Articolo del segretario Marco Rizzo su CRITICA PROLETARIA, rivista teorica del PARTITO COMUNISTA.
Il Movimento Comunista Internazionale sta attraversando una fase di debolezza ideologica, politica e organizzativa, che mette in forte pericolo la sua capacità di guidare la crescente insofferenza delle masse popolari nei confronti del dominio del capitale, il conflitto di classe e la resistenza sociale alla ristrutturazione capitalistica verso uno sbocco rivoluzionario e socialista.
Gli ultimi Incontri Internazionali dei Partiti Comunisti e Operai (IMCWP) hanno evidenziato divergenze tra i Partiti, in merito non solo alla strategia e alla tattica della lotta per il socialismo-comunismo, ma anche alla storia del Movimento Comunista, che rischiano di travalicare i limiti del legittimo dibattito per trasformarsi in polemiche e vere e proprie divisioni. Il Movimento Comunista ha già conosciuto in passato questo problema. Queste divisioni si sono sempre tradotte in un indebolimento del Movimento Comunista e del fronte antimperialista, anche quando il Movimento era ben più forte di quanto non sia oggi.
Per queste ragioni, il nostro Partito ritiene indispensabile affrontare in tempo utile questo pericolo, individuandone le cause e cercando di trovare i mezzi per neutralizzarlo, prendendo lo spunto proprio dalle posizioni assunte a tal merito da alcuni Partiti Comunisti dopo il 15° IMCWP.
La temporanea vittoria (in termini storici) della controrivoluzione in URSS e la conseguente scomparsa del campo socialista ha rappresentato senz’altro il punto apicale del processo di indebolimento del Movimento Comunista. Il nostro Partito ha da tempo acquisito come questo avvenimento, di per sé tragicamente negativo, sia stato determinato dal fallimento del revisionismo di Khruschev e dei suoi successori, non dall’inadeguatezza del socialismo in quanto tale, come concepito originariamente in URSS da Lenin e Stalin. In altre parole, la controrivoluzione ha sconfitto non il socialismo, ma una sua degenerazione revisionista. Ciò ha fatto emergere alla luce del sole, analoghe e parallele mutazioni “genetiche”, snaturamenti di classe e processi degenerativi già in atto da tempo in alcuni Partiti Comunisti, accelerandone la trasformazione in soggetti politici di chiara matrice socialdemocratica o, in altri casi, addirittura lo scioglimento.
L’arretramento del Movimento Comunista, pertanto, non origina dalla scomparsa dell’URSS, ma si consuma con questa, essendo invece causato da quelle stesse deviazioni revisioniste, riformiste e opportuniste, già in atto al suo interno, che hanno portato alla controrivoluzione.
L’eurocomunismo, una delle peggiori forme di revisionismo del XX° secolo, anche se consegnato alla pattumiera della storia, ha lasciato comunque una pesante eredità: l’opportunismo di destra, che ha infettato, particolarmente ma non solo, proprio i partiti di quei paesi da cui originava: il PCF in Francia, il PCE in Spagna, PRC ed altri in Italia.
Questi partiti, insieme a SYRIZA (Grecia) e PDS (Germania), costituiscono la spina dorsale del Partito della Sinistra Europea (PSE). Rimossi i principi fondativi del marxismo-leninismo, cioè la ragione stessa dell’essere e chiamarsi Partito Comunista, gli opportunisti di destra che fanno parte del PSE hanno abbandonato addirittura qualsiasi annacquata prospettiva di superamento del capitalismo. Assimilati dal sistema, privi di autonomia teorica e di progetti di trasformazione radicale, si limitano a proporre riforme, limitate quanto utopiche, che di fatto propongono miglioramenti gestionali del sistema esistente con, al massimo, qualche strumento per mitigare l’impatto della crisi capitalistica sulla classe operaia e le masse popolari. In sostanza, curare i sintomi, non la malattia: un impossibile “capitalismo dal volto umano” con qualche “antidolorifico” per lenirne l’asserita “disumanità”. La tattica, ovviamente rigorosamente parlamentaristica, non può che passare attraverso la partecipazione, di larga minoranza, ai governi borghesi e alle coalizioni elettorali genericamente “di sinistra”, sotto l’egemonia della ben più forte socialdemocrazia; o anche con un grado di autonomia fittizia da un punto di vista delle coalizioni elettorali, che si sostanzia però sempre con una subalternità politica alla grande famiglia del socialismo riformista europeo.
La complicità del PSE con le politiche antioperaie e antipopolari dell’UE, il sostegno più volte fornito ai piani aggressivi dell’imperialismo europeo ai danni di Iraq, Libia, Siria e Ucraina attraverso il voto e le dichiarazioni del GUE, il suo braccio al Parlamento Europeo, la sua concezione stessa di riformabilità del capitalismo e non della necessità del suo abbattimento, rendono oggettivamente impossibile per un Partito Comunista serio qualsiasi forma di collaborazione e unità d’azione con il PSE e i partiti che ne fanno parte.
Per questo il nostro Partito condivide e sostiene pienamente la scelta del KKE di uscire dal GUE. Non si tratta di una posizione settaria e chiusa, come qualcuno ha voluto insinuare, bensì dell’esigenza di smarcarsi e differenziarsi da un gruppo parlamentare dominato dagli opportunisti di destra, per non rendersi complici del tradimento degli interessi di classe, perpetrato con l’avallo delle politiche antipopolari e imperialiste dell’UE.
Quanto diciamo a questo proposito non sottovaluta assolutamente l’esigenza di coniugare dialetticamente la difesa degli interessi quotidiani della classe operaia e dei lavoratori, la rivendicazione di obiettivi immediati, di breve o medio termine, con la prospettiva del rovesciamento rivoluzionario del capitalismo e dell’instaurazione di una società socialista. Riteniamo, al contrario, che ogni conquista strappata al capitalismo sul piano dei salari, dei servizi, dei diritti dei lavoratori, ma anche ogni espansione della democrazia, sia pure formale, oltre che rispondere ad esigenze vitali della classe operaia e del popolo, contribuisca a fare emergere nuove contraddizioni e a far progredire lo scontro di classe.
Siamo tuttavia coscienti del fatto che, in assenza di un rivolgimento rivoluzionario in direzione del socialismo, qualsiasi conquista in tal senso assume carattere di transitorietà, precarietà e volatilità, sempre ammesso che sia acquisibile nell’ambito di questo sistema.
Inoltre, un programma di breve termine, che fissi obiettivi in linea sia con i bisogni immediati della classe operaia che con la prospettiva rivoluzionaria, è lo strumento che permette di effettuare il primo passo per elevare il senso comune, gramscianamente inteso, a coscienza di classe, per trasformare il singolo operaio in un membro cosciente della classe operaia. Questo, tuttavia, non deve offuscare l’aspetto strategico a più lungo termine, rimuovendolo e sostituendosi ad esso. Il problema è duplice: occorre garantire che l’obiettivo immediato, raggiungibile nell’ambito di questo sistema, non finisca per prevalere sull’obiettivo finale, offuscandolo e rimuovendolo; occorre evitare una visione gradualistica, per tappe intermedie, del processo di transizione al socialismo che, negando l’aspetto traumatico, dirompente, della trasformazione rivoluzionaria, identifichi il processo di cambiamento con il semplice progressivo raggiungimento, ammesso che sia possibile, dei soli obiettivi minimi.
Nell’esperienza italiana dal dopoguerra in poi, entrambe queste precauzioni sono venute a mancare. Il concetto di “democrazia progressiva”, elaborato da Curiel e in parte da Togliatti, è stato nel tempo stravolto. In origine concepito come strumento per la creazione delle condizioni più favorevoli alla rivoluzione, è stato nel tempo trasformato in un obiettivo in sé, una presunta fase intermedia che avrebbe dovuto evolversi fino al superamento del capitalismo, introducendo progressivamente “elementi di socialismo” ed evitando la rottura rivoluzionaria con la vecchia società. La storia ha dimostrato l’infondatezza di tale concezione, confermando la validità della teoria marxista-leninista dello stato. Non solo l’Italia non si è avvicinata di un passo al socialismo, ma è diventata un paese profondamente autoritario e conservatore, dove il dominio del capitale è attuato senza mezzi termini, mentre quel suo Partito Comunista (irrimediabilmente minato dalla ‘mutazione genetica’ e dall’eurocomunismo), che proprio queste teorie propugnava, non esiste più.
In realtà, non ci sono stadi intermedi, né potranno mai esserci. Non esistono terze vie tra capitalismo e socialismo, o l’uno o l’altro. Ciò non significa che alcuni rapporti sociali ed elementi della vecchia società non sopravvivano all’interno della nuova, come avviene in qualsiasi formazione economico-sociale, ma sopravvivono in condizioni politiche diverse che li avviano all’estinzione: cessano, cioè, di essere dominanti. La diversità delle condizioni politiche consiste appunto nell’instaurazione della dittatura proletaria, cioè del dominio politico, assoluto e illimitato, della maggioranza degli sfruttati sulla minoranza di sfruttatori. Benché la trasformazione della proprietà privata in proprietà pubblica sia un momento fondamentale della transizione al socialismo, questa non sarà mai compiuta senza l’elemento politico della dittatura proletaria, con gli strumenti della pianificazione centralizzata e del controllo operaio e popolare che reca in sé. E’ proprio la questione della titolarità del potere politico che differenzia il capitalismo di stato dal socialismo.
Il capitalismo, sia pur nell’ambito delle leggi generali che ne regolano lo sviluppo, non è identico in ogni paese per grado di accumulazione, di concentrazione del capitale, di rapporto tra capitale finanziario e capitale industriale, per composizione di classe della società, per differenze nell’ordinamento giuridico, ecc. Diciamo, pertanto, che lo sviluppo diseguale è una delle leggi generali del capitalismo, quella che determina la diversità tra sistemi aventi lo stesso modo di produzione e, in un certo senso, determina anche la gerarchia piramidale tra questi. Allo stesso modo, le sue contraddizioni, generali e comuni, tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione, tra carattere sociale della produzione e appropriazione privata del prodotto, ecc., si manifestano con differente intensità e grado di maturazione in ciascun paese. Di conseguenza, ci rendiamo perfettamente conto che ogni Partito Comunista, partendo dall’analisi della situazione reale che si trova di fronte, deve adottare differenti tattiche di lotta che rispondano alle condizioni concrete in cui si trova ad operare. In questo senso, nessuno mette in discussione l’autonomia di ciascun Partito Comunista, né crede che vi siano ricette e modelli imitabili, esportabili o applicabili sempre e comunque.
Ciò che non è ammissibile per nessun Partito Comunista è la negazione della prevalenza del generale sul particolare, delle leggi generali dello sviluppo capitalistico, comuni a tutti i paesi, sulle particolarità nazionali di ciascun paese. Le prime attengono alla sostanza dei rapporti sociali reali, le seconde sono inerenti alla forma con cui questi si manifestano. Il ribaltamento di questa verità scientifica conduce all’errata conclusione che, poiché nei diversi paesi e nei diversi momenti storici le forme dello sfruttamento e della dittatura di classe si esplicano con modi e intensità diverse, esista un capitalismo “migliore” di altri e perciò emendabile con riforme e tattiche parlamentaristiche. Ciò risulta con estrema chiarezza nelle posizioni opportuniste di alcuni Partiti Comunisti che aderiscono al PSE, secondo cui il “capitalismo buono” è identificato con una “borghesia produttiva”, che fa della sua bandiera economica il keynesismo, mentre il “capitalismo cattivo” sarebbe rappresentato dal “capitalismo finanziario” che fa sue le teorie neo-liberiste, in particolare il monetarismo. Le teorie economiche citate sono forme particolari, storicamente determinate, di gestione del modo di produzione capitalistico e proprio il ribaltamento del pensiero marxista-leninista ha portato i partiti opportunisti all’errore fatale di considerarle preminenti nella determinazione della strategia: per loro è strategico passare da una forma all’altra, senza considerare l’aspetto sostanziale, cioè la necessità di superare il modo di produzione capitalistico in quanto tale, indipendentemente dalle forme in cui viene gestito, attraverso l’abbattimento del potere politico della borghesia. Questo è quanto accade quando il particolare viene fatto prevalere sul generale.
Per questo motivo, la rivendicazione dell’autonomia di questo o quel Partito Comunista in nome delle particolarità nazionali, oltretutto in un momento in cui nessuno, all’interno del Movimento Comunista, la mette in discussione, suscita in noi perplessa preoccupazione.
Rispondere stizzosamente ad eventuali critiche da parte di Partiti fratelli, emerse nel corso del legittimo dibattito interno al Movimento Comunista, trincerandosi dietro lo scudo dell’autonomia del partito e delle vie nazionali, è un comportamento preoccupante che ci riporta con la memoria agli anni dell’eurocomunismo, quando, sotto il pretesto di un’esasperata autonomia e originalità di pensiero, si smantellava la teoria rivoluzionaria, liquidandola come obsoleta o applicabile solo in condizioni immancabilmente diverse da quelle correnti, disarmando il Partito e privandolo, proprio in questo modo, della sua vera autonomia, quella ideologica e culturale nei confronti della borghesia. In realtà, l’autonomia che gli eurocomunisti perseguivano era soltanto tesa alla perpetuazione di quel gruppo dirigente revisionista e riformista che in Italia, comodamente insediatosi nelle istituzioni parlamentari borghesi, ha guidato il PCI per gli ultimi 20 anni della sua esistenza, portandolo alla dissoluzione.
In tal senso , all’interno del movimento comunista a livello internazionale, risultano incomprensibili alcune affermazioni di critica che vengono dal Portogallo (“rigettare le differenti forme di opportunismo – recusar as diferentes formas de opportunismo – sia alle espressioni di adattamento al sistema, sia nella loro variante dogmatica e settaria” (sic!).
Intanto le cosiddette espressioni di “adattamento” al sistema sono quelle che, ad esempio in Europa, hanno portato avanti il processo di snaturamento di classe, dall’eurocomunismo di ieri, al Partito della Sinistra Europea di Bertinotti e Tsipras oggi. Purtroppo con la loro ‘confusione teorica’ riescono ancora oggi ad ingannare settori di masse popolari che potrebbero esser ben diversamente orientate nella lotta contro il capitale.
Con questi opportunisti l’unico rapporto è quello della denuncia del loro carattere di collateralità al capitalismo. Ed è altrettanto chiaro che chi non ha né la capacità di analisi né il coraggio di scegliere in questa battaglia pone enormi interrogativi alla stessa causa comunista. “L’asino di Buridano” è un apologo attribuito al filosofo Giovanni Buridano: “Un asino affamato e assetato è accovacciato esattamente tra due mucchi di fieno con, vicino a ognuno, un secchio d’acqua, ma non c’è niente che lo determini ad andare da una parte piuttosto che dall’altra. Perciò, resta fermo e muore”. Questo è quello che potrà capitare ha chi non può o non vuole sceglier. Essere comunisti significa principalmente stare da una parte, dalla parte del lavoro e della classe operaia!
I recenti sviluppi della crisi capitalistica pongono al Movimento Comunista Internazionale serie questioni inerenti alla tattica. In Europa, in particolare, i Comunisti devono attuare un’accurata riflessione sulla propria politica di alleanze, sulla propria partecipazione alle istituzioni borghesi, europee e nazionali, sul coordinamento tra Partiti Comunisti e Operai con l’obiettivo di dare nuovo slancio e maggiore efficacia alla lotta contro l’UE e la NATO.
Sono tutte questioni che necessitano urgenti e ineludibili approfondimenti da parte di tutti noi. In questa sede, ci limiteremo solo ad alcune limitate considerazioni in proposito al terzo punto citato.
Il cosiddetto processo di integrazione europea, pur lasciando intatta la piramide gerarchica tra le diverse borghesie nazionali che gli hanno dato vita e confermando la legge dello sviluppo diseguale del capitalismo, ha comunque introdotto elementi di omogeneità tra i differenti sistemi nazionali, tali da richiedere una riconsiderazione del concetto di sovranità nazionale alla luce delle attuali condizioni reali. L’analisi del processo di integrazione nel conglomerato imperialista costituito dall’UE ci mostra come questo sia stato un fenomeno volontariamente, non coattivamente, posto in atto dalle borghesie nazionali dei paesi aderenti. Se questo è vero, allora non è esatto parlare di perdita di parti della sovranità nazionale. In realtà, le borghesie nazionali hanno centralizzato, non ceduto, alcune funzioni proprie dello stato nazionale, in organi sovranazionali quali la Commissione Europea, il Consiglio Europeo, ECOFIN, BCE, ecc.. Al di là di finalità puramente tecnico-gestionali, sostanzialmente questa centralizzazione è motivata da esigenze di concorrenza nell’ambito della più generale competizione inter-imperialistica, di creazione di un mercato interno più vasto di quelli nazionali e di attuazione di un più intenso sfruttamento e controllo politico di ciascuna classe operaia nazionale. Deve essere chiaro che ogni borghesia nazionale partecipa pro quota, a seconda della sua posizione nella piramide imperialista, alla spoliazione del lavoro salariato attuata con il processo d’integrazione, ma con uguale responsabilità nella creazione di tale meccanismo.
Avanzare la parola d’ordine del “ripristino della sovranità nazionale” a prescindere dal contenuto di classe che questa ha nelle date condizioni è, a nostro parere, un errore esiziale, in quanto tratta il problema astrattamente, da un punto di vista puramente formale, non tenendo conto della realtà storica, come se si trattasse di una questione di liberazione nazionale da un giogo coloniale. Abbiamo visto che non si tratta di questo, poiché la borghesia nazionale contribuisce e aderisce volontariamente al processo d’integrazione in quanto funzionale ai suoi interessi di classe nella data fase storica, mentre è negli interessi del proletariato non una semplice uscita dall’UE con il ripristino dello status quo precedente, cioè del dominio della borghesia nazionale, della valuta nazionale e di quant’altro, ma un’uscita rivoluzionaria dall’UE che abbia all’ordine del giorno l’instaurazione del potere operaio, cioè di un cambio radicale della classe dominante.
Sarebbe veramente assurdo e antistorico che il proletariato si battesse per la restaurazione di una forma di dominio borghese che la borghesia stessa ha volutamente abbandonato!
Ciò detto, sorge spontanea una domanda: se le borghesie nazionali stanno rafforzando il proprio complessivo dominio con la centralizzazione a Bruxelles di alcune funzioni in materia di politica militare-strategica, doganale, bancaria, di legislazione del lavoro, di previdenza sociale, ecc., perché il proletariato, nella sua più alta espressione organizzata, il Partito Comunista, non dovrebbe anch’esso centralizzare in un unico organo lo sforzo di omogeneizzazione politico-ideologica e di coordinamento della lotta di classe, almeno per quanto riguarda i problemi generali e comuni a tutti i paesi? Perché i Comunisti non dovrebbero organizzare una comune e coordinata risposta in termini di opposizione di classe a questa unica politica? Del resto, se nel 1943 il mutato contesto della lotta di classe a livello mondiale impose lo scioglimento della Terza Internazionale, le nuove condizioni della stessa nella fase attuale impongono l’adozione di forme di coordinamento centralizzato delle lotte e delle tattiche, sia pure in forme diverse e nella considerazione delle peculiarità della situazione in ciascun paese, ma almeno sulle questioni riconosciute come generali e comuni.
Siamo profondamente convinti che la fondazione dell’INIZIATIVA DEI PARTITI COMUNISTI ED OPERAI D’EUROPA sia il giusto passo in questa direzione e, per questo, vi abbiamo aderito con entusiasmo e motivazione. Si tratta di una ormai indispensabile forma di coordinamento tra partiti comunisti che, nei suoi motivi fondanti, esclude qualsiasi atteggiamento settario e di chiusura, ma pone un necessario discrimine tra prassi rivoluzionaria e opportunismo di qualsiasi tipo col fine, più che attuale, di arginare la diffusione di posizioni opportuniste, revisioniste e riformiste all’interno del Movimento Comunista Internazionale attraverso la creazione di un compatto polo di partiti comunisti autenticamente marxisti-leninisti, in grado di guidare con efficacia la controffensiva proletaria. Certamente, il suo funzionamento deve ancora migliorare, occorre perfezionarne i meccanismi di discussione e decisione, definire più precisamente quali porzioni di autonomia vengono centralizzate in esso, quali ne sono i poteri di vincolo verso ogni singolo partito, come attuarne efficacemente e in modo coordinato le decisioni, ma questo sarà possibile solo partecipandovi attivamente, non autoescludendosi in base alla rivendicazione di un’autonomia dei singoli partiti che, peraltro, non viene posta in discussione.
La borghesia in questa fase è vincente perché, pur a fronte di conflitti inter-imperialistici, sempre presenti a causa dello sviluppo diseguale del capitalismo, si schiera sul fronte della lotta di classe in modo sostanzialmente compatto e univoco, pur con approcci differenti nella forma a seconda dei diversi rapporti di forza in ogni singolo paese. Il proletariato, se vuole vincere, deve schierarsi in modo altrettanto coeso di fronte al nemico di classe.