con una dura lotta che molti tendono a dimenticare, sono state “riportate a

casa” dall’avversario di classe, il capitalismo, nella versione più atroce del liberismo

globalizzato.

 

Se nell’ex avanzato occidente la condizione della donna peggiora, a partire

dal lavoro; se la violenza maschilista si abbatte come un macigno incontrollato e dagli

aspetti umani biechi; se la sottocultura sessista, il fondamentalismo e il bigottismo

religioso imperano e si riprendono, senza che molti e molte se ne accorgano, una

egemonia culturale che la “finta sinistra” europea e italiana, in particolare, crede sia

saldamente nella testa e nel cuore della maggioranza della popolazione, nel resto del

mondo, per la donna la condizione di arretratezza significa schiavitù, violenza,

abbrutimento, ignoranza, analfabetismo, malattia.

E globalizzazione significa che simili sacche di miseria e violenza di genere

vengano esportate anche nelle (ex) civilissima Europa dove l’unico parametro di

riferimento è il denaro e il potere che esso genera.

Questa parte del mondo così brutta non lo è diventata per caso,

l’avanzamento sociale, il miglioramento della qualità della vita grazie alle lotte ed alle

aspirazioni di tante generazioni, non sono sfumate nel nulla, dalla sera alla mattina.

Il nemico di classe ci ha lavorato sodo e ce l’ha fatta, ma di fronte ha trovato un

avversario di classe sempre più arrendevole, tanto da diventare corrotto e proprio a

partire dalle politiche sul lavoro, sui diritti sociali e sulla qualità della vita: svenduti e

traditi con l’aggravante dell’uso di un’ipocrisia che si è fatta luogo comune.

 

La lotta delle donne, la lotta per le conquiste di un genere che oggi soffre

immensamente e più dell’altro, torneranno con la ripresa della lotta operaia, della lotta

della classe che ha come obiettivo quello di rovesciare gli attuali rapporti di forza, per

imporre la propria visione del mondo che schiaccia sfruttamento e prevaricazione.

 

 

 

 

 

 

85

12) Per la ricostruzione di un vero Partito Comunista.  

La traduzione della teoria rivoluzionaria in prassi finalizzata al rovesciamento

del capitalismo richiede l’esistenza di un Partito Comunista di tipo leninista in grado

di porsi efficacemente alla guida della classe operaia e del popolo e di collegare, nel

corso delle lotte quotidiane, la difesa degli interessi immediati all’obiettivo del

rovesciamento radicale dello stato di cose presente, cioè alla rivoluzione proletaria. Il

Partito Comunista è, in altre parole, la sintesi collettiva e organizzata di teoria e prassi,

la quale sola può produrre ed esportare nella classe operaia la coscienza del proprio

essere e del destino storico che le compete in forza della propria collocazione nei

rapporti di produzione. In ogni trasformazione del modo di produzione storicamente

determinatasi, una nuova classe sostituisce quella vecchia, imponendo i nuovi rapporti

di produzione di cui è portatrice come rapporti economici dominanti.  In questo tipo di

cambiamenti rivoluzionari, le classi che si sono succedute l’una all’altra come classi

dominanti erano comunque proprietarie dei mezzi di produzione. Lo sfruttamento

dell’uomo sull’uomo, connesso alla proprietà privata, continuava a permanere in forme

diverse e più raffinate.

Il proletariato, in questo senso, è la classe “finale”, in quanto è l’unica classe

che non detiene la proprietà privata dei mezzi di produzione e, pertanto, è l’unica

classe che, con la rivoluzione socialista, può porre fine a millenni di sfruttamento e

costruire una società realmente libera: il Socialismo-Comunismo. Il Partito Comunista

deve appunto fornire alla classe operaia la coscienza di questo suo ruolo storico. E’ un

compito arduo, in quanto il capitalismo è in grado oggi di condizionare la stessa classe

operaia, veicolando al suo interno ideologie, modelli comportamentali e valori etici

tipicamente borghesi.

La scuola, l’impresa, i media e le chiese scatenano la loro quotidiana

battaglia delle idee con l’obiettivo della riproduzione e conservazione dei rapporti di

produzione esistenti. Per questo il Partito deve attrezzarsi per contrastare

quotidianamente, capillarmente e radicalmente la borghesia e il capitalismo sul piano

della lotta delle idee, per scalzare la falsa universalità e svelare il carattere classista dei

principi che legittimano la società borghese (libertà, democrazia, uguaglianza, ecc.),

per fare emergere nella coscienza delle masse proletarie la necessità della società

socialista-comunista.

 

Il capitalismo – ci ricorda Lenin e con lui Gramsci – non può crollare da solo

a causa della sua crisi. L’attesa messianica dell’inevitabilità del crollo del capitalismo

porta solo a un attendismo sterile e alla paralisi dell’azione rivoluzionaria. Lo vediamo

tutti i giorni: l’aggravamento delle condizioni di vita delle classi subalterne, lo

scempio ambientale, i gravissimi pericoli di guerra si vanno acutizzando. Il baratro

verso cui il sistema capitalista-imperialista sta portando il pianeta intero si potrà

evitare solo se il popolo, con alla testa il proletariato guidato dal Partito Comunista,

prenderà effettivamente il potere.

 

86

I comunisti dirigono la lotta della classe operaia non soltanto per ottenere

condizioni migliori di vendita della forza-lavoro, ma anche per abbattere quel modo di

produzione che costringe i proletari a vendere la propria forza-lavoro ai capitalisti.

Perciò, i comunisti non devono limitarsi alla lotta economica, ma devono occuparsi

attivamente dell’educazione politica della classe operaia e dello sviluppo della sua

coscienza di classe svolgendo opera di agitazione e propaganda contro ogni

manifestazione concreta della oppressione politica e sociale, considerando la lotta per

i miglioramenti economici solo come il punto di partenza della sollevazione della

masse ad una più ampia lotta per la libertà ed il socialismo.

Questo deve tornare ad essere per noi il compito principale nello sviluppo del

nostro lavoro quotidiano. Il dilagare della crisi economica, con i suoi connotati di

aumento della povertà, della disoccupazione, della precarizzazione del lavoro e

dell’ingiustizia sociale, crea una situazione drammatica e preoccupante che, però, apre

nuovi spazi di iniziativa e di lotta per un Partito Comunista che sappia collegare i più

autentici bisogni e aspirazioni delle masse popolari alla lotta per l’abbattimento del

sistema capitalistico e per il socialismo.

 

Partendo dall’unità della classe operaia, i comunisti devono costruirne

l’alleanza sociale col ceto medio produttivo, proletarizzato dalla crisi. Questi compiti

richiedono che il Partito sia in grado di formare militanti con una solida preparazione

culturale, ideologica e politica, i quali, anche utilizzando tutti i moderni strumenti di

comunicazione di massa, siano capaci di condurre, con disciplina e passione, la

necessaria e capillare azione di propaganda e agitazione tra le masse e ne diventino

effettivamente dirigenti politici.

 

Pertanto, oltre a un significativo incremento quantitativo, soprattutto di

quadri di provenienza operaia, il Partito deve puntare decisamente sulla loro crescita

qualitativa. Ogni militante comunista deve essere un dirigente del proletariato, deve

sapere in ogni momento quale linea portare nel conflitto di classe dove si trova a

operare, deve essere in grado di far capire con la sua opera di propaganda i

collegamenti esistenti tra le lotte quotidiane, la politica nazionale e internazionale,

sapendo riferirsi e ispirarsi all’esperienza del movimento operaio e comunista

internazionale. Per troppo tempo la formazione dei quadri comunisti è stata prima

sottovalutata e poi completamente smantellata dagli “eredi” del PCI, forse perché un

quadro ben attrezzato ideologicamente non è una semplice macchinetta per fare

tessere, né digerisce facilmente stravolgimenti opportunistici della linea del Partito,

finalizzati solo a creare le fortune elettorali dei “dirigenti”, cosa a cui siamo stati

abituati dal ventennale tentativo della “rifondazione”.

 

I presupposti di una teoria del partito si trovano già nelle opere di Marx e

Engels, quando affermano che il proletariato acquista coscienza di sé solo

organizzandosi in un partito “indipendente”. Nel “Manifesto del Partito Comunista” si

sottolinea già la diversità dei comunisti rispetto agli altri partiti proletari. I comunisti

87

sono “la parte che spinge sempre più avanti” (concetto dell’avanguardia proletaria) la

quale, lottando per gli interessi degli operai “nel moto presente rappresenta in pari 

tempo l’avvenire del movimento” (concetto del partito portatore di un progetto

strategico complessivo) per il fatto che collocano le lotte operaie in ogni nazione nel

quadro degli interessi internazionalistici del proletariato e, nella lotta tra borghesia e

proletariato, “rappresentano sempre l’interesse del movimento complessivo” (concetto

di partito internazionalista). Engels affermava che la classe operaia può combattere in

modo “indipendente … se il partito operaio conserverà e svilupperà le proprie 

organizzazioni di fronte alle organizzazioni di partito della borghesia e tratterà con 

quest’ultima come una potenza con altre potenze” (concetti di autonomia del partito e

di organizzazione come forza del partito).

Da questi concetti, maturati dall’esperienza della I Internazionale nasceranno

i partiti della II Internazionale ma, soprattutto, nascerà il partito politico moderno, con

i tratti comuni che conosciamo: programma politico omogeneo, organizzazione

diffusa e stabile, funzionamento continuativo, assunti come istituzionali dai partiti

socialisti della II Internazionale. Questo tipo di partito determinerà l’entrata di grandi

masse di lavoratori sulla scena politica e metterà definitivamente in crisi il tipo di

partito borghese tradizionale, che generalmente si riduceva ad un comitato elettorale

raggruppato intorno a questo o quel personaggio politico.

Tuttavia, la costituzione del partito politico operaio durante la II

Internazionale non si collega all’elaborazione di una teoria del partito rivoluzionario:

mancano la capacità e la volontà di affrontare il problema della conquista del potere

politico.

 

Sarà Lenin a porlo seriamente come questione centrale e a sviluppare,

conseguentemente, la teoria del partito rivoluzionario. Nel “Che Fare?”, Lenin

affronta il problema del rapporto tra spontaneità e coscienza politica, in drastica e

inappellabile polemica con il revisionismo di E. Bernstein, da questi teorizzato ne “Le

premesse del socialismo“ (1899) e l’economismo, che ne costituisce la versione russa.

Costoro sostenevano che il compito politico di abbattere l’autocrazia più feroce

dell’Europa e dell’Asia dovesse essere lasciato alla borghesia, mentre il partito della

classe operaia avrebbe dovuto occuparsi dell’organizzazione della lotta economica

contro padroni e governo, per ottenere un miglioramento delle condizioni e della

legislazione di lavoro. In una visione meccanicista, ritenevano che la coscienza di

classe sarebbe dovuta scaturire automaticamente dallo sviluppo naturale della lotta

economica.

Basandosi sull’analisi degli scioperi successivi al 1890, Lenin rileva come la

lotta della classe operaia non abbia saputo superare una dimensione tradunionista e

corporativa, con un forte risveglio dell’antagonismo tra operai e padroni, che, però,

restava ancora subalterno alla borghesia, in quanto mancava negli operai “la coscienza 

dell’irriducibile antagonismo tra i loro interessi e tutto l’ordinamento politico e 

sociale contemporaneo”.

Lenin dimostra come gli operai non possano giungere spontaneamente a

88

questa comprensione e superare la fase corporativa della lotta di classe senza una

visione critica complessiva della società, che può essere data solo dalla teoria

rivoluzionaria, intesa come scienza che assume, sviluppa, critica e supera i punti più

alti del pensiero e della cultura borghesi. Questa dunque non può che nascere

dall’esterno della classe operaia, come opera di quegli intellettuali che “sono giunti 

alla comprensione teorica del movimento storico nel suo insieme” (K. Marx, “Il

Manifesto del Partito Comunista”). Ancora Lenin scrive: “la coscienza politica di 

classe può essere portata all’operaio solo dall’esterno, cioè dall’esterno della lotta 

economica, dall’esterno della sfera dei rapporti tra operai e padroni. Il solo campo 

dal quale è possibile attingere questa coscienza è il campo dei rapporti di tutte le 

classi e di tutti gli strati della popolazione con lo Stato e il governo, il campo dei 

rapporti reciproci di tutte le classi” (V.I. Lenin, “Che Fare?”).

 

Il Partito è lo strumento che congiunge la teoria rivoluzionaria al movimento

operaio, permettendo a quest’ultimo di acquistare coscienza politica e superare la fase

economico-corporativa, la sintesi tra teoria e prassi rivoluzionaria. Con esso, la lotta di

classe investe direttamente il piano delle ideologie e, da lotta economica, si eleva a

lotta politica. Il ruolo dell’ideologia e della teoria è, per Lenin, fondamentale: “Non vi 

è azione rivoluzionaria senza teoria rivoluzionaria”. Ogni cedimento sul piano

teorico, ogni scivolamento verso lo spontaneismo si traduce in perdita di autonomia

dell’azione politica e in sottomissione alla borghesia e alle forme ideologiche del suo

dominio.

 

Con Lenin, il problema dello Stato, della conquista e dell’organizzazione del

potere diventa la questione decisiva della rivoluzione socialista, stroncando le teorie

bernsteiniane, assai diffuse nella II Internazionale, che riducevano la lotta di classe ad

un gretto rivendicazionismo economico ed alla richiesta di riforme graduali e

concepivano la stessa rivoluzione come una conseguenza oggettiva delle leggi dello

sviluppo storico. In questa prospettiva, il Partito è lo strumento fondamentale per la

conquista del potere e l’organizzazione del nuovo Stato socialista.

 

Dalla concezione del Partito come organizzatore della coscienza di classe e

guida dell’azione rivoluzionaria deriva la configurazione che esso deve assumere.

Innanzitutto, per Lenin, il partito non è una setta, ma un’organizzazione

politica, capace di porsi alla testa della classe operaia, di costruire attorno ad essa un

sistema di alleanze sociali, collegando le rivendicazioni immediate con gli obiettivi

strategici. “Noi dobbiamo assumerci il compito di organizzare una lotta politica 

multiforme, diretta dal nostro partito, affinché tutti gli strati dell’opposizione possano 

dare e diano, a tale lotta e in pari tempo al nostro partito, tutto l’aiuto che possono. 

Noi dobbiamo trasformare i militanti … in capi politici che sappiano dirigere tutte le 

manifestazioni di questa lotta multiforme, che al momento necessario sappiano dare 

un programma di azione positivo agli studenti in fermento, ai rappresentanti degli 

zemstvo insoddisfatti, ai membri delle sette religiose indignati, agli insegnanti colpiti 

89

nei loro interessi, ecc., ecc.” (V.I. Lenin, “Che Fare?”).

Da una concezione del partito di questo tipo non può che discendere un

criterio di ammissione nel Partito basato sulla accettazione del suo programma

politico come condizione necessaria, ma non sufficiente. Il programma è determinato

dalla concezione e dal metodo d’indagine marxista, ma la condivisione della visione

del mondo materialistico-dialettica non può essere la discriminante a priori per

l’adesione al Partito, ma deve essere l’obiettivo dell’azione costante dei gruppi

dirigenti, all’interno del Partito, per formare quadri e militanti.

Tuttavia, come dicevamo, Lenin non ritiene sufficiente la condivisione del

programma. Al II Congresso del Partito Operaio Socialdemocratico Russo del 1903,

in netta polemica con Martov e i menscevichi, che sostenevano che chiunque

appoggiasse il programma del partito potesse farne parte, Lenin affermava che

soltanto chi milita effettivamente in un’organizzazione di partito può esserne

considerato membro. Questo concetto verrà portato avanti da Lenin nell’opera “Un

Passo Avanti, Due Passi Indietro” (1904), dove viene approfondita la teoria del partito

e vengono confutate le accuse di “formalismo” e “autoritarismo”. Non di questo,

infatti, si tratta, ma di ferrea coerenza logica. Se il Partito è lo strumento della

coscienza critica, che eleva alla consapevolezza teorica e all’iniziativa pratica

rivoluzionaria la spontaneità del movimento, allora la sua costruzione non può

avvenire dal basso, ma dall’alto, concetto che Gramsci recepisce pienamente. Il Partito

è parte integrante della classe operaia, ma non si identifica con essa, in quanto la

coscienza politica rivoluzionaria di cui è portatore non è patrimonio di tutta la classe.

Dimenticare la differenza che esiste tra il reparto d’avanguardia e tutte le masse che 

gravitano verso di esso, dimenticare il costante dovere del reparto d’avanguardia di 

elevare strati sempre più vasti fino al livello dell’avanguardia, vorrebbe dire solo 

ingannare sé stessi” (V.I. Lenin, “Un Passo Avanti, Due Passi Indietro”). Il Partito si

pone quindi in una posizione di direzione politica della classe operaia, non di

identificazione con essa.

 

La direzione politica è incompatibile con una concezione amorfa

dell’organizzazione, ma deve tradursi in rapporti organizzativi precisi, sorretti da una

consapevole e condivisa disciplina. Da questa considerazione scaturisce il principio

del centralismo. In questi passi di Lenin troviamo l’esaltazione del meccanismo della

democrazia delegata, del ruolo del congresso e degli organismi dirigenti che ne

scaturiscono, la cui “autorità è autorità delle idee, della coscienza portata al massimo 

grado di consapevolezza critica” (V.I. Lenin, “Un Passo Avanti, Due Passi Indietro”).

Non c’è posto per nessun autoritarismo, perché le idee si elaborano nel confronto e si

sottopongono alla verifica dell’esperienza. Il centralismo si esplicita principalmente

nel criterio di sottomissione della minoranza alla maggioranza, della parte al tutto.

Soltanto questo criterio consente di superare la dicotomia tra pensiero e azione, tra

teoria e prassi, tipica dei partiti borghesi e parlamentaristici, garantendo l’unità e la

disciplina necessarie alla lotta rivoluzionaria.

Lenin stigmatizza l’insofferenza per la disciplina e l’organizzazione come

90

anarchismo da signori”, tipico dell’intellettuale borghese. L’implicita critica a questo

tipo di intellettuale e al suo individualismo costituisce il presupposto della successiva

elaborazione gramsciana sull’intellettuale di tipo nuovo, “organico” alla classe

operaia, capace, grazie all’impegno militante nel Partito, di fondersi con essa e di

realizzare finalmente l’unità di pensiero e azione, in un riscontro all’affermazione di

Marx “… i filosofi hanno finora variamente interpretato il mondo; ora si tratta di 

trasformarlo”.

 

La nozione di centralismo si precisa in quella di centralismo democratico al

IV Congresso del POSDR (1906) e quindi sono da considerarsi errate le tesi che fanno

risalire l’adozione di questo metodo al X Congresso del partito (1921). In questo

concetto, l’estrema centralizzazione della direzione politica e la severa disciplina

riguardo il rispetto delle decisioni prese diventano norma di un partito nel quale vige,

a monte, il più aperto confronto di posizioni, con un dibattito largo e spregiudicato.

Non solo, ma alla centralizzazione della direzione, quindi alla ristrettezza degli

organismi dirigenti (dopo la vittoria della Rivoluzione d’Ottobre, il Comitato Centrale

era composto da 19 membri, l’Ufficio Politico e l’Ufficio d’Organizzazione da 5

membri ciascuno), corrisponde la decentralizzazione del lavoro e delle responsabilità.

Mentre per la direzione ideologica e pratica del movimento e della lotta 

rivoluzionaria del proletariato è necessaria la maggior centralizzazione possibile …, 

per la responsabilità dinanzi al Partito è necessaria la maggior decentralizzazione 

possibile …, cioè l’allargamento della responsabilità e dell’iniziativa è una condizione 

necessaria alla centralizzazione rivoluzionaria e il suo indispensabile correttivo

(V.I. Lenin, “Lettera a un compagno sui nostri compiti organizzativi”). Il centralismo

garantisce l’unità e l’autonomia del partito, ma l’unità, l’efficienza, la passione e la

disciplina nella lotta non si raggiungono senza far leva sull’effettiva partecipazione e

responsabilità dei militanti. Questo rapporto tra disciplina e democrazia interna al

partito investe la sua stessa capacità di collegamento con le masse.

 

Lenin indica così le basi su cui poggia la ferrea disciplina che consente al

Partito di uscire vittorioso dallo scontro con la borghesia: “in primo luogo, mediante 

la coscienza dell’avanguardia proletaria e la sua devozione alla causa rivoluzionaria, 

mediante la sua fermezza, la sua abnegazione, il suo eroismo. In secondo luogo, 

mediante la capacità di questa avanguardia di collegarsi, di avvicinarsi e, se volete, 

fino ad un certo punto di fondersi con le masse dei lavoratori, dei proletari 

innanzitutto, ma anche con le masse lavoratrici non proletarie. In terzo luogo, 

mediante la giustezza della direzione politica realizzata da questa avanguardia, 

mediante la giustezza della sua strategia e della sua tattica politica e a condizione che 

le grandi masse si convincano, per propria esperienza, di questa giustezza. Senza 

queste condizioni, la disciplina di un partito rivoluzionario realmente capace di 

essere il partito di una classe d’avanguardia che deve rovesciare la borghesia e 

trasformare tutta la società, non è realizzabile” (V.I. Lenin, “L’estremismo malattia

infantile del Comunismo”). Se il punto centrale della teoria del partito rivoluzionario

91

in Lenin è il rapporto tra coscienza e spontaneità, tra partito e classe, tra teoria e

movimento, il centralismo democratico ne è conseguenza necessaria e inevitabile.

 

Il nostro Partito si riconosce pienamente e si richiama alla concezione

leninista del partito, recepita da Antonio Gramsci, il quale, nel Quaderno 14, così ne

delinea la strutturazione su tre livelli:

1) “Un elemento diffuso, di uomini comuni medi, la cui partecipazione è 

offerta dalla disciplina e dalla fedeltà, non dallo spirito creativo ed altamente 

organizzativo.” Senza i militanti, senza questi “uomini comuni” –ammoniva Gramsci –

il partito non esisterebbe, così come non esisterebbe neanche ‘solamente’ con 

essisono una forza in quanto c’è chi li centralizza, organizza, disciplina, ma in 

assenza di questa forza coesiva si sparpaglierebbero e si annullerebbero in un 

pulviscolo impotente”. Questa affermazione, nel periodo della fittizia “democrazia

istantanea” della rete e dei movimenti, può apparire meno partecipativa. E’

esattamente il contrario: la stessa concezione del ‘centralismo democratico’

(funzionamento del partito) e della ‘dittatura del proletariato’ (funzionamento dello

stato) è quanto di più partecipativo e democratico possa esistere nella realtà concreta.

Siamo pronti a affermare senza tema di smentita che è di gran lunga più alto il grado

di democraticità di un Comitato Centrale composto da un centinaio di dirigenti, che

discutono e decidono liberamente sulla base di un mandato, comunque sempre

revocabile, conferito loro dai militanti che li hanno eletti, piuttosto che una tornata di

primarie con milioni di partecipanti che si illudono di poter scegliere un candidato in

realtà già deciso da un gruppo dirigente autoreferenziale, etero diretto dai grandi

gruppi capitalistici finanziari, o un meet-up di qualche centinaio di migliaia di

persone, manipolate mediaticamente, che acclamano plebiscitariamente, come tifosi

alla stadio, quanto ha stabilito il guru telematico di turno. Ancora Gramsci:

2) “Un elemento coesivo principale, che centralizza nel campo nazionale, che 

fa diventare efficiente e potente un insieme di forze che lasciate a sé conterebbero 

zero o poco più”. I famosi “capitani” , i dirigenti che “in breve tempo possono 

costruire un esercito”. E poi ancora:

3)“Un elemento medio. Che articoli il primo col terzo elemento, che li metta 

a contatto, non solo ‘fisico’, ma morale e intellettuale”. Sono i cosidetti ‘quadri di

partito’.

 

Il modello di partito leninista e gramsciano è l’unico che oggi consente di

realizzare l’unità e l’autonomia di pensiero e azione rivoluzionaria della classe operaia

e di superare la trappola della falsa antitesi, costituita dal dilemma tra il “pensiero

unico” della borghesia e del capitale e la finta alternativa dei movimenti, della rete e

dell’isolamento individualista.

 

 

 

 

92

PARTE TERZA.  

 

 

 

13) Csp-PARTITO COMUNISTA. 2^CONGRESSO. REGOLAMENTO 

-Con la seduta del CC del 5 ottobre 2013  e le votazioni che hanno approvato il

documento politico, i cambiamenti dello Statuto, Regolamento finanziario ed il

seguente regolamento si apre la sessione congressuale che si concluderà con il

Congresso Nazionale che si terrà a Roma nei giorni 17/18/19 Gennaio 2014.

 

-La platea congressuale sarà composta da 300 delegati in rappresentanza dei circa

3.000 iscritti, con una misura di 1 delegato ogni 10 iscritti (da considerare come

calcolo politico e non burocratico). Sono previsti inviti a livello territoriale e

nazionale.

 

– L’elezione e la designazione dei delegati e degli invitati delle realtà territoriali in

accordo con la Direzione Nazionale si svolgerà col voto nelle Assemblee

precongressuali del Nord (Milano 3 Novembre), Centro (Roma 16 Novembre) e Sud

(Napoli 1Dicembre).

 

-Il numero dei delegati assegnati ad ogni Comitato Regionale verrà definito dalla

Direzione Nazionale sulla base dei cedolini degli iscritti consegnati alla Direzione

stessa entro la suddetta data del 5 Ottobre 2013.

 

-Tutta l’attività congressuale dei luoghi di lavoro e territoriale  sarà finalizzata alla

discussione politica ed alla propaganda del documento politico. La definizione di

organismi dirigenti di qualunque livello territoriale sarà attivata dopo il Congresso

Nazionale, di concerto col Segretario Nazionale e con la nuova Direzione Nazionale

eletti al Congresso.

 

– I lavori del Congresso saranno così articolati:

17 Gennaio: ore 16/21 riunione della Direzione Nazionale uscente e relazione del

Segretario Nazionale

18 Gennaio: ore 10/13 accoglienza delegati ed invitati presso le strutture alberghiere;

ore 15/20 attività e discussione nelle tre Commissioni Politiche: “Lavoro e

Proletariato intellettuale”, “Partito e Gioventù”, “Relazioni internazionali, Donne e

Pionieri”; ore 21 cena sociale per tutti i delegati

19 Gennaio, presso il Centro Congressi Frentani a Via dei Frentani: ore 8/10 sessione

per soli delegati e votazione dei documenti congressuali ed elezione degli organismi

dirigenti; ore 10/12 sessione interventi del Congresso; ore 12.30 intervento conclusivo

del Segretario Nazionale.

 

93

– I membri del CC e della CNGC sono a tutti gli effetti delegati di diritto al Congresso

Nazionale e saranno conteggiati internamente alla platea dei 300 delegati.

– La presidenza del Congresso è composta dai membri della Direzione Nazionale e

della CNGC uscente.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

94

 

14) STATUTO DEL PARTITO COMUNISTA  

 

Preanbolo  

 

Il PARTITO COMUNISTA è l’organizzazione politica rivoluzionaria

d’avanguardia della classe operaia italiana, nasce dall’esperienza di Comunisti Sinistra

Popolare e di comunisti variamente collocati e unisce lavoratori, donne e uomini che,

su base volontaria e di unità ideale, vogliono abbattere il capitalismo e lo sfruttamento

dell’uomo sull’uomo per costruire il Socialismo-Comunismo. Con questo fine si

impegna ad organizzare la classe operaia, le lavoratrici, i lavoratori ed il popolo per

arrivare all’attuazione piena del proprio programma politico.

Il Partito si fonda e si riconosce nel marxismo-leninismo, riconosce

l’esperienza storica dei Paesi socialisti, difende e valorizza la storia ed i valori del

movimento operaio e comunista, italiano e internazionale, dei principi ispiratori della

Costituzione del 1948 e della Resistenza al nazi-fascismo. Perseguendo la rivoluzione

socialista in Italia, il Partito lotta per una generale trasformazione socialista a livello

mondiale, in sintonia con la parte più coerente del Movimento Comunista

Internazionale, nello spirito dell’internazionalismo proletario e della solidarietà con le

classi operaie degli altri paesi e i popoli in lotta contro l’imperialismo e i monopoli.

Nella fase attuale di difficoltà e dispersione dei comunisti in Italia, l’obiettivo

è la costruzione di un grande Partito Comunista all’altezza dei compiti e dei tempi in

cui viviamo, collocato attivamente all’interno del Movimento Comunista

Internazionale, intransigente nella battaglia ideologica per la sua unità sulla base del

marxismo-leninismo, contro il riformismo, il revisionismo, l’opportunismo e la

socialdemocrazia.

 

Art.1-Adesione.  

 

Possono iscriversi al PARTITO COMUNISTA donne e uomini, cittadini

italiani ed immigrati di ogni nazionalità che abbiano compiuto il quattordicesimo anno

di età, ne accettino l’impostazione ideologica, il programma politico e lo statuto, si

impegnino a dare attività in una delle sue  strutture, paghino regolarmente la quota

tessera stabilita e siano presentati da almeno due compagni già iscritti.

L’iscrizione avviene presso la sezione del luogo di lavoro o di residenza,

rigorosamente su base individuale.

E’ istituito un periodo di candidatura a membro effettivo del Partito non inferiore a 3

(tre) mesi, per la necessaria valutazione delle qualità morali, dell’impegno politico e

del grado di maturità politico-ideologica del candidato da parte degli organismi

dirigenti dell’istanza di base competente, che può approvare o respingere il passaggio

a membro effettivo, oppure richiedere un supplemento di candidatura.

E’ incompatibile con l’adesione al Partito l’iscrizione ad altre organizzazioni

95

politiche e tanto più vietata l’adesione e la partecipazione ad associazioni segrete o

che comportino particolari vincoli di adesione (sette o logge massoniche). Fanno

eccezione:

– l’iscrizione di militanti, residenti all’estero, a partiti comunisti fratelli con i

quali esista un accordo per la reciprocità di iscrizione dei loro militanti

residenti in Italia, se consentita dai loro statuti. L’iscrizione deve comunque

essere approvata dagli organismi dirigenti;

– l’iscrizione di militanti di età fino a 30 anni al Fronte della Gioventù

Comunista.

– L’iscrizione ad associazioni di massa come il FUL, l’Anpi ecc.

 

Art.2- Diritti e doveri. 

 

Ogni iscritto ha il diritto di:

– esprimere liberamente la propria opinione all’interno del Partito,

contribuendo alla elaborazione della sua linea politica;

– chiedere e ottenere informazioni e chiarimenti dagli organismi competenti

in merito alle decisioni politiche e alle questioni ideologiche;

– partecipare alla elezione degli organismi dirigenti;

esser eletto nelle istanze organizzative di qualsiasi livello.

Ogni iscritto è tenuto a:

– partecipare all’attività ed alle riunioni;

studiare gli atti e le pubblicazioni del Partito, migliorando costantemente la

propria preparazione politica e ideologica e la propria conoscenza del

marxismo-leninismo;

–  svolgere attività di proselitismo e informazione politica nei luoghi di

lavoro, di formazione e nella società;

– rispettare il centralismo democratico e le decisioni prese dalla

maggioranza, contribuendo al rafforzamento della disciplina;

– esercitare costruttivamente la critica e l’autocritica, tipiche dello stile

comunista, in modo da rafforzare la democrazia interna;

– rappresentare il Partito e diffonderne la linea politica all’interno delle

organizzazioni sindacali e di massa di cui fa parte;

– mantenere il riserbo circa le discussioni interne, diffondendo all’esterno, in

particolare sui social network, alla stampa e ai mezzi di comunicazione di

massa, solo quanto definitivamente approvato come linea ufficiale del

Partito;

– vigilare e difendere il Partito in ogni sede, combattendo fermamente

l’eclettismo, l’infiltrazione di elementi ideologici borghesi e qualsiasi forma

di deviazione dal marxismo-leninismo, contribuendo così all’unità

organizzativa, politica e ideologica del Partito.

 

Art.3-Organizzazione

96

 

Il PARTITO COMUNISTA è organizzato in sezioni nei luoghi di lavoro e

territoriali, in comitati federali e regionali e nelle strutture organizzative centrali.

 

Art.4-La sezione

 

La sezione di lavoro o di territorio è l’istanza di base. Deve esser costituita da

almeno 5 iscritti nei luoghi di lavoro e da almeno 10 iscritti in quella di territorio.

Elegge un segretario e può costituire una segreteria con incarichi esecutivi funzionali.

E’ consentita deroga nei territori esteri, dove, con l’approvazione della Direzione

Nazionale, il minimo di iscritti può essere inferiore.

 

Art.5-I comitati provinciali e regionali. 

 

I comitati sono costituiti, di norma su base provinciale e regionale, (salvo

diversa conformazione dovuta ad esperienze politiche condivise nel tempo, ad es.

comitati metropolitani o più comitati nella stessa provincia). Entrambi possono dotarsi

di una segreteria esecutiva funzionale. Entrambi eleggono un segretario e un tesoriere.

Le Federazioni estere continentali sono equiparate al comitato regionale, quelle dei

singoli Paesi esteri ai comitati provinciali.

 

Art.6 –La gioventù.

 

Il PARTITO COMUNISTA riconosce il lavoro politico sulla questione

giovanile e si pone come obiettivo programmatico, impegnativo per tutti gli iscritti, la

creazione di un’organizzazione della gioventù comunista organica al Partito, fondata

sul marxismo-leninismo, sull’internazionalismo proletario e sull’antimperialismo,

come avanguardia del proletariato giovanile.

 

Art.7- La vita interna. 

 

La vita interna del Partito è regolata dal centralismo democratico.Il dibattito

libero, la collegialità della direzione e la comunanza di intenti rappresentano i punti

fondanti del funzionamento interno del Partito, che si articola in base al principio della

verticalità delle decisioni, delle responsabilità e della comunicazione.

La linea politica e le decisioni stabilite sono vincolanti e devono venire

lealmente attuate da tutti. E’ espressamente vietata la costituzione di correnti o di

frazioni organizzate. L’esercizio della critica e dell’autocritica, nonché la condanna

del carrierismo, del frazionismo e delle forme di lotta interna classiche del

malcostume borghese sono altrettanti punti caratterizzanti la diversità della militanza

comunista.

 

Art.8- I congressi. 

97

Per ciascuna istanza organizzativa il massimo organo deliberativo è il

congresso.Viene convocato di norma ogni tre anni dal Segretario Generale o su

richiesta di un numero di componenti il Comitato Centrale non inferiore ai due terzi

dei suoi membri. Il Comitato Centrale ne promulga anche il regolamento.

Il congresso nazionale, costituito dall’Assemblea dei delegati, determina la

linea politica generale, delibera in materia di statuto e programma, elegge il Comitato

Centrale e la Commissione Centrale di Controllo e Garanzia. Analoghe disposizioni

sono stabilite per i congressi regionali, provinciali e di sezione, ad esclusione di

quanto riguarda le Commissioni di Controllo e Garanzia, non istituite a questi livelli.

 

Art.9- Modalità di voto. 

 

Il voto è palese per ogni livello organizzativo, a meno che non sia richiesto

diversamente da almeno il 40% dei delegati presenti ed è valido se al momento della

votazione sono presenti almeno la metà più uno dei presenti. Tutte le decisioni, ad

esclusione delle modifiche  statutarie, vengono approvate in base al principio della

maggioranza semplice.

Per le modifiche statutarie è richiesta la maggioranza qualificata dei due terzi

del Comitato Centrale e della Commissione Centrale di Controllo e Garanzia in seduta

plenaria con votazione e/o sottoscrizione.

I membri, dimissionari o decaduti dagli organismi dirigenti di ogni livello

possono essere sostituiti con voto a maggioranza semplice. Sono possibili cooptazioni

negli organismi dirigenti ad ogni livello nell’ordine di non più di un decimo dei

facenti parte.

 

Art.10-La Conferenza di Organizzazione. 

 

In caso di particolare necessità, dovuta ad eventuali criticità del momento

politico, può venire convocata nel periodo che intercorre tra un congresso e l’altro,

con gli stessi criteri di delega che valgono per l’Assemblea dei delegati al Congresso

Nazionale La Conferenza di Organizzazione viene convocata e presieduta dal

Segretario Generale

 

Art.11- Il Comitato Centrale. 

 

Il Comitato Centrale è l’organismo di direzione politica generale tra un

congresso e l’altro.. Elegge, in seduta comune con la Commissione Centrale di

Controllo e Garanzia, il Segretario Generale, il Tesoriere Centrale, la Direzione

Centrale ed ogni altra eventuale istanza organizzativa. Dopo la prima seduta

d’insediamento, viene convocato e presieduto dal Segretario Generale. In mancanza, la

sua convocazione può essere richiesta da un numero non inferiore ai due terzi dei suoi

membri effettivi.

 

98

Art.12- La Direzione Centrale. 

 

La Direzione Centrale è l’organo esecutivo che dirige il Partito tra una

convocazione e l’altra del Comitato Centrale, verifica la realizzazione della linea

politica, discute ed approva le candidature per le elezioni politiche nazionali,

amministrative locali ed europee, nomina i responsabili delle commissioni di lavoro

ed assegna altri incarichi funzionali centrali.

E’ presieduta e convocata dal Segretario Generale. Ne sono membri di diritto

il Segretario Generale, a cui viene assegnata la titolarità esclusiva del simbolo del

Partito, il Tesoriere Centrale, che assume la rappresentanza legale del partito, il

Presidente ed il Vicepresidente della Commissione Centrale di Controllo e Garanzia.

 

La Direzione Centrale è articolata in due uffici: l’Ufficio Politico, che dirige

il Partito tra una convocazione della Direzione e l’altra, composto principalmente da

compagni che ricoprono incarichi centrali, attinenti alle politiche generali del Partito,

e l’Ufficio d’Organizzazione, composto principalmente da Segretari regionali e di

grandi aree metropolitane, che si occupa dell’attuazione operativa delle decisioni e del

collegamento tra il centro e le organizzazioni locali. Il Segretario Generale presiede e

convoca entrambi gli Uffici.

 

Art.13- La Conferenza delle lavoratrici e dei lavoratori. 

 

E’ istituita la Conferenza Nazionale delle Lavoratrici e dei Lavoratori. E’

coordinata dal Responsabile delle politiche del lavoro e convocata dal Segretario

Generale. Si riunisce per dibattere le questioni concernenti il mondo del lavoro e

l’impegno sindacale. La Conferenza è l’espressione del Fronte Unitario dei

Lavoratori, metodo di organizzazione dei lavoratori comunisti nei vari sindacati.

 

Art.14- La Commissione Centrale di Controllo e Garanzia. 

 

La Commissione Centrale di Garanzia e Controllo concorre, insieme agli altri

organismi dirigenti, alla crescita del Partito e, in tal senso, fa riferimento e richiama

alle più alte motivazioni ideali che da sempre costituiscono il patrimonio essenziale

del costume comunista.

La Commissione vigila sull’applicazione dello Statuto, sulla correttezza e

conformità dei comportamenti dei membri e dei dirigenti del Partito, sia all’interno

che all’esterno di esso, sul rispetto della linea politica adottata, sul radicamento

dell’ideologia marxista-leninista all’interno del Partito. Essa è composta da cinque

membri ed elegge al suo interno il Presidente e un Vicepresidente Vicario, entrambi

con diritto di voto all’interno degli organismi dirigenti, a differenza degli altri suoi

componenti che hanno solo diritto di parola.

La Commissione decide di ogni questione disciplinare, di applicazione e di

interpretazione dello statuto, nonché di eventuali contenziosi sorti a livello territoriale.

99

Può inoltre sciogliere, di concerto con il Segretario Generale e la Direzione Centrale,

gli organismi politici territoriali, affidandone la gestione ad un commissario, che ha il

compito, per un periodo di tempo prefissato, di garantirne la continuità politica e

finanziaria fino ad un nuovo congresso territoriale.

 

 

Art.15- Le sanzioni disciplinari. 

Si ricorre a sanzioni disciplinari solo dopo aver esperito tutti i tentativi

politici necessari ad evitare la via disciplinare, previa comunicazione all’interessato.

Le sanzioni disciplinari sono articolate in:

– richiamo formale;

– sospensione temporale dall’organizzazione e/o dagli incarichi direttivi;

– espulsione;

– radiazione.

L’eventuale sospensione cautelare non costituisce sanzione disciplinare, ma viene

decisa per tutelare l’organizzazione e/o il compagno interessato. Non è contemplata

l’autosospensione.

L’elezione negli organismi dirigenti di qualsiasi livello avviene sulla base del

riconoscimento delle capacità e dell’impegno dello stesso, non per sola

rappresentatività territoriale e comporta l’assunzione della relativa responsabilità da

parte del compagno eletto nei confronti del Partito. Pertanto, dopo 3 (tre) assenze

consecutive alle convocazioni dell’organismo di appartenenza, ancorché giustificate,

constatata l’oggettiva impossibilità, comunque motivata, a ricoprire efficacemente il

ruolo dirigente, l’assente decadrà automaticamente e potrà essere sostituito.

 

Art.16- La Conferenza dei Tesorieri. 

 

E’ istituita la Conferenza Nazionale dei Tesorieri. Si riunisce su

convocazione del Tesoriere Centrale. Ha il compito strategico di programmare e

gestire l’autofinanziamento, con obbligo di rendiconto al Comitato Centrale e alla

Direzione Centrale.

 

Art.17- L’autofinanziamento. 

 

L’autofinanziamento è il mezzo fondamentale di sostentamento del

PARTITO COMUNISTA che fa della critica della odierna politica di mestiere uno dei

cardini della propria proposta politica.

Il tesseramento, le quote di autofinanziamento obbligatorie per i gruppi

dirigenti di ogni livello, le feste popolari e le altre attività di sottoscrizione popolare

costituiscono l’ossatura fondamentale del reperimento delle risorse economiche.

Per l’autofinanziamento è previsto un apposito regolamento più dettagliato,

allegato al presente statuto. Il bilancio ogni anno verrà predisposto a livello nazionale

e locale, discusso ed approvato dagli organi competenti: il bilancio nazionale dalla

100

Direzione Centrale e dalla Conferenza dei Tesorieri, quelli locali dai comitati regionali

e provinciali), per favorire il controllo e la gestione democratica delle risorse.

 

Art.18-Le cariche pubbliche elettive. 

 

Le cariche pubbliche elettive non sono il fine della prassi politica comunista.

Le elezioni a qualunque livello costituiscono una verifica del lavoro svolto e

un’occasione di tribuna per meglio propagandare le posizioni dei comunisti. Agli

eventuali gruppi consiliari o parlamentari non è consentita alcuna autonomia politica

organizzativa dal Partito, che resta sovrano nel decidere la linea politica e la sua

attuazione anche nelle assemblee elettive.

Qualunque carica elettiva, conseguita in nome e per conto del PARTITO

COMUNISTA può essere retribuita con una somma comunque non superiore allo

stipendio di un lavoratore in trasferta. La restante parte dell’indennità percepita e di

ogni altra voce di rimborso deve essere versata direttamente al tesoriere dell’istanza

territoriale corrispondente. L’impegno va sostenuto con un apposito regolamento che

verrà redatto ad ogni singola elezione da parte del Tesoriere Centrale di concerto con

la Commissione Centrale di Controllo e Garanzia. Le cariche, derivanti da candidature

del PARTITO COMUNISTA nelle assemblee elettive, non sono cumulabili.

 

Art.19 – Tessera, simboli e inni. 

 

La tessera debitamente sottoscritta dall’iscritto attesta la regolare iscrizione e

impegna il militante al lavoro politico.

Dopo la presentazione alle elezioni politiche del 2013 il simbolo elettorale è

il seguente: “Cerchio di colore grigio, con inscritto un quadrato con stella, falce e

martello di colore bianco al centro su sfondo rosso. All’interno del quadrato, nella

parte inferiore (sotto la stella, falce e martello) vi è dapprima la scritta ‘PARTITO’ in

colore bianco, più in basso la scritta ‘COMUNISTA’ in colore bianco su fascia nera”.

Il simbolo è nella disponibilità, per elezioni nazionali e locali, del Segretario

Nazionale che può delegare altri compagni per l’uso a livello territoriale. Gli inni del

PARTITO COMUNISTA sono l’Internazionale e Bandiera Rossa.

 

Art.20- Disposizioni finali. 

 

Il seguente statuto regola la vita del PARTITO COMUNISTA dal secondo al

terzo Congresso e, in tale periodo, può esser modificato solo con votazione o con

sottoscrizione superiore ai due terzi dei membri del Comitato Centrale.

 

 

 

101

 

15) REGOLAMENTO FINANZIARIO   

 

Principi Ispiratori 

 

A questo Regolamento Finanziario e’ affidato il compito di stabilire e

disciplinare le modalità di acquisizione delle attività economiche e patrimoniali  con

relative modalità di spesa e di impiego, partendo dal principio della economicità di

gestione, al fine di assicurare equilibrio finanziario e patrimoniale.

Attraverso questo regolamento, il tesoriere gestisce e organizza amministrativamente e

contabilmente l’organizzazione e le risorse a disposizione, compreso il patrimonio,

con vincoli che consentono preventivamente l’equilibrio finanziario sia in sede

previsionale che a consuntivo.

Art. 1  Ambito di applicazione 

 

Questo regolamento disciplina in materia economica, finanziaria e

patrimoniale il rapporto tra Organizzazione Centrale e le articolazioni regionali, nel

rispetto della loro autonomia statutaria.

 

Art. 2 Figura del Tesoriere e suo rapporto con i regolamenti e i Tesorieri regionali.

 

a-     Ogni articolazione regionale elegge un Tesoriere che è il legale rappresentante

della stessa.

b-    Ogni regolamento regionale deve essere dotato di una parte  finanziaria e stabilire

i poteri assunti dal Tesoriere.

c-     Gli stessi regolamenti devono ispirarsi ai criteri di gestione che fanno capo al

regolamento e allo statuto nazionale dell’organizzazione.

d-    Il Tesoriere Centrale entro 30 gg. dall’approvazione del regolamento finanziario

delle articolazioni regionali, o di una sua modifica, ne attesta la conformità.

Art. 3

Principio dell’autofinanziamento.

a-     Tesseramento per i componenti il Comitato Centrale: oltre alla quota tessera

annuale é prevista una quota di autofinanziamento proporzionale al proprio reddito

mensile (ad esclusione dei disoccupati e studenti) da versare con bonifico bancario

AUTOMATICO trimestrale sulla base di scaglioni progressivi:

Fino a 1500.00 euro di reddito mensile l’1,5%

Da 1501.00 a 3000.00 euro il 2,5%

Da 3001.00 a 5000.00 euro il 4%

Oltre 5000.00 euro di reddito mensile il 7%.

b-     Tesseramento nei comitati regionali, provinciali, di zona e di sezione con tessera

annuale e con quota di autofinanziamento proporzionale al reddito mensile identica al

Comitato nazionale salvo diversa ed autonoma scelta degli organismi locali.

102

Alle organizzazioni periferiche del Partito resta il 90% dell’incasso complessivo per il

Tesseramento, il restante 10% va versato alla Tesoreria Nazionale a mezzo bonifico.

c-      Le altre fonti di autofinanziamento, come feste, cene , sottoscrizioni devono

prevedere l’assegnazione del’80% del ricavato netto a beneficio delle articolazioni

periferiche ed il restante  20% alla Tesoreria nazionale a mezzo bonifico.

d-     La responsabilità  dell’autofinanziamento non  e’ solo  dei Tesorieri ma anche

degli organismi dirigenti periferici ad ogni livello.

In caso di inadempimento, la  Commissione di Controllo e Garanzia Nazionale viene

immediatamente informata.

 

Art. 4 Quota tessera di iscrizione 

 

Le iscritte e gli iscritti hanno l’obbligo di sostegno finanziario alle attività politiche

dell’Organizzazione, attraverso la loro quota di tesseramento.

A scadenza annuale, la Direzione Centrale su proposta del Tesoriere Centrale,  sentita

la Conferenza dei Tesorieri regionali, stabilisce la quota minima per l’iscrizione

all’organizzazione. Le stesse saranno acquisite al patrimonio delle articolazioni

periferiche secondo i criteri stabiliti dall’Art.3.

Art.5 Erogazioni liberali 

 

Ogni organizzazione periferica può ricevere erogazioni liberali, anche allo scopo di

realizzare  progetti specifici e campagne di autofinanziamento.

Ciò dovrà essere regolato attraverso i criteri e modalità stabiliti dal regolamento

finanziario regionale.

 

Art. 6 Etica degli eletti in organismi istituzionali  

 

Gli eletti in organismi istituzionali , in rispetto del codice etico, sono tenuti a versare

all’organizzazione il contributo d’intesa  tra il Tesoriere Centrale e gli stessi, secondo

le norme dello Statuto.

 

Art. 7 Feste manifestazioni ed altri eventi. 

 

a-     Le manifestazioni e gli eventi che ogni organizzazione periferica metterà in

essere, allo scopo di reperire risorse finanziarie dovranno essere preventivante

concordati con le altre articolazioni interessate, con le quali, si potranno altresì

stabilire i criteri di ripartizione degli eventuali proventi.

b-     I simboli riferiti all’organizzazione possono essere utilizzati dalle articolazioni

periferiche salvo opposizione del legale rappresentante dell’organizzazione.

 

Art. 8 Modalità di spesa. 

 

103

a-     L’articolazione delle modalità di spesa dell’organizzazione, saranno regolate in

riferimento alle metodologie tipiche della contabilità finanziaria.

b-     Al Tesoriere spetta il compito di redigere  il bilancio preventivo, e in base al

bilancio assegnare, in via provvisoria, la disponibilità alle unità organizzative dotate

della facoltà di impegnare tali risorse.

Le unità organizzative saranno individuate dal Tesoriere Centrale.

c-      L’assegnazione delle disponibilità provvisorie sarà conseguente alla

presentazione ad opera  del responsabile di ogni unità organizzativa di una previsione

di spesa relativa al programma di attività politica.

d-     L’entità’ dell’assegnazione sarà proposta dal Tesoriere e approvata dal Comitato

di Tesoreria , e costituirà per l’unita’ organizzativa vincolo da rispettare in via

definitiva per il proprio programma di attività politica.

e-      Stabilita l’assegnazione all’unita’ organizzativa, ciascuna spesa potrà essere

effettuata soltanto  a seguito di proposta sottoposta al Tesoriere, che con la sua

autorizzazione, la trasformerà in impegno di spesa.

f-       I singoli programmi di attività verranno sottoposti a revisione trimestrale del

Tesoriere Centrale, e dovranno riportare gli impegni assunti con le relative spese

effettuate, al fine di verificare la tenuta degli equilibri.

Questa verifica si dovrà effettuare anche sul bilancio preventivo generale e

successivamente sottoposta al Comitato di Tesoreria.

g-     Entro 60 gg. dall’entrata in vigore del presente regolamento,  il Tesoriere

Centrale redige ulteriore  regolamento che stabilisce i criteri di approvazione delle

spese ed impegni di spesa  relativi alle trasferte sostenute per lo svolgimento delle

attività a carico del bilancio dell’organizzazione.

h-     Al fine di una corretta contabilizzazione, i costi sostenuti dovranno essere

supportati da idonea  documentazione contabile.

 

Art. 9 La Conferenza dei Tesorieri regionali. 

 

a-     Si istituisce una Conferenza composta dal Tesoriere Centrale e dai Tesorieri

regionali, con la funzione di coordinamento dell’attività amministrativa e finanziaria.

Questo nel rispetto delle singole autonomie.

b-     La Conferenza dei Tesorieri, si riunisce di norma tre volte l’anno, con lo scopo di

coordinare ed illustrare gli indirizzi della Tesoreria Centrale.

Essa e’ convocata ad opera del Tesoriere Centrale.

c-      La Conferenza può essere convocata anche straordinariamente, in seguito a

richiesta supportata  dagli argomenti dell’ordine del giorno da discutere. La

Conferenza e’ presieduta dal Tesoriere Centrale.

 

Art. 10 Contratti bancari e postali, movimentazioni finanziarie. 

 

a-I contratti bancari e postali dovranno riportare l’intestazione dell’articolazione dalla

quale e nel cui interesse e’ stato stipulato(ad esempio il Comitato regionale)

104

b-Ogni operazione di spesa e di incasso effettuata dal Tesoriere Centrale o dal

Tesoriere dell’articolazione regionale deve avvenire attraverso bonifico bancario o

assegno bancario nel rispetto delle norme sul finanziamento pubblico, delle norme

antiriciclaggio e di quelle di legge, applicabili.

Art. 11 Organizzazione amministrativa e contabile.

 

a-     La contabilità dell’organizzazione e’ ispirata ai principi della contabilità

economico- patrimoniale previsti dalle norme del codice civile per le società per

azioni, con lo strumento della partita doppia. Annualmente si procede alla redazione

del bilancio conforme allo Statuto e alle norme di Legge in riferimento alle

organizzazioni politiche.

b-     Al Tesoriere spetta il compito di elaborare un piano dei conti della tenuta della

contabilità da sottoporre all’approvazione del Comitato di Tesoreria in primis, e

successivamente alle articolazioni periferiche dell’organizzazione con lo scopo di

agevolare l’omogeneità’ dell’amministrazione in tutto il territorio nazionale.

 

Art. 12 Bilancio preventivo e consuntivo. 

 

a-     Le articolazioni periferiche beneficiarie di contribuzioni in denaro da parte della

Tesoreria Centrale, dovranno conferire alla stessa il bilancio consuntivo entro 15 gg.

dalla sua approvazione.

b-     A fine anno, un mese prima dell’approvazione del bilancio dell’organizzazione,

il Tesoriere elabora il bilancio annuale e il rendiconto delle risultanze a consuntivo del

bilancio di previsione, da sottoporre all’approvazione del Comitato di Tesoreria.

c-      Ad avvenuta approvazione del rendiconto, il Tesoriere verifica il bilancio di

previsione relativo  all’anno in corso.

 

Art. 13 Rapporti di lavoro 

 

Di norma non sono previsti rapporti di lavoro in quanto si vuole evitare la politica di

mestiere. In casi eccezionali è richiesto un voto della Direzione Centrale su proposta

del Tesoriere Centrale e comunque la eventuale regolamentazione dei rapporti di

lavoro tra organizzazione centrale e articolazioni periferiche, sarà disciplinata da uno

specifico regolamento del personale.

 

Art. 14 Norme applicabili. 

 

Ciò che non e’ previsto dal presente regolamento, si deve riferire alle norme dello

Statuto dell’organizzazione. Il presente regolamento ha validità a decorrere dal 20

Gennaio 2014.

 

 

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