Dopo una settimana di fermo produttivo, ritorna il lavoro a Monfalcone nel più grande cantiere navale d’Italia di proprietà di Fincantieri con oltre 5000 dipendenti tra lavoratori diretti e quelli dell’indotto navalmeccanico.
Il fermo dovuto ad un intervento del Nucleo Operativo Ecologico dei Carabinieri di Udine su mandato della magistratura goriziana, che dal 2013 indaga sulle irregolarità dello smaltimento di gestione dei rifiuti di lavorazione dell’allestimento delle navi all’interno dello stabilimento monfalconese, ha messo alla luce lo scontro tra poteri: quello della magistratura locale e quello confindustriale (l’ad di Fincantieri Giuseppe Bono è anche presidente regionale di Confindustria del FVG). La vicenda del blocco produttivo è paradigmatica della lotta intestina in corso tra i vari settori borghesia capitalista. L’azienda dall’inizio ha subito richiesto un intervento normativo che il governo ha concesso in tempi rapidi, inoltre ha denunciato a suo dire l’accanimento della magistratura contro una struttura produttiva, arrivando ad affermare per bocca dell’ad Bono che Fincantieri non si farà intimidire da nessuno…
Il presidente Nazionale di Confindustria Squinzi in visita al cantiere di Monfalcone riguardo il blocco imposto dai Noe è arrivato a rincarare la dose e dalle pagine del quotidiano locale Il Piccolo ha sostenuto: “Non vorrei commentare perché sarei spiacevole. La questione non esiste. È il solito discorso della “manina” antiimpresa, in questo caso parlerei di “manona”. Fermare uno stabilimento di queste dimensioni per delle procedure di tipo burocratico mi sembra assurdo”.
Tuttavia nelle parole di Bono e Squinzi c’è una parte di verità, ovvero il tipo di provvedimento richiesto dalla magistratura appare sproporzionato, se il contendere è lo stoccaggio di materiali di lavorazione come tubi, cavi, moquette e pitture, mentre altresì è del tutto enfatizzato il richiamo al supposto accanimento giudiziario, visti i venti anni passati tra le prime denunce relative all’utilizzo dell’amianto in cantiere e l’inizio dei processi ai dirigenti dell’allora Italcantieri e non da ultimo i casi di caporalato che hanno lambito ambienti aziendali e coinvolto diverse imprese dell’indotto sul conto delle quali Fincantieri continua a sostenere di non sapere nulla, in tutto ciò, non mancano le ripetute denunce dei sindacati di polizia sulla presenza tra queste imprese di persone coinvolte a vario grado con le organizzazioni criminali e mafiose.
Insomma lo scontro c’è, ma l’entità del quale è al momento è solo ipotizzabile, ma non ancora del tutto delineato. La drammatizzazione degli eventi orchestrata da Fincantieri è il prodotto di una linea aziendale che intende assumere nuovi ed ulteriori spazi di discrezionalità, oltre le norme vigenti, nel gestire il sistema produttivo e l’organizzazione del lavoro, che punta non solo al massimo ribasso con buste paga – se ancora si possono chiamare così -, che per certi comparti dell’indotto a maggioranza composto da immigrati provenenti dal Bangladesh, arrivano poco oltre ai 3 Euro l’ora, ma allo stesso tempo ha l’obiettivo di una terziarizzazione di segmenti produttivi ora gestiti con personale diretto.
A ben guardare il blocco produttivo ha prodotto un primo successo politico per Fincantieri, passata anche per il sostegno della stampa locale, da inquisita a inquisitrice, che ha fatto pesare i numeri dalla sua parte: i 5000 addetti e il lavoro garantito fino al 2026. I numeri hanno il loro peso non c’è dubbio, ma se così è ciò che manca è proprio la politica, l’assenza di un ragionamento su cosa sia oggi Fincantieri e in particolare il cantiere di Monfalcone. L’azienda ha fatto la sua parte secondo i suoi interessi padronali, purtroppo il fermo è un’occasione mancata per gli enti locali, in primis il comune di Monfalcone, che anche questa volta si è appiattito sulle necessità dell’azienda, allo stesso modo è così per i sindacati metalmeccanici confederali i quali non sembrano in grado di cogliere l’accaduto per rimodulare la loro vertenza integrativa con Fincantieri, rivendicando non solo il rispetto delle norme, sia quelle ambientali sia quelle sociali, ma la necessità di ridurre e cancellare le attuali sperequazioni salariali presenti in cantiere tra diretti e indotto, tra italiani e stranieri, rigettando la contro piattaforma aziendale che punta alla deregolamentazione di diritti e tutele nella cantieristica italiana, iniziando da subito a fare ridiventare uomini in carne ed ossa i 5000 addetti protagonisti principali di una lotta d’emancipazione del lavoro e non numeri e pedine usate dall’azienda per i propri esclusivi interessi.