La posizione del Partito Comunista per il Referendum Regionale lombardo del 22 Ottobre sull’autonomia è netta: astensione.
Astensione perché tutte le rivendicazioni a sostegno del referendum portate dalle forze politiche che lo promuovono, oltre a fondarsi su una retorica sterile e di bassissima caratura, non avrebbero le gambe per camminare da sole.
Astensione perché la partecipazione, anche solo per votare no, a questo tipo di referendum, legittimerebbe di fatto un dibattito e uno stato delle cose che non hanno ragione di esistere.
Per noi Comunisti, l’autonomia di governo locale e la riorganizzazione dello Stato centrale non sono feticci da preservare. Al contrario, le strutture amministrative, specie nel nostro paese, denunciano quotidianamente un bisogno estremo di rimodulazione, che tuttavia, entro i canoni del sistema economico sul quale sono state calibrate, sarebbe inutile oltreché impossibile. Lo stesso dibattito, seppur in un contesto differente, si sviluppò all’interno del PCI negli anni della Costituente: riguardo alle autonomie locali, la preoccupazione principale era quella di non replicare le strutture amministrative del fascismo, sebbene esistesse una preferenza di fondo per una certa de-centralizzazione. Tuttavia, la considerazione strategica fece prevalere la preferenza per una forma accentrata di potere amministrativo, nella convinzione (giusta) che un PCI forte avrebbe costituito un bastione contro le derive fascistoidi (prima) e capitaliste (poi) che inevitabilmente si sarebbero presentate, per compiere il traghettamento verso una società di unità di classe (lavoratrice), e non di capitali.
Proviamo a ragionare. Se la Lombardia, o il Veneto, chiedessero e ottenessero dallo Stato Centrale maggiori autonomie per quanto riguarda le materie elencate al comma 3 dell’art 117 Cost. ad esse sarebbero automaticamente trasferiti anche i vincoli che restringono la capacità di manovra dell’autorità centrale per quel che riguarda la capacità e la possibilità di spesa e ripartizione delle risorse. Il cavallo di battaglia degli ‘autonomisti’, incredibilmente non tiene in conto le limitazioni che già oggi vengono imposte dal Patto di Stabilità e Crescita. O, più probabilmente, lo tengono in conto ma stanno giocando in cattiva, cattivissima fede. E’ fortemente dubbio che le risorse addizionali che la Lombardia otterrebbe verrebbero impiegate per l’edilizia scolastica fatiscente, per il miglioramento delle condizioni lavorative e dei livelli di servizio nella sanità pubblica, per il lancio di un grande piano di edilizia residenziale pubblica, per la ristrutturazione profonda del tessuto industriale lombardo e per la bonifica ambientale di una regione, come la Lombardia, massacrata da decenni di speculazioni economiche condotte a danno del suolo e dell’acqua.
Pur essendo la regione più ricca d’Italia, la Lombardia è la regione con uno dei più alti tassi di sperequazione sociale del paese. Il 6,4% della popolazione lombarda, secondo una stima prudenziale, vive in stato di severa deprivazione materiale. Tra i giovani di età compresa tra i 15 e i 29 anni, il 18,6% non studia e non lavora, e il tasso di occupazione tra i giovani 15-24 è in calo lento ma costante (vuol dire che aumenta la disoccupazione, anche quella nascosta dalle statistiche ufficiali).
Dal punto di vista finanziario, in Lombardia si concentra il 29,7% della ricchezza finanziaria italiana, per un ammontare di 267 miliardi di € (su quasi 900 miliardi di €, dati 2013). Nella sola Città Metropolitana di Milano, circa 71.000 famiglie detengono 148 miliardi di €. Se dovesse vincere il SI al referendum consultivo, si adotterebbero programmi politici finalizzati a redistribuire questa ricchezza la cui fonte principale sono le rendite finanziarie e immobiliari? O, al contrario, con questa nuova disponibilità finanziaria, i governi regionali avrebbero l’opportunità per esacerbare ancora di più il divario socio-economico adottando politiche collocate nel solco del liberismo capitalista e secondo i dettami del Patto di Stabilità e Crescita?
Il potere e, in questo caso, i soldi, vengono gestiti nell’interesse di chi è sufficientemente organizzato e coeso per poterlo fare. La favola della politica come gestore del bene collettivo, che agisce nell’interesse comune è, appunto, una bella favoletta, quando viene raccontata nelle nostre democrazie liberali rappresentative. La cruda realtà è che, oggi, ad essere organizzati sono i padroni, non i lavoratori, che riescono a coordinarsi non solo per mandare al potere i loro lacchè (e la Lega Nord, così come i neo-fascisti, sono oggi la classe politica che si sta accreditando sempre più verso questi poteri) ma anche per convincere i lavoratori di essere dalla stessa parte della barricata.
Ecco qual è il senso della nostra astensione: andare a votare, per esprimere un NO, legittimerebbe di fatto una struttura politica concepita per soddisfare e asservita agli interessi della classe padronale.
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