Lo scontro istituzionale sulla formazione del governo si è concluso ormai da settimane, e il nuovo governo targato Cinque Stelle – Lega si è insediato con il beneplacito del Presidente della Repubblica. Quella che segue è l’analisi del Partito Comunista sulle vicende delle ultime settimane, sul carattere del governo M5S-Lega e i compiti dei comunisti nella fase attuale.
COSA C’È DIETRO LA CRISI ISTITUZIONALE?
Di questa crisi istituzionale, creatasi dopo il rifiuto del Presidente della Repubblica Mattarella di nominare ministro dell’economia Paolo Savona, ciò che dovrebbe far riflettere non è tanto l’azione esercitata dal Capo dello Stato nel decretare un’esclusione dal punto di vista politico, quanto la giustificazione che, per bocca dello stesso Mattarella, è arrivata a sostegno di questa decisione.
Il rigetto della prima proposta dell’allora Presidente del Consiglio in pectore Giuseppe Conte è stata motivata con l’intento di evitare le fluttuazioni sui mercati finanziari, l’impennata dello spread, e di rassicurare i grandi investitori stranieri, insomma, il grande capitale, rendendo evidente ciò che i comunisti dicono da sempre: le scelte della politica sono fortemente piegate agli interessi dei settori economicamente dominanti. Sono più attuali che mai le parole che Lenin scriveva un secolo fa: “La potenza del Capitale è tutto, la Borsa è tutto. Il parlamento, le elezioni sono un gioco da marionette, di pupazzi”. Il Presidente della Repubblica ce ne ha dato una prova lampante.
Sarebbe un errore, però, ritenere che nello scontro in atto, che si è riflesso in Italia nella crisi istituzionale, ci siano attori più o meno vicini agli interessi delle classi popolari e dei lavoratori. Quello a cui abbiamo assistito in queste settimane è una prova di forza del tutto interna alla classe borghese, nella quale si consuma uno scontro fra settori con interessi economici differenti se non addirittura contrapposti, che si ripercuotono in differenti prospettive politiche rispetto al rapporto con i mercati internazionali e con gli attuali schieramenti imperialisti. La crisi economica ha accentuato le fratture esistenti nel campo borghese, in senso verticale tra la grande impresa, i monopoli internazionali e la piccola e media produzione nazionale e in senso orizzontale tra le diverse fazioni del grande capitale. La Lega e il Movimento 5 Stelle, seppur ancora timidamente, sono espressione di queste contraddizioni.
Comprendere lo sviluppo di questi processi nel contesto più generale della crisi economica e del mutamento degli equilibri internazionali è fondamentale per evitare l’errore di porsi semplicemente alla coda degli interessi di uno dei settori oggi in competizione.
L’attuale fase politica in Italia è caratterizzata dalla crisi di consenso di quelli che per anni sono stati i tradizionali partiti di riferimento delle classi dominanti. È questa la prima chiave di lettura per comprendere la natura del nuovo Governo targato M5S-Lega e lo scontro ancora in corso in seno alla borghesia italiana.
Le elezioni politiche dello scorso 4 marzo avevano fotografato un sentimento diffuso a livello di massa di sfiducia verso la classe politica “tradizionale”, responsabile dell’attacco ai diritti e del tradimento dei lavoratori. A farne le spese è stato principalmente il Partito Democratico e con esso tutte le forze di sinistra o percepite come tali, a prescindere dalle effettive responsabilità politiche (che comunque nella gran parte dei casi erano presenti). A prevalere, invece, è stato il voto di protesta, che premia le forze percepite come “alternative” allo stato attuale delle cose. Su questa base elettorale, quella di un voto contro l’establishment e la politica, poggia l’illusione del governo “del cambiamento”, legato alla percezione di novità di queste forze politiche, abilmente alimentata dalla retorica politica degli annunci roboanti di Di Maio sulla nascita della “Terza Repubblica”.
Se per anni il Partito Democratico è stato il principale partito di governo, e per questo il principale riferimento per le grandi imprese, per il grande capitale italiano ed europeo, oggi diventano forze egemoni del panorama istituzionale due forze politiche che in questi anni hanno costruito il proprio consenso in modo interclassista nei settori popolari e tra il ceto medio, modellando, però, le principali proposte politiche sulle parole d’ordine della piccola e media borghesia schiacciata dalla crisi e trascinando i settori popolari alla coda di questi interessi. Il consenso che questi partiti sono riusciti a intercettare tra i settori popolari emerge incontrovertibilmente dalla distribuzione territoriale del voto, con una differenza enorme – ad esempio – fra le periferie, i quartieri popolari e le aree benestanti. Questo dato si è fatto ancora più evidente nel caso della Lega, nell’ultima tornata elettorale amministrativa del 10 giugno. Ma di per sé questo non indica un cambiamento radicale nell’indirizzo politico del paese.
UN PROGRAMMA DI GOVERNO ANTIPOPOLARE
Dal “contratto” stipulato tra il Movimento 5 Stelle e la Lega, base programmatica per la formazione del governo, oltre ad essere elemento di privatizzazione della politica anche nelle forme, si evince chiaramente quale è e sarà l’indirizzo di queste forze politiche nei confronti dei lavoratori, delle loro tutele e dei loro diritti. È proprio sui temi sociali che si evidenzia il carattere inevitabilmente antipopolare di questi partiti.
Sul tema del lavoro, ad esempio, non si parla mai di abolizione del Jobs Act, e non è un caso se la Confindustria si sia mossa chiedendo a gran voce che non venissero toccate le misure del governo Renzi. Le timide dichiarazioni di Di Maio, che non è andato oltre una generica affermazione per cui il “Jobs Act va rivisto”, confermano questo indirizzo. Non si mette mai davvero in discussione il sistema di lavoro precario costruito in Italia a partire dal “Pacchetto Treu” e proseguito con la Legge Biagi; in compenso si spazia dalla reintroduzione dei voucher (o di una forma giuridica analoga) alla “riduzione del cuneo fiscale” per le imprese che assumono, slogan che per decenni si è tradotto nel semplice trasferimento di risorse dallo Stato alle imprese private, mentre la precarietà non solo non veniva eliminata in modo strutturale, ma al contrario cresceva sempre più. Misure analoghe furono approvate dal governo Renzi negli anni passati con il solo risultato che una volta terminati gli incentivi all’assunzione, per l’appunto gli sgravi fiscali, i lavoratori venivano licenziati. Quella che doveva essere una misura per incentivare l’occupazione si è tradotta nell’ennesima manovra di precarizzazione. Ulteriori alleggerimenti nella tassazione per le imprese erano poi presenti nelle ultime due finanziarie approvate con Renzi come Presidente del Consiglio. Insomma, la continuità con le politiche antipopolari degli ultimi decenni è in questo caso evidente.
Ben poco sul contrasto alla precarietà, mentre si rilancia la flat tax con aliquota doppia, una misura che comporterebbe la drastica riduzione delle tasse per i ricchi, ma non per i lavoratori. Salvini ha detto candidamente che è giusto che i più facoltosi paghino meno tasse, giustificando questa posizione con la classica favoletta del ricco che investe e fa girare l’economia. L’unico effetto della flat tax sarebbe, al contrario, l’aumentare dei profitti per i pochi che continuano ad arricchirsi andando a penalizzare tutti i settori popolari colpiti dai tagli ai servizi o dall’aumento ventilato dell’IVA, tassa sul consumo che non avendo carattere di proporzionalità colpisce con più forza le fasce economicamente più deboli. Una riforma liberista, esattamente come il reddito di cittadinanza, manovra macroeconomica di sostegno alla domanda che servirà a incentivare il consumo, consentire nuovo deficit e mantenere tollerabile proprio quella situazione di precarietà e insicurezza lavorativa creata dalle riforme sul lavoro di questi anni. Una misura da cui i primi a trarre giovamento saranno i padroni (non a caso la stessa Confindustria ha dato più volte pareri positivi su una manovra di questo tipo), che vedranno una crescita dei loro profitti grazie ai maggiori consumi e potranno continuare a imporre una competizione al ribasso su salari e diritti.
Non si parla del diritto alla casa e di come garantirlo a tutti, ma in compenso si parla di velocizzare le procedure di sgombero degli immobili occupati. Nulla sulle delocalizzazioni che stanno trasformando l’Italia in un deserto di fabbriche chiuse lasciando migliaia di lavoratori per strada, ma in compenso si propone di istituire un Ministero del Turismo per valorizzare il patrimonio culturale senza spiegare con quali deleghe e quali politiche (mentre risulta chiaro che il patrimonio produttivo viene trasferito all’estero dai grandi capitalisti). Anche sulla scuola, mascherata da critica alle “inefficienze” e ai malfunzionamenti delle riforme del precedente governo, si ritrova nel “contratto” una sostanziale continuità con le politiche di asservimento dell’istruzione agli interessi delle imprese, non si parla mai esplicitamente di abolizione della Buona Scuola o dell’alternanza scuola lavoro ed anzi, Conte ha dichiarato apertamente che non vi saranno stravolgimenti per quanto riguarda la scuola italiana.
Insomma, dal punto di vista degli attacchi al mondo del lavoro la prospettiva delle forze “populiste” è in piena continuità con le manovre poste in essere da tutti i governi precedenti. Queste posizioni riflettono l’unità della borghesia in quanto classe che ritrova una totale comunanza d’interessi nelle manovre di abbattimento del costo del lavoro nella propria lotta per la massimizzazione dei profitti. Ad accompagnare tutto questo, le derive reazionarie, se non apertamente autoritarie, che già si profilano sui temi della “sicurezza”, dell’immigrazione e persino dei diritti civili, con un ministro che afferma di voler contrastare ideologicamente il diritto all’aborto e le unioni civili.
LO SCONTRO IN SENO ALLA BORGHESIA E LE FRIZIONI FRA UE, BRICS e USA
Le principali divergenze rispetto ai governi precedenti riguardano gli ambiti in cui la crisi economica ha prodotto (o accentuato) in seno alla borghesia fratture e contraddizioni di cui Lega e Cinque Stelle sono espressione. Questi contrasti non si concretizzano unicamente tra piccola e media impresa con i monopoli internazionali: esiste una divisione interna ai principali settori del grande capitale stesso, tanto in Italia quanto a livello europeo, che si riflette tra le altre cose nella scelta delle alleanze internazionali.
A fronte di gruppi dominanti che restano saldamente ancorati alla prospettiva del mercato comune europeo e della fedeltà all’Alleanza Atlantica, esistono settori che oggi vedono come vantaggiosa la prospettiva della cooperazione dell’Italia con la Russia, la Cina, e più in generale con l’area dei c.d. paesi “Brics”. Del resto, la “linea dura” promossa dal presidente USA Donald Trump contro la Russia e l’Iran colpisce in primo luogo gli interessi di una parte del capitale europeo, che a causa delle sanzioni contro questi paesi rischia di vedersi costretto a rinunciare a incassi miliardari. È proprio a causa di questi interessi, non del tutto coincidenti con quelli dei grandi monopoli USA, che nel capitale italiano ed europeo lo scontro verte sempre più sui temi del rapporto del mercato europeo, con Russia, Cina, Iran ecc. La recente apertura della Francia di Macron nei confronti della Russia è un sintomo evidente di questo processo come le parole pronunciate dal Presidente Conte durante il discorso per la fiducia in cui si ribadiva la “permanenza dell’Italia nella NATO con gli Stati Uniti come alleato privilegiato” ma si auspicava un riavvicinamento dell’Italia alla Russia e la volontà di una “revisione nel sistema delle sanzioni”. A queste parole non è poi tardata ad arrivare la risposta della cancelliera tedesca Angela Merkel e del segretario generale della NATO Jens Stoltenberg che hanno invece riaffermato che il regime delle sanzioni deve essere mantenuto.
In Italia, infatti, la bussola di alcuni settori della grande impresa oscilla sempre di più verso mercati diversi da quello USA, e non è un caso: l’Italia, ad esempio, è il primo partner commerciale dell’Iran in Europa con un volume di interscambio di 1,2 miliardi di euro all’anno e questo è un dato con cui ogni governo nei prossimi anni dovrà fare i conti. La posizioni di disallineamento dalle alleanze tradizionali è ancora minoritaria fra i settori dominanti del capitale italiano, ma avanza a gran velocità fra la media e piccola borghesia schiacciata dalla crisi, che in assenza di un movimento operaio capace di esprimere una posizione autonoma trascina con sé anche ampie fasce di proletariato.
Lo scontro nel grande capitale internazionale, però, è ben lontano dall’essersi assestato in uno confronto bipolare e anzi presenta elementi di frizione e instabilità interni alle alleanze imperialiste stesse, tra settori differenti in una stessa nazione e tra i monopoli sul piano internazionale. Anche all’interno del campo dello schieramento atlantico, infatti, esistono fratture sull’indirizzo economico e politico da perseguire. Se da un lato gli USA hanno bisogno di un’Europa unita nello scontro commerciale con gli altri principali attori economici non necessariamente sono avvantaggiati dalle politiche di austerità imposte da Bruxelles e dai rapporti di forza esistenti nel quadro dell’Unione Europea. Lo scontro tra i monopoli statunitensi e quelli tedeschi è sempre più forte e si è già manifestato in passato nell’arenarsi delle trattative del TTIP, mai andato in porto proprio per la contrarietà della Germania, a cui ha fatto seguito l’introduzione negli USA dei dazi doganali per l’acciaio e l’alluminio. Le politiche protezioniste USA hanno colpito tutti gli esportatori europei alle cui rimostranze Trump rispose con un tweet dai toni accesi: “L’Unione europea, Paesi meravigliosi che trattano gli Usa molto male sul commercio, si stanno lamentando delle tariffe su acciaio e alluminio. Se lasciano cadere le loro orribili barriere e tariffe su prodotti Usa in entrata, anche noi lasceremo cadere le nostre”.
La possibilità di una guerra commerciale tra USA e Unione Europea (con un ruolo di primo piano che sarebbe giocato da Germania e Francia), paventata pochi giorni fa anche dall’europarlamentare Guy Verhofstadt durante una seduta del Parlamento Europeo, produce una maggiore intransigenza delle classi dominanti europee rispetto a possibili disallineamenti, e contrariamente un interesse della borghesia USA verso la prospettiva di una UE che non sia completamente a trazione tedesca, contribuendo all’instabilità dei campi imperialisti a livello internazionale con riflessi nella dialettica politica interna ai diversi Stati. È sullo sfondo di questo scontro di portata internazionale, della competizione fra i grandi monopoli capitalisti dei diversi schieramenti, che si sviluppano le discussioni relative all’indirizzo che prenderanno i governi dei diversi paesi europei.
In questo quadro si può spiegare l’azione operata da Mattarella nel rifiuto di Savona come ministro dell’economia che, pur non essendo meccanicamente interpretabile – come tanti hanno fatto – come una ingerenza di uno Stato terzo nella politica italiana, è certamente espressione di una tensione internazionale realmente esistente ed ha rappresentato un elemento di compensazione tra gli interessi contrapposti della borghesia. Quello in campo infatti non è uno scontro tra realtà statuali (al cui interno sono rappresentati interessi di classe tra loro inconciliabili) quanto semmai il confronto degli interessi di differenti settori del capitale che utilizzano gli Stati per il perseguimento dei propri profitti, e non si tratta di certo di una novità.
In questo contesto gli appelli di carattere nazionalistico e “patriottico” diventano, nelle mani dei settori che ambiscono a svincolarsi dai legami univoci imposti dal sistema di alleanze atlantico, un’arma potente per la costruzione del consenso. Non è un caso che nel “contratto di governo” ricorra frequentemente lo slogan dell’interesse nazionale, né sono stati casuali i tentativi di strumentalizzare politicamente la giornata del 2 giugno, con gli appelli a manifestare e ad esporre il tricolore italiano. Gli slogan nazionalisti strizzano l’occhio agli interessi di una piccola e media impresa intenta ad invertire il proprio processo di proletarizzazione e che si sente schiacciata all’interno di un mercato comune che oltre ad asfissiarla con la concorrenza spietata dei grandi monopoli le impedisce di ampliare gli orizzonti commerciali per le proprie merci. Ma soprattutto, il nazionalismo diventa un arma per costruire il consenso fra i lavoratori, proiettando il sentimento di rivalsa verso “l’esterno”, celando la responsabilità della borghesia italiana nelle politiche di attacco ai diritti delle classi popolari.
Sarebbe un errore pensare che sia in atto uno scontro fra il neoliberismo e la sudditanza alla UE, da un lato, e la “sovranità” e l’interesse dei popoli dall’altro, così come intravedere nelle politiche di carattere protezionistico un recupero di “sovranità” a vantaggio delle classi popolari. È vero, al contrario, che politiche di questo tipo corrispondono agli interessi di una fetta del capitale italiano e alla volontà di questi settori di tutelarsi – questo sì – dalla concorrenza del capitale estero, ma solo per poter applicare più a fondo e con maggiori profitti una nuova stagione di politiche di rapina ai danni dei lavoratori.
IL RUOLO DEL GOVERNO M5S-LEGA RISPETTO ALLO SCONTRO IN SENO ALLA BORGHESIA
La politica, però, non può spingersi oltre quello che è l’effettivo livello di rottura dei vari settori del capitale. Il fatto che sul panorama politico si affaccino posizioni che sono espressione delle contraddizioni presenti nel campo borghese non significa automaticamente che queste contraddizioni siano pronte per scoppiare. Le posizioni definite “sovraniste”, seppur abbracciate da larghissime fasce della piccola e media produzione, possono esprimersi concretamente solo laddove incontrino il favore di importanti settori del grande capitale o laddove le contraddizioni internazionali si siano spinte a tal punto da far venir giù l’impianto istituzionale esistente, condizioni che il campo europeo e italiano ancora non presentano.
È all’interno di questo contesto che avviene un ammorbidimento delle posizioni più “radicali” di Movimento 5 Stelle e Lega, con innumerevoli dichiarazioni di conciliazione, spesso contraddittorie con le posizioni che quei partiti hanno sostenuto fino a poco tempo fa. L’espressione di una linea sempre più conciliatoria è progredita in crescendo, di pari passo con l’avvicinarsi della prospettiva concreta del governo. Sono stati evidenti i tentativi di rassicurare i poteri forti circa la capacità del nuovo governo di garantire gli interessi in ballo. Già in campagna elettorale, fu emblematico il modo in cui entrambe le forze hanno modificato, se non addirittura rinnegato, le loro precedenti posizioni “sovraniste” sull’Unione Europea, in favore di una linea più morbida che si guarda bene dal parlare di rottura con la UE e l’euro.
Nel già citato contratto di governo, ad esempio, sulla politica estera compaiono affermazioni morbide che, in proporzione, sono più di continuità che di svolta: “Si conferma l’appartenenza all’Alleanza atlantica, con gli Stati Uniti d’America quale alleato privilegiato, con una apertura alla Russia, da percepirsi non come una minaccia ma quale partner economico e commerciale potenzialmente sempre più rilevante. A tal proposito, è opportuno il ritiro delle sanzioni imposte alla Russia, da riabilitarsi come interlocutore strategico al fine della risoluzione delle crisi regionali (Siria, Libia, Yemen)”. Sarà interessante, ad esempio, capire come se la caverà il ministro Di Maio, firmatario in fase elettorale dell’ICAN Parliamentary Pledge (che sottoscrive e aderisce al trattato ONU di non proliferazione delle armi nucleari) con la sostituzione di decine di bombe nucleari in Italia con le nuovissime e ancor più distruttive B61-12.
Nel punto sull’Unione Europea, è scomparsa ormai da tempo la critica “sovranista” sostituita da enunciati sulla necessità di migliorare e riformare la UE, addirittura elogiando i trattati europei esistenti con affermazioni come “l’Italia chiederà la piena attuazione degli obiettivi stabiliti nel 1992 con il Trattato di Maastricht, confermati nel 2007 con il Trattato di Lisbona”. Per molti dei punti elencati nel programma, gli obiettivi politici vengono declinati nei termini dell’attività nelle sedi UE per promuovere gli interessi delle imprese italiane. Sull’agricoltura, ad esempio, si afferma che “È necessaria una nuova presenza del Governo italiano a Bruxelles per riformare la politica agricola comune (PAC)”.
Questo processo di riallineamento però non è bastato, e il governo M5S-Lega sembra aver suscitato comunque preoccupazioni. I settori dominati del capitale italiano e europeo che, volenti o nolenti, si vedono costretti ad avere come riferimento per la tutela dei loro interessi due partiti “diversi” (almeno in parte) da quelli che hanno governato negli ultimi anni. È a partire da questa preoccupazione che si spiega la pressione esercitata da gran parte dei mezzi di comunicazione, le dichiarazioni delle autorità europee sul carattere “populista” del nuovo governo, fino ad arrivare allo scontro con il Presidente della Repubblica in merito al veto posto su Paolo Savona come Ministro dell’Economia.
D’altra parte, il rifiuto nella nomina del ministro dell’economia da parte di Mattarella ha rischiato di tramutarsi in un vero e proprio passo falso e di trasformare una ipotetica nuova tornata elettorale in plebiscito per Lega e 5 Stelle.
In queste vicende si intravedono i sintomi evidenti di una fase di assestamento, in cui forze politiche che hanno fondato il loro consenso sul voto “di protesta”, e che hanno fatte proprie molte delle parole d’ordine proprie della media e piccola borghesia schiacciata dalla crisi, devono ancora entrare in totale sintonia con le volontà e le esigenze dei settori dominanti del grande capitale, i cui precedenti partiti di riferimento sono passati in secondo piano nella scena politica. Un assestamento che deve necessariamente arrivare in questa fase se non si mettono in discussione i paradigmi su cui si basa questo sistema, come accaduto in Grecia dove supino il governo Tsipras ha adottato tutte le misure antipopolari richieste, o tutt’al più, in un contesto europeo in mutamento, una frattura politica nell’eurozona porterebbe ad una ricomposizioni degli equilibri e delle alleanze internazionali lasciando inalterati i destini dei popoli.
I COMPITI DEI COMUNISTI IN ITALIA NELLA FASE ATTUALE
In questo quadro, è di fondamentale importanza la riflessione sul ruolo dei comunisti nella fase attuale. Diverse voci, anche a sinistra, sono finite a spezzare una lancia in favore del governo M5S-Lega, a partire proprio dall’idea che si tratti di un (potenziale?) governo di “rottura” e di un’opportunità di recupero di “sovranità” dell’Italia. Questa visione è profondamente errata, perché viziata dall’idea di fondo che esistano settori del grande capitale “migliori” (o “meno peggio”, che è lo stesso) di altri, che esista una borghesia “sovranista” più favorevole ai popoli, contrapposta a quella fautrice di un legame esclusivo e privilegiato con il mercato nordamericano ed europeo. Ma assumere questa posizione significa accettare che i lavoratori e le classi popolari siano trascinati alla coda degli interessi di questa o quella fazione del grande capitale, di questo o quello schieramento imperialista.
Allo stesso modo, sarebbe assolutamente fallimentare riproporre “fronti antifascisti”, come abbiamo sperimentato negli anni dell’anti-berlusconismo, legati alle forze di sinistra e centro-sinistra che in questi anni hanno governato portando avanti politiche di macelleria sociale. Il Partito Democratico è stato il principale riferimento politico del grande capitale italiano e internazionale negli ultimi anni, è un nemico di classe e la nostra lotta dovrà essere sempre diretta tanto nei confronti del nuovo governo quanto nei confronti di quelle forze politiche che fino a ieri hanno governato e che adesso cercano di rifarsi una verginità politica stando all’opposizione. Il modo migliore per contrastare l’avanzata delle forze reazionarie, specialmente nella fase attuale, è il radicamento dei comunisti nei luoghi di lavoro, nei quartieri popolari e di periferia, per costruire una reale alternativa di lotta. Fare opposizione al fianco di quel centro-sinistra che è stato fino a ieri responsabile delle peggiori politiche antipopolari è il più grande favore che oggi si possa fare alle forze reazionarie e di destra più o meno estrema.
Il compito dei comunisti, quindi, è quello di promuovere in ogni momento una politica autonoma della classe operaia e dei lavoratori, una visione politica indipendente da quella del nemico. Uno sviluppo della fase attuale in senso autoritario e reazionario non è una prospettiva irrealistica, nelle attuali condizioni che vedono i comunisti impreparati dinanzi agli eventi che, come la storia insegna, possono svilupparsi con brusche accelerazioni. Dalla nostra capacità di ricostruire l’unità della classe lavoratrice, di dare coscienza e organizzazione alla lotta delle classi popolari, di rompere la saldatura oggi esistente fra gli interessi di settori della borghesia e ampi strati popolari trascinati alla loro coda, dipenderà il futuro del nostro paese nei prossimi decenni. Renderci complici di questa saldatura sarebbe l’errore più grande che potremmo fare. Lavoriamo, quindi, ogni giorno al rafforzamento politico, ideologico e organizzativo del Partito Comunista per dotare i lavoratori di una forte organizzazione di classe che rappresenti, per dirla con Gramsci, quel campo autonomo e impenetrabile alle idee del nemico, che lotti in maniera indipendente per gli interessi dei lavoratori.
Sappiamo bene che oggi il sentimento diffuso nelle ampie fasce di elettorato che hanno votato il M5S e la Lega è quello di una generica fiducia che si esprimerà anche in un appoggio a questo governo. Il Partito Comunista non alimenterà illusioni. Non staremo a guardare, né perderemo tempo, porteremo nelle piazze e sui luoghi di lavoro la nostra analisi, smascherando tutti gli interessi che si celano dietro questo scontro politico. Metteremo fin da subito in campo le nostre forze contro il governo 5 Stelle – Lega, rivendicando l’autonomia della lotta della classe operaia e delle fasce popolari contro l’UE, la NATO. Lavorando instancabilmente nella costruzione di un’alternativa di classe che possa esprimere i reali interessi delle classi subalterne, che ponga il potere nelle mani dei lavoratori. Questa alternativa si chiama socialismo.