Uno dei fondamenti del marxismo, ossia del socialismo scientifico, è la scoperta del fatto che: 1) sono i rapporti di produzione, ossia come gli uomini entrano in relazione tra di loro per produrre, che danno forma a tutte le manifestazioni della società; 2) la corretta interpretazione di tali rapporti, non solo consente di capire come quella società funziona, ma soprattutto quali sono le leve per cambiarla.
Compito dei comunisti è affermare questa acquisizione, applicarla nella pratica politica, farla diventare patrimonio quotidiano della classe che è chiamata ad attuare la rivoluzione: il proletariato, nel nostro caso il nuovo proletariato, costituito dalla classe operaia e dai nuovi ceti proletarizzati.
Trascurare, negare, camuffare, annacquare questa acquisizione è stato ed è il compito principale dei vassalli del capitale, (controrivoluzionari, finta sinistra e socialdemocratici) che tendono in vario modo a trasformare in altre teorie questo palese stravolgimento .
Se si deflette da questa affermazione, tutta la storia e l’azione del movimento operaio, dalla sua nascita a oggi ed in futuro, è messa in discussione.
La concezione materialistico-dialettica, che interpreta la storia come lotta di classe, la teoria del plusvalore, come base economica dei rapporti di produzione capitalistici, l’importanza cruciale dell’organizzazione autonoma politica e ideologica del proletariato; questi sono i tre cardini scoperti da Marx ed Engels, che sono costantemente attaccati dagli opportunisti e dai controrivoluzionari, spesso nascosti sotto mentite spoglie.
Il movimento comunista internazionale è riuscito a trasformare queste teorie in azione rivoluzionaria, a elaborarne con Lenin un’attualizzazione alla fase imperialistica del capitalismo, a definire compiutamente la teoria della stato borghese e dello strumento che può abbatterlo: il partito comunista di matrice leninista; a definire e attuare concretamente il percorso per la costruzione del socialismo nella reale situazione concreta con Stalin.
Ma questi enormi traguardi – oggi offuscati dalla temporanea (in tempi storici) battuta d’arresto che ha conosciuto il movimento comunista internazionale, causata dal revisionismo introdotto da Khrusciov fino alla dissoluzione dell’URSS realizzata da Gorbacev – non sarebbero stati raggiunti se la teoria rivoluzionaria non fosse stata corretta, ossia pienamente aderente al reale processo della storia.
Gli economisti borghesi si affrettarono subito a cercare di confutare, sin dal suo apparire, la teoria del plusvalore, perché si resero conto che tale teoria spazzava via in un sol colpo tutta la sovrastruttura ideologica (la truffa) con cui il potere borghese aveva minuziosamente e faticosamente coperto la società capitalistica. A loro si associarono i “filosofi” che cercarono di negare disperatamente l’enorme novità che nel pensiero umano ha costituito il materialismo scientifico. Quindi il terzetto è completato dai “politici”, che in nome di principi falsamente super partes, universali ed eterni, cercavano di affermare invece gli interessi quanto più miopi, gretti e caduchi la storia abbia mai visto.
Naturalmente un movimento comunista forte, autorevole e di successo aveva gioco facile a sbaragliare questi attacchi, perché dotato di una salda guida ideologica, basandosi sulle grandiose conquiste del socialismo.
Oggi questi attacchi concentrici si fanno più insidiosi, perché noi siamo più deboli ed il nemico si è fatto più forte, avendo imparato dalle cocenti sconfitte che aveva subito.
Quindi è di straordinaria importanza riprendere lo studio e l’affermazione delle basi scientifiche del marxismo, rintuzzando colpo su colpo questi attacchi, smascherandone la loro natura controrivoluzionaria.
Spesso, a causa della temporanea debolezza e divisione in cui il movimento comunista si trova in questa o quella situazione, i compagni posso essere presi dalla tentazione di sottovalutare questa battaglia al fine di aggregare più alleati contro il nemico principale. Talvolta sembra che non alimentare “polemiche dottrinarie” possa “allargare il fronte anticapitalista” e renderci più forti. Anche quest’atteggiamento è indotto dal nostro nemico di classe e va respinto con la massima fermezza.
Se il nemico ha dato fuoco alla nostra casa e noi abbiamo un idrante, ma qualcuno ci fa perdere tempo e ci vuol convincere che è meglio usare il secchiello, dobbiamo dapprima neutralizzare questo nemico interno, altrimenti il fuoco divamperà sempre più forte.
Affrontiamo con decisione la lotta ideologica senza paura di creare fratture, né credendo che la nostra influenza possa aumentare dissimulando le nostre idee. Noi dobbiamo ricomporre lo smembramento, anzi la polverizzazione ideologica e politica che si è creata nella classe operaia e tra la classe operaia e i suoi alleati naturali e non imbonire questo o quell’intellettuale borghese, questo capopopolo o quella teoria “nuovista”.
Nell’ultimo periodo l’influenza dei comunisti nel luoghi di lavoro è diminuita, e non poteva essere altrimenti perché essi hanno smarrito la loro ragion d’essere: portare al proletariato la sintesi dell’esperienza storica del movimento comunista e applicarne concretamente gli insegnamenti organizzando la classe sulle parole d’ordine rivoluzionarie. Questo è particolarmente vero nei momenti di acuta crisi economica che stiamo vivendo. Oggi, in cui ogni opzione riformista è azzerata, in cui le rivendicazioni sindacali sono solo (per bene che vada) di difesa o di parziale attenuazione dell’offensiva padronale, in cui i cosiddetti movimenti si ritrovano a brancolare senza una chiara strategia su come indirizzare le lotte, solo una chiara strategia rivoluzionaria scientifica può dare una speranza agli sfruttati e organizzarli con successo. Davanti a una fabbrica che sta chiudendo, a un call-center che sta delocalizzando, a un asilo che non potrà erogare più le sue prestazioni, a che serve nascondere la verità? A che serve tacere sul fatto che la crisi è del sistema e che IL CAPITALISMO NON È MALATO, E’ LA MALATTIA. Forse sulle prime sembreremo dei marziani, ma poi la forza della nostra analisi si imporrà soprattutto agli occhi di chi vive la crisi ogni giorno sulla propria pelle.
Non ci sono scorciatoie, non si può “condizionare” il potere della borghesia. E’ stato provato per troppi anni ed esse ormai hanno rivelato quello che sono: vicoli ciechi che portano alla disfatta. È tempo di riprendere il percorso che i grandi maestri del proletariato ci hanno indicato col loro pensiero e la loro opera.
Marx ci ha insegnato a dipanare il bandolo della matassa, da cui deriva tutto il resto: è dalla sua opera fondamentale, Il Capitale, che bisogna partire. Fulminante a questo proposito la celeberrima prefazione a “per la critica dell’economia politica” del 1859 in cui delinea in modo definitivo i rapporti tra sovrastruttura ideologico-giuridico-filosofica della società e la base economica. Tale chiarezza di propositi era ovviamente condivisa dal suo compagno d’arme, Engels, che costruì con lui questa enorme teoria; ma la ritroviamo anche in Gramsci.
Partiamo quindi dall’operaio/produttore perché in questo modo affrontiamo subito la stolta polemica che vuole sminuire o azzerare il ruolo di chi produce plusvalore.
Le teorie controrivoluzionarie in proposito si servono o di osservazioni estemporanee, viziate da provincialismo, di moda nei salotti, che non corrispondono alla verità (“gli operai non esistono più”); o anche, in modo più “dotto”, di teorie che – perdendo di vista intenzionalmente il luogo dove si produce il valore – estendono il rapporto produttivo a tutta la società (“siamo tutti produttori e consumatori”) e a tutti i momenti della vita umana (“produciamo e consumiamo ininterrottamente”). Questa confusione, questa sovrapposizione del momento della produzione e della distribuzione (e quindi del consumo), e soprattutto di chi e quanto produce e di chi e quanto consuma, è l’anticamera della giravolta degna di un prestigiatore che ci porta in un mondo che non esiste. Perché i controrivoluzionari e gli opportunisti cercano in tutti i modi di confondere i due momenti della produzione e della distribuzione? Perché questa confusione ci fa perdere in un sol colpo la visione corretta del capitalismo, del motivo irresolubile della sua crisi e di dove si trova la soluzione. Negare che il nuovo valore si crea al momento della produzione – anche se poi si “realizza” (si attua, chiude fruttuosamente il ciclo, che parte dal denaro e arriva al denaro) solo nella vendita – significa confondere le cause della crisi capitalista e minare alla base il ruolo che ha il proletariato.
Le teorie, come quelle che parlano di capitalismo-casinò, che pretendono che la crisi si origini da un eccesso di speculazione finanziaria per poi ripercuotersi sulla produzione di beni, non tengono conto del fatto che tutto deriva da un eccesso di capacità produttiva che non riesce a chiudere il ciclo con la vendita ossia con la “realizzazione” del valore. Come potrebbe mai essere un eccesso di ricchezza la causa della crisi? In realtà sono i limiti fisici di assorbibilità del mercato che inceppano il sistema di riproduzione allargata del capitale. Se il capitalismo potesse agire in modo stazionario, senza avere la necessità di valorizzare sempre di più il capitale, ossia di accrescerlo incessantemente, il sistema – come preconizzano i teorici borghesi dell’equilibrio – non andrebbe incontro alle crisi ricorrenti e oggi sempre più profonde. Ma noi non dobbiamo inventarci nulla, Marx ed Engels avevano già scritto tutto quello che si doveva già nel 1850.
“La speculazione di regola si presenta nei periodi in cui la sovrapproduzione è in pieno corso. Essa offre alla sovrapproduzione momentanei canali di sbocco, e proprio per questo accelera lo scoppio della crisi e ne aumenta la virulenza. La crisi stessa scoppia dapprima nel campo della speculazione e solo successivamente passa a quello della produzione. Non la sovrapproduzione, ma la sovraspeculazione, che a sua volta è solo un sintomo della sovrapproduzione, appare perciò agli occhi dell’osservatore superficiale come causa della crisi. Il successivo dissesto della produzione non appare come conseguenza necessaria della sua stessa precedente esuberanza, ma come semplice contraccolpo del crollo della speculazione.” K. Marx e F. Engels, «Neue Rheinische Zeitung. Politish-ökonomische Revue», V-VI fascicolo, maggio-ottobre 1850, in Marx-Engels, Opere complete, vol. X, p. 501
Nella visione distorta invece il ruolo della sovrastruttura, ossia dello stato e della macchina repressiva, è ridotto a una comparsa, a un mero simulacro. Mentre non si vede quello che è sotto gli occhi di tutti, che il potere borghese cioè si basa non solo su una “società militare”, ma anche e soprattutto qui nelle società borghesi avanzate (l’“Occidente”di Gramsci) da una “società civile” che costituisce una fetta della popolazione e rappresenta il baluardo più solido del potere capitalistico.
Altre teorie al contrario negano addirittura che esista più un sistema economico finalizzato alla produzione di plusvalore, ma che invece il ruolo sociale fondamentale sia svolto dalla sovrastruttura e che quindi lo scontro avvenga esclusivamente sul terreno politico-istituzionale, perdendo di vista la necessità di aggregare i lavoratori e le classi popolari su parole d’ordine e rivendicazioni che le mobilitino concretamente. Da qui teorie su “superimperialismi” che negano i conflitti interimperialistici in via di acutizzazione a cui stiamo assistendo, o che si adagino su agitazioni che prendono di mira la “casta” senza saper e voler vedere cosa e chi c’è dietro. Anche qui si finisce per creare paradossalmente una vera e propria marmellata interclassista.
Variante di questa visione consiste nel ricondurre lo scontro a livello tra stati borghesi, e quindi tra capitalismi che si articolano nelle varie nazioni, a nozioni di “potenze”, che assomigliano più ai carrarmatini colorati sulla mappa del mondo di un gioco di società, che a reali interessi che coinvolgono milioni e milioni di persone. Il gioco si trasforma inevitabilmente in “tifo” calcistico e quindi – una volta fatta la scelta della propria squadra – da lì deriva strategia, tattica, valutazioni “geopolitiche”, “geostrategiche”, qualunque cosa ciò possa significare.
Naturalmente il potere borghese è ben felice di vedere il proletariato che è indotto a baloccarsi con questi diversivi, anche perché il risultato è quello di assoggettare ideologicamente a questa o a quella borghesia le forze antimperialiste che si lasciano traviare. Non partire dalla natura di classe di un governo, non partire da un’analisi di classe di una intera società porta solo a disastri strategici.
In particolare noi che siamo immersi nel Mediterraneo che sta diventando sempre più una linea di frattura sismica tra gli imperialismi in competizione, siamo esposti a errori di valutazione gravissimi. La vicenda mediorientale è emblematica.
Non capendo il ruolo svolto in diversi gradi di aggressività dagli imperialismi in gioco, si passa da un appoggio incondizionato e scriteriato a tutto ciò che si agita all’interno di una società, anche se poi questi si dimostrano canaglie al soldo dell’imperialismo come i cosiddetti ribelli libici o siriani, oppure ad un tifo acritico per tutto che sembra non esser in linea con l’Atlantismo. L’esempio della guerra di Siria è davvero emblematico. I comunisti non possono scambiare il malessere che ha pervaso quella società, che certamente non è una società socialista come la intendiamo noi, per una rivoluzione proletaria; né d’altro lato il semplice appoggio militare della Russia si può pensare che venga dato per fini internazionalisti da quel paese. L’esperienza della vicenda libica dovrebbe pur insegnare qualcosa, quando russi e cinesi trovarono convenente scaricare la resistenza antimperialista di Gheddafi e del suo popolo. Anche qui ascoltare chi si trova giornalmente in contatto con la realtà siriana e condivide le lotte di quel popolo, come il nostro partito fratello dei comunisti siriani, sarebbe di gran lunga utile: opposizione politica del governo di Assad fin tanto che l’aggressione imperialistica interna ed esterna non diventa concreta, assolutamente al fianco di chi difende la propria nazione appena l’aggressione imperialista si manifesta. E ciò significa oggi essere concretamente a fianco del legittimo governo e dell’esercito siriano, per sviluppare domani la scelta comunista.
In questo ambito hanno proliferato vecchie teorie che hanno preso il nome di rossobrunismo, facendo riferimento a una squallida operazione propagandistica che ebbe vita breve sotto il nazismo nota come il nome di “nazionalbolscevismo”. Leggendo le opere dei nostri compagni che si trovarono in quegli anni a subire le controrivoluzioni (“le rivoluzioni passive”) in Italia e in Germania – e ci riferiamo ancora una volta a Gramsci e a Kurtz Grossweiler – l’enorme macchina repressiva che queste nazioni dovettero mettere in campo passò anche dalla destrutturazione ideologica oltre che politica delle organizzazioni autonome del proletariato: si doveva dare una forma al movimento di massa reazionario che “assomigliasse” a ciò a cui si contrapponeva e che si desiderava smantellare. Da qui alcuni richiami a nozioni di “popolo”, di “nazione”, di “terra”, ma talvolta anche di “cultura” se non di “sangue”, che hanno una caratteristica in comune: sono tutte nozioni interclassiste nella forma in cui vengono articolate, ossia si crea la già citata marmellata interclassista in cui saremmo tutti uniti.
Occorre precisare con forza che questo eclettismo è l’esatto contrario di ciò che furono i Fronti popolari antifascisti e la politica delle alleanze sociali che il nostro partito oggi propone. Infatti nei fronti popolari che si realizzarono in Europa e in Asia la cosa fondamentale era la presenza e il ruolo guida del Partito comunista, che diventa motore e protagonista, si legittima quindi come principale e più coerente forza antimperialista e accumula le forze perché, sconfitto l’imperialismo aggressore, si riprenda la lotta di classe contro la propria borghesia con maggiore lena e possibilità di vittoria di prima, ben sapendo che i momentanei alleati, domani divenuti avversari, cercheranno di fare lo stesso. Quindi mai l’organizzazione autonoma del proletariato viene “sciolta”, mai si cessano le proprie parole d’ordine e persino i propri metodi di organizzazione militare e sociale.
È ancora più difficile pensare di entrare in questa “coalizione” in modo utile per il proletariato e non in modo subordinato se si mettono da parte le ragioni storiche che fanno del proletariato la guida della riscossa di tutti gli oppressi, come oggi si assiste occasionalmente.
Non è un caso quindi che ci sia una costante, torbida, spesso negata, ma più spesso sottaciuta continuità e contiguità tra un ampio ‘range’ di posizioni che vanno da quelle esplicitamente fasciste o naziste, che si rifanno esplicitamente alla Repubblica di Salò, od anche posizioni che pur rinnegando anche vivacemente quel riferimento, ne covano sotto la cenere i fondamenti.
Siamo abbastanza maturi per non confondere il comunismo con Vladimir Luxuria né tanto meno con le Pussy Riot (come una certa sinistra radicale), ma questo non significa che non capiamo che dietro a certe letture critiche delle esperienze di sinistra appaiano chiavi di lettura ed ideologie assai torbide. PER I COMUNISTI L’ANTIFASCISMO RISULTA ESSER COSTITUTIVO, resta sempre valida la definizione del fascismo data dalla Terza Internazionale con Dimitrov, che evidenziò il carattere di classe del “fascismo, che resta , nella sua funzione storica, un movimento reazionario, il cui carattere di massa è a sua volta reazione all’esigenza della borghesia di attingere a livello di massa per preservare il suo dominio”.
Buona parte dei punti programmatici dello stesso nazismo ai primordi costituivano un semplice appello demagogico diretto alle classi subalterne. Il programma ufficiale del partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi del 1920 esigeva: al punto 11, l’eliminazione dei redditi non derivanti da lavoro, al punto 12, la nazionalizzazione dei monopoli, al punto 14, l’abolizione dei fitti fondiari e della speculazione terriera ,al punto 18, chiedeva la pena di morte per gli usurai e i profittatori. Queste richieste erano state inserite per far credere realmente nel “socialismo del nazionalsocialismo” ma erano idee mai attuate, che divennero in seguito imbarazzanti per Hitler, e restarono naturalmente lettera morta non appena i denari dei grandi industriali e dei latifondisti cominciarono ad affluire nelle casse del partito. Un partito che doveva permettere a Strasser, Feder e Rohm (i primi capi del nazionalsocialismo assieme ad Hitler) di adescare le masse con parole d’ordine socialisteggianti mentre la realtà dall’altro lato era quella di esser subalterni al grande capitale ed indurre coloro che disponevano di ampi mezzi a finanziare il partito nazista. Non è un caso se tutti questi rapporti avvennero avvolti da un’estrema segretezza, con risvolti addirittura comici come quando, nel 1930, alcuni capi nazisti presentarono al Reichstag non ancora nazificato un progetto di legge concernente l’espropriazione delle proprietà azionarie dei magnati delle banche e della borsa valori nonchè la nazionalizzazione delle grandi banche. Hitler inorridì ricordando che quello era solamente “bolscevismo” e quindi perentoriamente ordinò al partito di ritirare la proposta. I comunisti, ancora presenti in Parlamento, presentarono parola per parola la medesima proposta, e Hitler ingiunse al suo partito di votare contro.
Tutti i propagandisti del Terzo Reich, da Hitler ai suoi seguaci, non mancavano mai, nei loro discorsi in pubblico, di scagliarsi contro il capitalismo, dichiarando la loro solidarietà con i lavoratori, ma qualunque statistica ufficiale rivelava che erano i tanto attaccati capitalisti, e non certo i lavoratori, a trarre i benefici dalla politica nazista.
Le stesse cose si possono dire per il fascismo, la cui matrice è rivoluzionaria e sociale solo a parole. Mussolini perde fin dall’inizio la sua carica socialisteggiante per attenersi pedissequamente ai voleri dei grandi latifondisti, degli industriali e del Vaticano e quand’anche alla fine della sua parabola, con la Repubblica Sociale Italiana, cerca di inserire il tema della socializzazione dimostra subito che questa è una bandiera di pura propaganda che urta immediatamente con la freddezza nazista per qualunque misura avente un pur vago sentore filo bolscevico. Ed anche qui il rapporto tra Mussolini il capo del fascismo italiano ed il suo vero padrone in Italia l’Obergruppenfhurer Wolff , si tradusse in una commedia degli equivoci o per meglio dire in un gioco delle parti, dove tanto più Mussolini sbraitava sulla socializzazione (come nell’ultimo discorso al teatro Lirico a Milano) tanto più i suoi padroni nazisti deludevano le sue attese.
Vi sono altre teorie (che determinano anche l’adesione di persone animate da sentimenti di passione politica e di disponibilità al cambiamento) che si rifanno a concetti di recupero della “sovranità nazionale” o anche della “sovranità popolare”, naturalmente tutti passando dalla “sovranità monetaria”, senza specificare bene cosa essa sia e quindi risultano di fatto strampalate ed inconcludenti. Queste posizioni si contraddicono con semplicissime domande. Recupero della “sovranità nazionale”? Ma l’Italia quando l’ha persa, o meglio quando l’ha mai avuta stretta com’era dagli obblighi della Nato e degli Usa? La borghesia monopolistica italiana ha perso la sovranità (questa volta senza virgolette) che essa esercita sulla società entrando nel conglomerato imperialista UE, o invece ha rafforzato la propria posizione, subalterna per quanto si voglia, soprattutto a spese delle classi subalterne? Recupero della “sovranità popolare”, ma in Italia la sovranità il “popolo” quando l’avrebbe mai avuta? E infine “sovranità monetaria” per farne che, da consegnare a chi? A un governatore della Banca d’Italia anziché a un governatore della BCE?
Naturalmente queste posizioni “sovraniste” hanno un loro coté economico, ossia una “teoria” che si interfaccia a pennello con questa visione interclassista e ne completa il quadro. Oggi va molto di moda per esempio la Modern Monetary Theory ed anche la teoria della “decrescita felice”. Si indovina subito che queste teorie, oltre che non rappresentare assolutamente nulla di nuovo nel panorama dell’economia borghese (sono varianti del keynesismo), hanno in comune la negazione della teoria del plusvalore e il ruolo del proletariato.
Concludiamo quest’analisi discutendo di altre “deviazioni” dalla visione marxista-leninista che confondono o assimilano la lotta di classe, ossia tra il proletariato e la borghesia, con altre lotte tra sfruttati e sfruttatori, in primis la questione nazionale, ma potremmo anche indicare le recenti digressioni sul “sindacalismo metropolitano” che tende ad oscurare la centralità del conflitto tra capitale e lavoro. Riportiamo al proposito una frase di Lenin in polemica con Rosa Luxemburg:
… che la questione nazionale sia subordinata alla ‘questione operaia’ è cosa indiscutibile per Marx. Ma la sua teoria è lontana, come il cielo dalla terra, dall’ignorare la questione nazionale. Le rivendicazioni nazionali vanno tenute ben presenti, ma il proletariato cosciente le subordina agli interessi della lotta di classe (Lenin, Sul diritto di autodecisione delle nazioni, 1914, in Opere complete, vol. 20, pp. 415-6.)
Che cosa ci insegna questa frase? Che le classi sono classi sociali, che distinguono gli uomini per la loro collocazione nei rapporti di produzione. Le nazioni, i popoli, le donne, i giovani, le razze, le minoranze religiose, sessuali – e chi più ne ha più ne metta – non sono classi, sono un’altra cosa, sono categorie, raggruppamenti che possono cambiare il proprio ruolo a seconda dell’evoluzione storica. Anche le lotte dei popoli oppressi non sono lotte di classe, ma sono lotte a cui però i comunisti devono prestare la massima attenzione, proprio per volgere quelle lotte nella direzione da loro auspicata: la rivoluzione proletaria.
Il compagno Stalin è stato chiaro su questo tema:
“Talvolta la borghesia riesce ad attirare il proletariato nel movimento nazionale, ed allora la lotta nazionale assume, esteriormente, un carattere «popolare», ma solo esteriormente. Nella sua essenza, la lotta resta sempre borghese, vantaggiosa e utile soprattutto per la borghesia” e ancora “essa distoglie l’attenzione di larghi strati della popolazione dai problemi sociali, dai problemi della lotta di classe, per dirigerla verso i problemi nazionali, verso i problemi «comuni» al proletariato e alla borghesia. E ciò crea un terreno che si presta alla falsa predicazione della «armonia d’interessi», favorisce la tendenza a mettere in ombra gli interessi di classe del proletariato, l’asservimento spirituale degli operai. Così si crea un ostacolo serio alla causa dell’unione dei proletari di tutte le nazionalità”. (Il marxismo e la questione nazionale)
“La forza del patriottismo sovietico risiede nel fatto che esso non si basa su pregiudizi razziali o nazionalisti, ma sul profondo amore del popolo per la patria sovietica e sulla fedeltà ad essa, che è la comunità fraterna dei lavoratori di tutte le nazioni del nostro paese. Nel patriottismo sovietico, le tradizioni nazionali di tutti i popoli si accoppiano armonicamente con i comuni interessi di tutti i lavoratori sovietici. Il patriottismo sovietico non disgrega, ma unifica tutte le nazioni e popolazioni del paese in un’unica grande famiglia fraterna. In questa situazione si manifestano le basi della indistruttibile e sempre più forte amicizia dei popoli sovietici. Nello stesso tempo, i popoli dell’Unione Sovietica rispettano i diritti e l’indipendenza degli altri popoli ed hanno sempre dimostrato di essere pronti a vivere in pace ed amicizia con gli altri Stati vicini”
Oggi in Europa assistiamo a una lotta feroce tra i vari settori del capitalismo monopolistico che indubbiamente hanno una connotazione anche nazionale. È sotto gli occhi di tutti le condizioni in cui versa il popolo greco dopo gli attacchi subiti negli ultimi anni dalle ristrutturazioni capitalistiche. Ciò che vediamo accadere in Grecia è solo la prova generale di ciò che si prepara per i popoli d’Europa, a cominciare da quelli del sud. Ma questa nozione di “popolo” è una nozione indistinta? I greci sono attaccati dai tedeschi perché greci? In particolare, ci sono greci che invece si stanno arricchendo spropositatamente in questa crisi? Certo che sì! E in Germania, come va agli operai e ai lavoratori? Sono sotto attacco le loro condizioni di vita materiale e i loro diritti? Certo che sì! Il fatto che l’Italia perda giorno dopo giorno posizioni in tutti gli indici che misurano la collocazione internazionale è un fatto conclamato e ciò non può che favorire il suo principale concorrente su scala europea, cioè la Germania. Gli italiani stanno certo peggio di alcuni anni fa. Ma ciò è solo una media statistica che come tutte le medie nasconde variabilità interne che invece sono sempre più forti. Il capitalismo italiano nella piramide imperialista si colloca in un rango inferiore e quindi subisce di più le conseguenze della crisi economica, peraltro non aiutato da una classe politica e da un livello culturale della classe borghese certo non paragonabile per esempio a quella francese, che riesce politicamente a rallentare gli effetti della crisi, peraltro più grave che in Italia. Noi potremmo anche dire propagandisticamente che l’Italia sta diventando una “colonia” per suscitare l’indignazione e la ribellione da parte del popolo italiano, ma certo il ruolo svolto dal capitalismo monopolistico italiano dal punto di vista economico e militare, per quanto subordinato, non è certo quello di “colonia”. Quando si svenderà il patrimonio pubblico e anche i beni demaniali per ripagare il debito con le banche soprattutto straniere, chi comprerà a prezzi da saldo? I tedeschi? (anche). Ma soprattutto i capitalisti italiani (magari ridotti nel numero, ma certo più ricchi di prima).
In conclusione, in un paese capitalisticamente evoluto come l’Italia, il problema “nazionale” non si pone neanche lontanamente, non si pone più in tutta l’Europa occidentale almeno dal 1848, dalla sconfitta della piccola borghesia rivoluzionaria e dalla soluzione del problema contadino in senso conservatore. Non si pone perché l’Italia e la borghesia monopolistica italiana hanno un ruolo di rilievo, anche se subordinato, nella piramide imperialista. Non si pone perché non c’è nessuno straniero che occupa il nostro suolo nazionale contro la volontà della nostra borghesia. Quindi le alleanze non vanno fatte con la borghesia “nazionale”, che non c’è e non può esistere, invece il proletariato deve fare delle alleanze sociali con gli altri strati oppressi in via di proletarizzazione, quali piccoli contadini e artigiani, piccoli lavoratori in proprio, strati di piccola borghesia di origine impiegatizia che ha perduto questo ruolo nel passaggio da una generazione all’altra.
La mobilitazione del “ Movimento dei Forconi “ che aveva iniziato a far parlare di sé, circa un anno fa, a partire dalla Sicilia, ora ha assunto una dimensione nazionale con protagonisti settori del ceto medio colpito dalla crisi (commercianti, agricoltori, autotrasportatori, ma anche lavoratori e disoccupati), in lotta su una piattaforma assolutamente vaga ma che investe e chiama in causa le politiche dei governi nazionali e dell’Unione Europea responsabili di aver determinato una vera e propria rapina economico-sociale antipopolare.
Caratterizzato dalla presenza, nei suoi dirigenti e militanti, di personalità anche di destra ed estrema destra, tale movimento ha cercato di farsi interprete del disagio e della sofferenza sociale di ampi settori del mondo del lavoro autonomo e della piccola impresa in via di proletarizzazione in seguito alla crisi, partendo dai temi della pressione fiscale, della caduta dei consumi che condannano inevitabilmente alla marginalizzazione ed alla crisi commercianti, artigiani, piccoli imprenditori ecc.
Una mobilitazione che segue le orme del voto di protesta indirizzato a favore del Movimento 5S, che nonostante non sia riuscito a garantire efficacemente risposte alle istanze richieste, si offre comunque di dare rappresentanza a livello istituzionale a tale protesta.
Va tenuto in considerazione che le categorie sociali che hanno promosso questa protesta in larga parte hanno in passato votato per partiti di centrodestra.
L’Italia, è fra i paesi più colpiti dalla attuale crisi. Nei giorni scorsi, i dati Istat ci hanno ricordato che siamo il secondo paese, dopo la Grecia, a rischio povertà, con 18 milioni di persone che stanno per entrare in questa condizione sociale. Siamo, poi, il quarto paese europeo per pressione fiscale ( 44% del Pil – ultimo rapporto Censis ), il primo per disoccupazione giovanile ( 41,2% ) con 100.000 giovani italiani che, ogni anno, fuggono all’estero, e con un tasso fra i più alti di disoccupazione totale ( 12,3% ). Ogni giorno, infatti, migliaia di piccole imprese chiudono, colpite dalla crisi. Bisogna, inoltre, ricordare che in Italia vi sono 5 milioni di lavoratori autonomi ( commercianti, artigiani, ecc. ) e 4 milioni di imprenditori ( di cui il 97% con meno di 50 dipendenti e l’80% con poche unità di lavoratori occupati ).
In tale situazione, è chiaro che il disagio sociale e la volontà di reagire con la lotta non tocca più soltanto la classe operaia ed i lavoratori dipendenti, ma sempre più ampi settori di ceto medio che si vedono proiettati verso una condizione di povertà.
Il problema è : come lottare, alleandosi con chi e per fare che cosa ?
Noi comunisti proponiamo la creazione di una politica di alleanze degli operai, dei lavoratori dipendenti ed autonomi e dei piccoli imprenditori in crisi sulla base di una piattaforma di lotta che abbia nella difesa del salario, della occupazione e dei redditi di commercianti, artigiani e piccoli imprenditori i punti in comune, per realizzare i quali si rendono necessarie le seguenti misure:
Esproprio e nazionalizzazione dei principali gruppi industriali e del sistema bancario che sono i principali responsabili della crisi sociale, a cui lo Stato ha devoluto somme ingenti ottenute col prelievo fiscale dai lavoratori dipendenti ed autonomi.
Pianificazione dello sviluppo economico del Paese in base agli interessi e bisogni del popolo, sottoposta a controllo da parte di organismi di potere operaio e popolare, al fine di poter determinare, attraverso il controllo pubblico della produzione e distribuzione della ricchezza, un’immediata e consistente riduzione della pressione fiscale sui redditi popolari.
Uscita del nostro Paese dall’Unione Europea, dalla zona euro e dalla NATO come condizione per poter arrecare immediato sollievo alla condizione di vita di decine di milioni di italiani e poter determinare liberamente e diversamente da oggi il nostro futuro e le condizioni della vita individuale e sociale del popolo.
E’ chiaro che queste nostre indicazioni risultano esser una cosa ben diversa dal dire che “la politica deve cessare di esistere per lasciare il passo ad un governo delle forze di polizia l’intero paese” come abbiamo sentito vaneggiare da improbabili leader in Jaguar, ma è anche cosa diversa rispetto ad altrettanto improbabili fronti da “arco costituzionale” con forze come il PD ed il sindacato concertativo (complici del grande capitale nei confronti della crisi), che altro non farebbero che consegnare obiettivamente l’intero ceto medio proletarizzato nelle mani della destra estrema e della reazione.
Storicamente (nel nostro campo) tutte le contraddizioni – la democrazia socialista, lo sviluppo delle forze produttive e culturali, il ruolo della donna, le minoranze linguistiche e il ruolo delle nazionalità entro l’URSS e fuori, la lotta contro l’imperialismo per il sostegno dei popoli oppressi – sono state risolte dalla dirigenza bolscevica, guidata dal compagno Stalin, prendendo la matassa dal bandolo principale, quello della contraddizione capitale/lavoro con la dittatura del proletariato e risolvendo tutte le altre a partire da questa. Per brevità non enumeriamo gli enormi successi di quel periodo epico, perché sono noti a tutti i sinceri comunisti. Diciamo solo che ciò avvenne non in un paese del capitalismo avanzato, ma in un paese che, al momento della rivoluzione d’Ottobre, era ancora semi-feudale e profondamente arretrato, in cui la classe operaia era numericamente molto meno numerosa di quella dei paesi “in via di sviluppo” attuali.
Appena il germe del revisionismo si è insinuato nella grande costruzione del socialismo ha cominciato a vacillare tutto: la produttività, la democrazia socialista e il controllo operaio, l’internazionalismo, il rapporti tra le nazionalità, fino allo sfacelo del 1989/91.
Il fatto che non si è più posto nel corretto equilibrio la contraddizione principale di questa epoca, quella tra capitale e lavoro, con tutte le altre, la contraddizione che, una volta risolta, può consentire di risolvere tutte le altre, che provoca e ha provocato i guasti peggiori. Le altre contraddizioni non esistono? Certo che esistono e anzi devono essere convogliate nel grande fiume della lotta di classe dal lato “giusto”, dal lato rivoluzionario. Non per “furbizia” in modo da portare acqua al nostro mulino, ma perché questo è l’unico flusso ove esse possono trovare soluzione permanente.
“LA CLASSE OPERAIA, LIBERANDO SE STESSA, LIBERA TUTTA L’UMANITÀ.”
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