Due righe di storia…

Negli stessi anni in cui si gettavano le basi per la “politica dei redditi”,
che ha prodotto l’abolizione della scala mobile, le riforme pensionistiche, i
contratti legati alle compatibilità economico finanziarie delle aziende, con lo
scopo dichiarato di indirizzare in modo controllato la distribuzione della
ricchezza, in quegli stessi anni ’90 caratterizzati anche dall’esplosione di
tangentopoli, si iniziava a costruire anche il sistema normativo per imporre la
“flessibilità del lavoro”.

Un processo che ha trovato compiuta realizzazione con il pacchetto Treu del
1997, che normalizzò il lavoro interinale e con la legge 30 del 2003 (legge
Biagi), che ha introdotto tutte le svariate forme di lavoro cosiddetto
“atipico”; un processo che aveva la pretesa (pretesto) di agevolare l’ingresso
dei giovani nel mondo della produzione (somministrazione, apprendistato, lavoro
ripartito, intermittente, a progetto).

Una ulteriore accentuazione a queste forme è stata data anche dai governi
successivi, fino ad arrivare al governo Berlusconi in carica, che ha
reintrodotto il contratto di lavoro “a chiamata”.

Come purtroppo bisogna constatare, queste norme sono state ben lungi dal
realizzare gli scopi che erano stati dichiarati.

Lo scenario che si presenta ai nostri giorni è quello devastante di giovani,
ma non più e non solo giovani, alla mercé delle agenzie che li collocano e
delle imprese che li utilizzano, ricattati dagli uni e dagli altri, con l’unica
prospettiva di una continua entrata e uscita dal lavoro, con tempi e modi del
tutto indefiniti ed incerti, e non certo quella dell’ingresso definitivo nel
processo produttivo.

Il ruolo negativo della P.A.

Va tenuto conto che in questi anni un ruolo importante in questa distruttiva
evoluzione è stato svolto dalla pubblica amministrazione.

Essa ha sminuzzato in pezzi e pezzettini i servizi di sua competenza, per
poterli privatizzare più facilmente ed in questo modo ha favorito la crescita
di miriadi di “cooperative”, agenzie, società di servizio, che si sono spartite
la torta dei servizi appaltati, avvantaggiandosi del ribasso delle offerte reso
possibile proprio dall’utilizzo di lavoratori somministrati e temporanei,
assunti con contratti da miseria.

La stessa amministrazione pubblica, poi, ha utilizzato direttamente il lavoro
somministrato per sostituire il personale collocato a riposo o destinato ad
altri settori, per coprire i “buchi”, per poi decidere, per esigenze di
bilancio, di tagliare quei posti, lasciando scoperti alcuni servizi o
caricandoli su altro personale e lasciando abbandonati a se stessi i lavoratori
coinvolti, molte volte persone inserite organicamente nei servizi da molti
anni.

Il caso più eclatante è stato recentemente quello del precariato nella
pubblica istruzione, che ha visto allontanati dal lavoro migliaia di persone
sulla cui presenza si reggeva molta parte della struttura scolastica.

Redditi sempre più sperequati

Negli anni in cui tutto questo iniziava le retribuzione media di un lavoratore
dipendente assunto stabilmente si aggirava attorno a 1 milione e 200mila lire.
Lo stipendio di un dirigente pubblico si aggirava attorno a 3 milioni e mezzo
di lire (un po’ più del doppio). Un manager d’impresa, allora, guadagnava circa
20 volte lo stipendio di un operaio. Quanto al costo della vita di allora, si
può prendere a riferimento il canone di affitto, che si aggirava, per un’
abitazione media, intorno alle 3-400mila lire.

Redditi già allora molto squilibrati, ma ora?

Per un lavoratore dipendente, oggi, lo stipendio medio di 1 milione e 200mila
è diventato di 1200 euro, con un potere di acquisto molto più limitato rispetto
a quello di allora: un canone di affitto oggi non è più rapportabile alle 3-400
mila lire, ma sta sui 700-1000 euro ed è quindi quasi triplicato e lo stesso
rapporto penalizzante vige per tantissimi beni di consumo, anche quelli più
necessari.

Se invece guardiamo agli stipendi, ad esempio, dei dirigenti pubblici e
privati ci rendiamo conto di come essi risultano molto più “adeguati”, perché
la loro busta paga è di circa 7-8000 euro medi. Un rapporto all’incirca
triplicato rispetto a quelli di qualche decennio fa. Se poi volgiamo lo sguardo
ancora più in alto, verso i manager, il rapporto è ormai più che centuplicato.
Un Marchionne arriva a guadagnare 4milioni e 780mila euro, circa 400 volte lo
stipendio di un operaio FIAT.

Ciò significa che la sperequazione del rapporto tra le retribuzioni medio
basse e quelle dirigenziali e manageriali si è pesantemente aggravato; a
riprova si può riflettere sull’andamento dei consumi dei beni di lusso
(automobili di grosso “calibro”, elettrodomestici voluttuari, immobili di
pregio ecc.), che non sembra aver risentito granchè della “crisi”, perché ?
Perché chi si può permettere si acquistare tali prodotti ha, in questi anni
incrementato il proprio reddito, a scapito degli altri, che hanno invece forti
difficoltà ad accedere ai beni minimi necessari.

Anche il raffronto con l’evoluzione degli stipendi dei nostri rappresentanti
in Parlamento ci dà l’idea di quanto sia peggiorato, a sfavore del lavoro
dipendente, il rapporto nei confronti dei ceti più ricchi.

Un eletto in Parlamento negli anni ’80-’90 poteva ricevere circa 10 milioni di
lire (lasciamo perdere tutti i bonus accessori). Ora, con adeguamenti che si
sono essi stessi auto-concessi, i parlamentari guadagnano circa 20.000, mentre
gli altri (i nostri) stipendi sono rimasti pressoché al palo.

E stiamo valutando i rapporti prendendo in considerazione il lavoro dei
contratti a tempo indeterminato.

Se prendiamo in esame il reddito prodotto dal lavoro precario ovviamente il
rapporto è ancora più sperequato: chi è fuori dal circuito del lavoro stabile,
purtroppo, vede i propri introiti molto variabili di anno in anno in quanto
legati alle possibilità occupazionali “flessibili” offerte dalle agenzie
private di caporalato, quindi ha un reddito ancora più sfavorito di quello reso
dal lavoro stabile.

Tutti contro il precariato, ma poi ?

Molto ipocritamente, questo scenario ci viene raffigurato a tinte fosche dalle
inchieste televisive e persino dai politici nostrani, come una situazione non
più sostenibile, né socialmente, né economicamente.

Anche autorevoli ambienti istituzionali, come la Banca d’Italia, hanno
affermato a più riprese che il sistema del precariato, applicato in forma
patologiche come è avvenuto in Italia, è controproducente per la stessa
economia capitalistica, perché non crea sviluppo e non migliora la
competitività.

Persino autorevoli ambienti sindacali, CGIL in primis, profondono le loro
dichiarazioni a favore di una riforma del lavoro che si opponga al precariato
diffuso ed alla flessibilità selvaggia, quegli stessi ambienti che negli anni
scorsi, però, hanno dato una spinta determinante a tutti gli accordi e
contratti ed alle conseguenti norme di legge che invece hanno
istituzionalizzato il ricorso a quelle forme anomale.

Finita l’intervista o il servizio al telegiornale, superato l’articolo di
giornale, a queste prese di posizione nulla segue, tutto puntualmente continua
ad essere uguale, i giornalisti non esplorano nessuna possibile soluzione, i
politici non fanno proposte incisive, nessuna norma viene discussa in
parlamento per rimediare almeno parzialmente a questa condizione disastrosa.

Vorremmo che queste dichiarazioni di intenti non fossero mera propaganda,
destinata, al momento di prendere decisioni ed adottare provvedimenti, ad
essere contraddetta o ignorata.

Perciò, proseguendo nel solco delle nostre proposte tese a riequilibrare la
distribuzione del reddito nel nostro paese, vorremmo suggerire una strada, un
percorso da cui iniziare a contrastare di fatto il ricorso al precariato.

Cosa occorre fare.

Al di là dei facili, ma inutili vittimismi, e della rassegnazione che ci
inculcano giorno dopo giorno, siamo infatti convinti che la situazione non sia
ineluttabile.

Il riequilibrio del mercato del lavoro per essere efficace nel senso che ci
stiamo proponendo, cioè quello di dare di nuovo preminenza al rapporto di
lavoro a tempo indeterminato, passa necessariamente per l’introduzione di norme
e regole che disincentivino all’utilizzo del lavoro temporaneo: occorrono,
quindi, disposizioni che rendano il ricorso alle forme provvisorie di contratto
meno redditizio rispetto all’ assunzione a tempo indeterminato.

A questo fine esistono già strumenti normativi, che sono destinati proprio a
fornire tale tipo di garanzia, cioè quella di proteggere il reddito di
lavoratori temporanei per i periodi in cui non vengono utilizzati.

Precari disoccupati come i braccianti disoccupati.

L’art. 32 della legge n.264 del 1949, relativa ai trattamenti di
disoccupazione, alla lettera a) si riferisce alla regolamentazione dei periodi
di disoccupazione dei lavoratori agricoli, cioè dei braccianti.

Esso testualmente recita:

“(L’obbligo dell’assicurazione contro la disoccupazione è esteso) ai
lavoratori agricoli che prestano abitualmente la loro opera retribuita alle
dipendenze di terzi, limitatamente alle categorie dei salariati fissi e dei
braccianti, anche se in via sussidiaria esercitino un’attività agricola in
proprio o siano retribuiti con compartecipazione sui prodotti. Per questa
categoria di lavoratori l’indennità di disoccupazione sarà erogata soltanto se
i lavoratori stessi non abbiano raggiunto, nell’annata, un minimo di 180
giornate lavorative, comprese in esse quelle per attività esercitate in proprio
o retribuite con compartecipazione sui prodotti. La durata della corresponsione
della indennità di disoccupazione sarà uguale alla differenza fra il numero 220
e il numero delle giornate di lavoro effettivamente prestate.”

Abbiamo riportato il testo di legge, che è quella che viene ancora applicata a
questa categoria di lavoratori agricoli, perché ci sembra che nella suo dettato
si possano riconoscere pienamente le caratteristiche anche di tutte le altre
categorie di lavoro precario che si sono sviluppate in questi anni.

Essa infatti si riferisce alla tutela delle attività agricole stagionali, che
si svolgono per periodi determinati di tempo nell’arco dell’anno. È quindi
intuitivo il parallelo con le attività a cui dovrebbe essere rivolto il lavoro
temporaneo anche degli altri settori: attività ben determinate e delimitate,
che richiedono quindi assunzioni solo per un periodo di tempo.

Il problema da risolvere è proprio, invece, la degenerazione del contratto a
tempo, diventato strumento normale di assunzione anche per attività
continuative e non temporanee o legate a fattori contingenti.

È proprio questo ricorso non giustificabile dalla natura dell’attività a dover
essere penalizzato e così scoraggiato, per poter ottenere di sicuro il
risultato voluto, cioè una diminuzione sostanziosa del precariato.

L’applicazione di questa norma al più ampio spettro dei contratti di lavoro
somministrato, a progetto ecc., ovviamente con i dovuti adattamenti le diverse
loro peculiarità ed ai diversi settori produttivi, produrrebbe numerosi
benefici, sia dal punto di vista dei lavoratori interessati, ma anche da quello
delle aziende e delle amministrazioni:

–       al minimo, i datori di lavoro sarebbero indotti ad utilizzare questi
lavoratori almeno per sei mesi all’anno e ciò sarebbe già un bel passo in
avanti rispetto alla tutela del reddito;

–       i datori di lavoro sarebbero comunque disincentivati a lasciare “a
casa” i lavoratori per troppo tempo, in quanto il periodo di non utilizzo
avrebbe un costo legato all’assicurazione obbligatoria, sarebbe quindi una
perdita improduttiva;

–       essi verrebbero scoraggiati dall’assumere, come fanno ora, con una
sorta di turn-over, alternando diversi lavoratori per attività continuative,
tre mesi uno, tre mesi l’altro, perché sarebbero costretti ad accollarsi la
contribuzione assicurativa per coloro che non vengono utilizzati;

–       il prolungamento progressivo dei tempi di lavoro, a sua volta,
produrrebbe un sempre maggiore inserimento dei lavoratori nei diversi cicli
produttivi, rendendoli sempre più “organici” e funzionali ad essi, rendendo
così ulteriormente difficoltosa e antieconomica la loro estromissione;

–       i datori di lavoro sarebbero spinti ad utilizzare i contratti
temporanei solo per le fasi di ingresso e di formazione, periodi in cui il
lavoratore sarebbe comunque improduttivo.

Le contribuzioni dei datori di lavoro ai fini dell’assicurazione obbligatoria
per la disoccupazione dovrebbero essere, naturalmente, accumulate presso un
fondo da costituire all’INPS.

Le contribuzioni assicurative dovrebbero essere parametrate, da una parte su
una adeguata percentuale del fatturato delle aziende, dall’altra sulla
rilevazione dei dati circa il ricorso al lavoro temporaneo delle aziende
stesse.

In altre parole, più il datore di lavoro ricorre a contratti a tempo
determinato in un periodo definito di tempo (cioè più lavoratori assume con
tale tipo di contratto in un certo arco di mesi) più aumenterebbe l’obbligo di
contribuzione rapportata al fatturato conseguito nel periodo ed al numero di
unità lavorativa temporaneamente impiegate.

Al contrario, se il datore di lavoro assumesse con contratti a tempo
indeterminato, gli spetterebbe meno contribuzione per l’assicurazione per
disoccupazione dei lavoratori temporanei.

Com’è intuibile, una tale normativa, naturalmente, dovrebbe accompagnarsi
indissolubilmente con strumenti di controllo ed ispezione tali da impedire
disapplicazioni o peggio truffe, come spesso è accaduto nel settore agricolo,
dove latifondisti e “caporali” hanno coinvolto i braccianti, ricattandoli con
guadagni facili ma illegittimi, facendoli figurare come disoccupati per poter
intascare e spartirsi le indennità erogate dall’INPS.

Leggi nate dalle lotte e dalla solidarietà di classe.

Le norme che abbiamo citato sono nate dalle lotte dei braccianti agricoli nel
sud dell’immediato dopoguerra, lotte guidate da quel Giuseppe Di Vittorio che
affondava le radici della propria iniziativa politica e sindacale nella vita e
nei disagi quotidiani del proletariato contadino del meridione.

Quelle battaglie non hanno vinto non solo perché sono state condotte con
decisione e durezza dai braccianti stessi, ma anche perché erano sostenute
anche da tutto il mondo dei salariati di vario genere ed estrazione.

Quelle lotte si sono sviluppate in tempi in cui niente poteva darsi per
acquisito ed in cui tutto era da conquistare.

Anche oggi ci troviamo in questa situazione: non ci si può aspettare nessuna
concessione da parte di chi ha creato, coltivato e sviluppato per molti anni la
flessibilità per allineare i rapporti di lavoro alle compatibilità liberiste e
della globalizzazione.

Anche se, come abbiamo detto, le argomentazioni in favore di un ripensamento
su questa flessibilità prendono sempre più piede, siamo convinti che la loro
innegabile ragionevolezza troverà sempre un ostacolo molto difficile da
superare in quelle persistenti compatibilità.

Anche ai tempi di Di Vittorio quelle conquiste potevano apparire un’utopia, un
obiettivo irraggiungibile, eppure la forza, la solidarietà di milioni di
persone, accumunate da un unico scopo, hanno costruito quel risultato.

È quello che vorremmo contribuire a ricostruire oggi, in qualche modo facendo
rivivere l’esperienza entusiasmante e lo spirito di quelle lotte: lotte
imperniate attorno al recupero materiale di reddito ed alla tutela del salario,
con obiettivi concreti e direttamente percepibili, tali da riunificare anche
forze disgregate come sono quelle che costituiscono il lavoro precario,
fortemente indebolite proprio perché spezzettate in molteplici settori lontani
anche fisicamente l’uno dall’altro.

Vorremmo a partire da queste rivendicazioni, ricostruire le basi per una
rappresentanza politica e sindacale del blocco sociale a cui ci vogliamo
riferire, composto da categorie oggi totalmente indifese ed esposte alle
minacce del capitalismo iper liberista.

E quindi anche in questa sede ci rivolgiamo a tutte le forze che si
ripropongono di ricostruire l’ aggregazione del blocco sociale di riferimento;
con queste nostre indicazioni, proponiamo la necessità di porci obiettivi non
meramente ideologici, difficili da far vivere e comprendere nel quadro attuale,
ma che si riferiscano a scopi riconoscibili e distintamente dichiarabili da
tutti coloro che lottano per essi.

ROMA, IL 10/11/10
COBAS INPDAP

Ettore Davoli

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