Pietro Secchia, un altro punto di vista nel PCI.

Pietro Secchia, un altro punto di vista nel PCI.

Nell’anniversario della sua nascita, uno scritto di Marco Rizzo.

Nel ricordare oggi la figura del grande comunista Pietro Secchia a centodieci anni dalla sua nascita, il mitico comandante Vineis, oltre naturalmente a invitare a leggere e studiare i numerosi scritti che ci ha lasciato, vorremmo ricordare che l’esperienza politica che stiamo vivendo arriva proprio da lì, da quel ceppo, da quel filone. Lo diciamo senza spocchia, consci dei nostri profondi limiti, avendo la piena percezione di esser “nani seduti sulle spalle di giganti”. Se andiamo a ritroso la nostra recente storia di Comunisti Sinistra Popolare, nell’intrapresa di iniziare ad essere il Partito Comunista in Italia, nasce nel 2009 , ma arriva direttamente dalla storia di Interstampa, dei Centri Culturali Marxisti e della cosiddetta corrente filosovietica del PCI di Armando Cossutta che, nel complesso incontro con quei prestigiosi dirigenti “secchiani” (Alberganti, Vaia, Bera ed altri) costituì negli anni ‘80 le fondamenta per tenere aperta la questione comunista in Italia (col tentativo poi fallito di Rifondazione e del Pdci).

E’ utile e necessario cercare di capire ed approfondire un ‘punto di vista’, quello di Pietro Secchia, diverso da quello di Togliatti e della maggioranza del gruppo dirigente del PCI del dopoguerra. Nelle nostre tesi congressuali : http://issuu.com/pc-agitprop/docs/documento_politico_congresso_csp-pc spieghiamo quale poteva esser una diversa strada del comunismo italiano. Ed è proprio a quella, all’originale opera di Pietro Secchia, che desideriamo diffondere e far conoscere nel solco degli insegnamenti di Antonio Gramsci (molto diverso da quello che ci hanno propinato sinora) che vorremmo usare come base di ragionamento storico e teorico per la nostra azione politica.

Iniziamo ricordando l’intervento di Marcello Graziosi, Pietro Secchia: Vita di un Rivoluzionario al convegno “LA RESISTENZA ACCUSA – Pietro Secchia antifascista, partigiano, comunista”, tenutosi a Torino il 16 aprile 2005, nonché la testimonianza diretta, veramente commovente, di un suo compagno di lotte, Giorgio Caralli, Come ho conosciuto Pietro Secchia allo stesso convegno.

Questi due interventi:

 (Graziosi) http://www.resistenze.org/sito/ma/di/se/050416ps/mdse5d21.htm

 e (Caralli)  http://www.resistenze.org/sito/ma/di/se/050416ps/mdse5f11.htm

ci restituiscono due cose fondamentali dell’attività di Pietro Secchia.

Il primo sintetizza molti degli aspetti teorici e politici coinvolti in tale attività, che attraversa tutta la storia del PCI, dagli anni della clandestinità, al periodo della Resistenza, e in ultimo il dopoguerra fino alla sua morte avvenuta nel 1973.

Il secondo ci dà uno spaccato di tutto quello che i suoi contemporanei vedevano e di cui può restare traccia solo di riflesso nei suoi scritti. Ricordiamo infatti che la gran parte delle polemiche che si sviluppavano dentro il partito potevano trasparire solo marginalmente, attraverso episodi più o meno emblematici, a causa del costante stato di accerchiamento in cui il PCI operò prima durante e dopo la guerra e della disciplina che, da vero comunista, Secchia sempre si impose, perfino dopo la sua estromissione avvenuta nel 1954, non a caso dopo la morte del compagno Stalin.

Quindi quelle “sfumature”, quegli “accenti” diversi devono essere letti con molta attenzione e valutandone tutto l’impatto che essi avevano dentro il partito.

Tre sono i punti che vogliamo qui evidenziare: 1) la svolta di Salerno, 2) il significato di “democrazia progressiva”, 3) la concezione del partito,

La svolta di Salerno

Quando Togliatti nel 1944 aprì ai badogliani nel governo costituitosi nella zona liberata d’Italia, ancora tutto il nord doveva essere liberato e lì la lotta contro il nazifascismo era combattuta da comunisti (per la maggior parte), socialisti e azionisti, nonché da formazioni cattoliche. Quindi in questa situazione gli equilibri politici del sud erano del tutto lontani.

Ricorda Secchia:

«Anche dopo la “svolta” di Napoli e di Salerno, se più grande fu lo sforzo unitario, non venne mai meno la nostra attenzione sulla direzione da imprimere al movimento, all’obiettivo: lotta per una democrazia progressiva. Valga per tutte la posizione che assumemmo per fare dei CLN degli organismi rappresentativi delle masse e degli organi di potere, ed ancora alla vigilia dell’insurrezione (ne parleremo più avanti), il 10 aprile 1945, con la famosa direttiva n. 16. Guai se in quei giorni ci fossimo lasciati invischiare dal feticismo dell’unità e se per timore di urtare questo o quest’altro personaggio o gruppo politico avessimo capitolato di fronte a coloro che manovravano per impedire l’insurrezione!

Infine non risponde a verità l’affermazione fatta da diverse parti che noi dopo la “svolta” di Napoli, per le esigenze della lotta unitaria, accantonammo le istanze sindacali, le rivendicazioni economiche e sociali.

Non accantonammo mai la lotta di classe, gli scioperi si susseguirono sino all’ultimo. Certo vi era un interesse generale della nazione col quale dovevano essere coordinati gli interessi particolari, ma noi comunisti non ritenemmo mai che gli interessi della classe operaia fossero in contrasto con quelli nazionali. Al contrario, la lotta di classe potenziava la lotta di liberazione nazionale. Riuscimmo a fare accettare dal CLNAI il principio, ma soprattutto la pratica, dei grandi scioperi e dello sciopero generale! Sempre dall’inizio alla fine della guerra la Resistenza italiana fu caratterizzata dall’intrecciarsi della lotta armata con le lotte di massa. Tutti gli scioperi politici organizzati durante la Resistenza partivano ed avevano come base delle rivendicazioni economiche, sociali. La lotta era indirizzata contro i nazifascisti e contro i grandi industriali collaborazionisti. Le direttive in tal senso erano chiare ed esplicite.»

Da queste parole appare chiaro che non si subordinò alla “ragion di stato” l’attività insurrezionale di massa, anzi si rafforzò il ruolo del CLN come base del contropotere in quel momento e soprattutto nella prospettiva successiva alla fine della guerra.

Questa dicotomia, sopita fin tanto che l’Italia era divisa in due, esplose successivamente alla fine della guerra, quando il PCI iniziò a perdere le posizioni di contropotere nei luoghi di lavoro e nella società che aveva acquisito, puntando tutto sul rispetto della legalità costituzionale anche dopo la sua espulsione dal governo De Gasperi.

Giorgio Bocca, nella sua biografia di Togliatti, riporta un episodio indicativo, testimoniatogli dallo stesso Secchia, nel contesto della dura opposizione organizzata dallo stesso al Senato contro la legge-truffa. Alle insistenze di quest’ultimo sulla necessità di accelerare ed approfondire la battaglia politica, Togliatti avrebbe risposto: “Già, e poi che facciamo, la rivoluzione?”. “No, – avrebbe controbattuto Secchia – non facciamo la rivoluzione. Ma se ascoltiamo te non facciamo mai niente”.

Queste parole certamente risuonavano come un atto di grave insubordinazione che infatti da lì a breve Secchia pagò pesantemente con l’estromissione dalla Segreteria e con un’umiliante documento di autocritica assolutamente spropositato rispetto alle accuse rivoltegli in merito a un caso di malversazione di un suo collaboratore, atto rimasto oscuro ancora oggi.

La democrazia progressiva

Ciò ci introduce all’altro tema su cui Secchia camminò sul filo del rasoio, quello della democrazia progressiva.

I resistenti comunisti sapevano che la lotta non doveva fermarsi alla caduta del fascismo, ma doveva continuare nella direzione del socialismo in Italia. Quali erano però le strade da percorrere per arrivare a questo traguardo nessuno poteva saperlo. Persino nei paesi che erano stati liberati dall’Armata Rossa non si pose subito l’obiettivo del socialismo, ma si crearono dei governi di coalizione di partiti patriottici in cui i partiti comunisti e operai partecipavano. Questi partiti uscivano da una dittatura tremenda e ancora dovevano guadagnare la stima e la direzione, l’egemonia diremmo gramscianamente, sulla politica nazionale. Naturalmente da questa parte della Cortina di Ferro la situazione era molto più complicata, data la presenza delle truppe anglo-americane che assunsero già nel 1945 un atteggiamento fortemente anticomunista. Anche dopo la loro partenza i vecchi centri di potere fascisti che erano subito stati restaurati e la sovversione USA contro le libere scelte del popolo italiano condizionarono la politica del PCI. A maggior ragione in Italia, sebbene il PCI avesse aumentato straordinariamente la sua forza e la sua influenza, non si poneva all’ordine del giorno la rottura insurrezionale, ma invece l’accumulazione di forze sempre più vaste di consenso e di costruzione del contropotere popolare in fabbrica e nella società, basato sulla struttura dei vecchi CLN. In questo senso la parola d’ordine “democrazia progressiva” era pienamente giustificata se a tale termine si attribuiva il senso già detto di accumulazione delle forze e transizione verso una situazione rivoluzionaria.

Le condizioni ci sarebbero state tutte. Moltissimi resistenti non vollero sapere di cedere le armi e anzi le nascosero, ma sarebbero stati molti di più se la politica del PCI gliel’avesse richiesto. Non è vero che il sud avrebbe costituito una specie di Vandea reazionaria che avrebbe spaccato il Paese in due, come le vittorie elettorali in Sicilia del 1947 e i vasti movimenti di occupazione delle terre in tutto il sud testimoniavano. Il sistema di potere burocratico fascista e prefascista era stato spazzato via, ma invece ritorno in pochissimo tempo senza significative resistenze (ricordiamo in proposito l’assalto alla Prefettura di Milano condotta da Paietta alla notizia della destituzione del prefetto partigiano, fermata e sconfessata dallo stesso Togliatti), anzi con la famosa amnistia che cancellò i crimini fascisti e aprì le porte ai resistenti combattenti.

Invece la “democrazia progressiva” fu interpretata da Togliatti solo in senso legalitario, disarmando ideologicamente e organizzativamente il contropotere popolare e puntando tutto sull’alleanza tra i partiti popolari non sui i ceti e le classi che essi rappresentavano, cercando di spaccare questi partiti – a cominciare dalla DC dopo il 1948 e poi il PSI dopo il centrosinistra – e non ad acquisire alle proprie lotte i ceti e le classi che essi rappresentavano. Questo errore di visione strategica, questa concezione dello stato repubblicano nato dalla resistenza come di uno stato che non era né del proletariato né della borghesia, solo perché c’era un pezzo di carta che si chiama Costituzione su cui c’era la firma di comunisti, fu la base dei successivi disastri.

In questo quindi Secchia aveva le idee chiare come dimostra nella sua Relazione sulla situazione italiana presentata a Mosca nel dicembre del 1947

«Il pericolo della situazione italiana sta nel fatto che le forze conservatrici e reazionarie con alla testa De Gasperi e la DC non adottano la tattica della lotta frontale, ma quella del carciofo, strappano una foglia oggi ed una foglia domani, ci tolgono oggi un diritto, domani una posizione, dopodomani attuano un’altra misura reazionaria e di passo in passo insensibilmente siamo portati a cedere terreno ed a trovarci in posizione sempre più critica. Il pericolo sta nel fatto di non apprezzare appieno il valore delle posizioni che di volta in volta si perdono, di ragionare all’incirca in questo modo: “non vale la pena di impegnare una grande battaglia per una questione che non è fondamentale e che può compromettere tutto, vedremo poi”. E cosi di posizione in posizione, che considerate ad una ad una possono non essere di grande importanza, si finisce poi, nel complesso, col perdere le posizioni decisive. Un regime clericale, allo stesso modo di quello fascista, non lo si realizza di colpo. Oggi la situazione italiana è tale che a mio modo di vedere possiamo ancora prendere l’offensiva, vi sono le forze per farlo e se il nemico cercasse di sbarrarci la strada con la violenza, malgrado le misure che con l’aiuto dell’imperialismo americano già ha preso, tuttavia noi disponiamo ancora di un potenziale di forza tale che saremmo in grado di spezzare ogni loro violenza e di portare i lavoratori italiani al successo decisivo.

Per contro ho il timore che, malgrado il gran numero di nostri iscritti al partito e ai sindacati, le posizioni nei comuni, nelle province, in Parlamento, la larga influenza che abbiamo, ecc. se non ci impegniamo con decisione, se il governo De Gasperi dovesse consolidarsi, si creerebbe per noi una situazione sempre più difficile, una situazione di cedimento e di ritirata tale che ci porterebbe via via a perdere tutto e ad aver perso tutto, a trovarci in un regime diverso, di tipo reazionario, senza neppure avere dato battaglia.»

Purtroppo in Italia questa battaglia non si fece. Nonostante il Cominform, nato proprio nel 1947 per riorganizzare l’attività dei Partiti comunisti nel mondo, avesse bollato l’attività del PCI come “attendista e irresoluta”, persino il momento preinsurrezionale provocato dall’attentato a Togliatti fu lasciato passare “senza neppure aver dato battaglia”.

La concezione del partito

Anche nella concezione del partito Pietro Secchia camminò su un crinale delicatissimo. La sua commemorazione alla morte del compagno Stalin, La più grande eredità di Stalin: il Partito comunista, è una pagina di alta formazione ideologica.

«…la forza del partito comunista sta in primo luogo nel fatto che esso è composto in grande maggioranza da operai, che esso è il partito della classe operaia…»

«Il compagno Stalin ha caratterizzato con particolare chiarezza e profondità le particolarità del partito di tipo nuovo: “Il partito dev’essere prima di tutto il reparto di avanguardia della classe operaia. Il partito deve assorbire tutti i migliori elementi della classe operaia, la loro esperienza, il loro spirito rivoluzionario, la loro devozione sconfinata alla causa del proletariato”.»

Questo brano è davvero straordinario. Mentre il concetto di partito di tipo nuovo diventava sinonimo di partito di massa e non più di quadri, Secchia fa di tutto per dare a questo termine un significato di tipo completamente opposto. Il partito di tipo nuovo è un partito che non perde la sua natura di essere il reparto di avanguardia del proletariato, quindi di quadri, ma si radica nelle masse e allarga i propri ranghi, diventando sempre più forte, quindi partito di massa, in questa accezione che tutti capiamo oggi quanto sia distante dal partito in cui le cellule vengono sostituite dalle sezioni, i militanti dagli iscritti e i quadri operai dagli intellettuali piccolo-borghesi, così come si fece in un solo colpo nel fatidico anno 1956 all’VIII Congresso.

Sono tanti anche gli altri episodi che si potrebbero citare del particolare non allineamento di Secchia, dal tentativo di non rompere il campo socialista dopo lo strappo Mosca-Pechino, alla massima attenzione che egli sempre rivolse al mondo dei giovani, mai demonizzandoli, ma stando sempre attento alle loro domande anche se spesso negli ultimi tempi queste erano in rotta di collisione col suo partito.

Non possiamo infine non ricordare l’ultimo suo atto politico. Il suo viaggio in Cile nel 1973 quando consigliò al presidente Allende di armare il popolo per affrontare la sovversione imperialista. Allende non lo ascoltò e pagò lui con la vita e con anni e anni di dittatura tremenda il suo paese. Secchia al ritorno fu colpito da un oscuro male che lo portò alla morte.

In conclusione la figura di Pietro Secchia racchiude in sé tutti i tormenti che i comunisti italiani hanno attraversato nella loro storia. Un militante e dirigente sempre disciplinato, al limite della rottura, figlio di una grande epoca di rivoluzionari da cui non possiamo fare altro che imparare, con modestia e determinazione. In tal senso ci permettiamo di suggerire , tra le innumerevoli opere di Secchia, questi testi che , sempre grazie all’opera dei compagni di Resistenze, possiamo ora divulgare tra tutti i compagni, a partire dalle nuove generazioni che si dovranno far guidare da  questi lucidi insegnamenti:

La biografia di Pietro Secchia 1903-1973

http://www.resistenze.org/sito/ma/di/cp/mdcpbiog.htm

L’arte dell’organizzazione

http://www.resistenze.org/sito/ma/di/cp/mdcp6d07.htm

La più grande eredità di Stalin: il Partito comunista

http://www.resistenze.org/sito/ma/di/cp/mdcpdb28-012363.htm

I giovani della fondazione del P.C.I. alla Resistenza

http://www.resistenze.org/sito/te/cu/st/custca21-010342.htm

Discorso al Senato della Repubblica sul Comandante Moranino

http://www.resistenze.org/sito/ma/di/cp/mdcpbf18-009235.htm

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