Adesso che la notizia della morte (almeno quella ufficiale, su perfetta dettatura al passo coi tempi borsistici) è acclarata, credo si possa e si debba fare un bilancio di quello che è stata la sua azione al di là dei processi di santificazione in atto. Chi ha avuto l’opportunità anche solo di seguire le sue interviste, che hanno attraversato a reti unificate i palinsesti televisivi e giornalistici in questi giorni, si è reso conto che il suo unico valore (anche onesto nella sua crudezza) era il business, il mercato, la globalizzazione capitalistica e che, ad essi, era utile sacrificare ogni libertà sociale ed anche individuale. Un vero e proprio paradigma con cui riscaldare gli animi spenti degli uomini e donne “senza qualità” che, in modi contraddittori, osannano e, al tempo stesso, subiscono il governo della modernità globalizzata. Marchionne ha sempre seguito la linea filo-governativa della Fiat sin dai tempi del nonno dell’Avvocato, secondo l’assioma di “socializzare le perdite e privatizzare i profitti”. Dopo essersi appropriato di qualsiasi tipo di finanziamento pubblico ha trasferito la sede legale e fiscale all’estero, lasciando in Italia stabilimenti vuoti dopo aver prospettato un “progetto Italia”, usato come leva di ricatto per vincere il referendum a Pomigliano d’Arco e Mirafiori, grazie alla complicità dei sindacati confederali e al forte sostegno di tutto il vertice del PD, nazionale e locale, da Veltroni a D’Alema (Renzi non era ancora arrivato), da Fassino a Chiamparino. Un passaggio fondamentale nell’azzeramento dei diritti e della forza dei lavoratori in Italia, fungendo da apripista al Jobs Act Renziano.
Il “modello Marchionne” ha costituito le basi per l’attacco definitivo al contratto di lavoro nazionale, condito con caratteri coercitivi e repressivi, come le minacce di licenziamento ai militanti comunisti e sindacali così come ai dipendenti in malattia, i turni massacranti, le pause praticamente azzerate (coi dipendenti di fatto obbligati a urinarsi addosso) e poi i reparti confino, i riposi forzati e la cassa integrazione.
La dottrina Fiat ha sempre violato i diritti e le libertà fondamentali nei confronti dei propri dipendenti. Sin dai tempi di Valletta (quando l’Avvocato giocava ancora a fare il play-boy) è sempre stata negata l’agibilità ai comunisti, la libertà di iscriversi al sindacato (quando era ancora conflittuale e di classe), di scioperare, di dire come la si pensava sui modelli e metodi di produzione, sulla possibilità di avere idee in conflitto con quelle della proprietà e delle gerarchie aziendali. A tutti i livelli della Fiat “fare carriera” era possibile solo dimostrando fedeltà da suddito verso chi comanda. La logica del “ruffian”, un piemontesismo che spiega bene come l’unico “merito” che vigeva in Fiat, e oggi in Fca, sia quello del servilismo verso i vertici. Chi protestava e protesta è sempre stato accomunato ai malati, agli invalidi, a tutti quelli che sono stati definiti non sufficientemente produttivi. A tutti costoro la Fiat ha saputo dispensare punizioni, emarginazione, e licenziamenti. Sin dagli anni ’50 per arrivare all’ottobre 1980, esser licenziati dalla Fiat ha sempre significato la cancellazione della possibilità di ottenere qualsiasi altro posto di lavoro. Si finiva nelle liste nere di quelli da non assumere mai più in nessun altro luogo di lavoro. E chi non veniva licenziato finiva nei “reparti confino”. Luoghi della fabbrica con attività e scopi sostanzialmente inventati, la cui unica vera missione era quella di tenere assieme coloro che l’azienda voleva emarginare, ma che, ancora, non poteva licenziare.
Un tassello di storia rappresentato negli anni ’50 appunto dall’ Officina Stella Rossa, col nome stesso con cui gli operai comunisti la apostrofarono e che, alla fine, fu chiusa con il licenziamento totale di tutte le maestranze.
Negli anni ’80, dopo la “lotta dei 35 giorni” e la “marcia dei 40mila” furono adottate le Unità Produttive Accessorie -UPA- dove furono appunto confinati i malati e gli attivisti politici e sindacali non consoni ai dettami dall’azienda, guidata all’epoca da Cesare Romiti. La stessa logica sotto la gestione di Sergio Marchionne per gli operai di Pomigliano, che si sono ritrovati nei reparti confino di Nola , con l’unica differenza di avere un nome non più italiano -World Class Logistic- è il termine ufficiale con cui si definivano quei reparti. A Pomigliano, come a Torino, l’azienda gioca duro contro gli operai ribelli, il conto finale è costituito da decine di suicidi. Marchionne ha costruito quella che si può definire una ‘linea’ concreta fino allo stremo, uno ‘stile nuovo’, come si sono affrettati a dichiarare in molti. Il tutto finalizzato al business, al profitto, alla produzione.
Incurante di ogni aspetto che non sia quello di accrescere gli utili, ridurre le spese, azzerare i costi “superflui”. Come diceva Marx: i capitalisti sono condannati, per così dire, a non mollare mai, devono andare avanti, devono raccogliere denaro per produrre profitto, devono investire denaro per produrre altro profitto e raccogliere altro denaro, e questo deve accadere anche quando il denaro è virtuale, anche quando si costruiscono gli imperi finanziari sui debiti, e alla fine si è incuranti degli uomini, dell’ambiente, dei valori e della morale, di tutto. Al di là di quanto abbia lavorato, e di quanto abbia guadagnato, Marchionne è stato ripagato infine con la sua stessa “valuta”: i vertici aziendali, con in testa la proprietà e l’alto management, hanno immediatamente provveduto ad “archiviare la pratica”, ossia a considerarlo morto prima che morisse (sarebbe avventato scommettere sulla data del decesso) in ossequio al valore dei titoli Fca, Ferrari ecc. Insomma, conta il business, conta il mercato. E Marchionne può diventarne solo un santo. Subito, perché il mercato è un inferno che non ammette ritardi e debolezze.