LETTERA AL COMITATO CENTRALE DI COMUNISTI SINISTRA POPOLARE di Antonio Catàlfamo
Cari Compagni,
Luciana Coletta di Potenza mi invita a rivolgere un saluto a tutti Voi riuniti nel Comitato Centrale del Partito. Lo faccio ben volentieri, confortato dal pensiero che ci sono ancora, anche nel nostro Paese, tante persone che credono negli ideali del comunismo e lottano per realizzarli.
Vi scrivo dall’estremo sud d’Italia, dalla Sicilia, precisamente da Barcellona Pozzo di Gotto, provincia di Messina. La mia famiglia ha servito per tre generazioni il glorioso Partito Comunista Italiano. Mio nonno, per più di quarant’anni segretario della Camera del lavoro del suo paese, Castroreale, segretario della sezione del partito, consigliere comunale, fu più volte aggredito dai clerico-fascisti, allora raccolti intorno alla Democrazia Cristiana, e minacciato di morte dai capisquadra mafiosi della forestale, perché difendeva i diritti dei braccianti. Oggi quegli stessi clerico-fascisti sono alleati del Partito Democratico, nell’ambito di un’amministrazione comunale di cui il PD esprime addirittura il sindaco.
Mio padre è stato, per quasi un trentennio, consigliere comunale del PCI a Barcellona Pozzo di Gotto, assessore e vice-sindaco di Castroreale. Anche lui fu ostacolato e discriminato nell’esercizio della sua professione di insegnante da quella Dc, oggi tanto osannata come partito popolare, che, di fatto, aveva realizzato in Italia una vera e propria dittatura.
Io sono comunista dall’età di 14 anni. Avevo 18 anni quando collaborai con alcuni articoli a «Interstampa», rivista che, nel 1981, cercò di arginare l’ondata antisovietica che trovava alimento nei fatti di Polonia e, prima ancora, nelle vicende afghane. In poche settimane raggiungemmo i 6.000 abbonati e quello fu il nucleo storico che poi diede vita al movimento della Rifondazione Comunista. E qui il mio pensiero va, soprattutto, al compagno Ambrogio Donini, che dell’esperienza di «Interstampa» fu il vero animatore.
Stiamo vivendo un momento difficile. Ma mio padre mi ha raccontato di riunioni semiclandestine, tenute, nell’immediato dopoguerra, alla presenza di poche compagni, che, per sottolineare il vincolo di solidarietà, bevevano vino, scuro come l’inchiostro, da uno stesso bicchiere che, in una sorta di rito, si passavano, l’un l’altro, facendolo girare in circolo.
Il comunismo non può morire, perché è un bisogno fondamentale dell’uomo. Le menzogne di questi ultimi decenni, veicolate anche da tanti traditori, che, onorando la tradizione trasformista italiana, sono saltati sul carro del capitalismo vincitore, non basteranno a cancellarlo. Il comunismo è stato equiparato al fascismo come regime criminale, come nemico della democrazia e della libertà. Ma Cesare Pavese ci ha ricordato, in alcune sue pagine, volutamente dimenticate, nel clima di revisionismo storico-letterario oggi dominante, che molti intellettuali come lui si sono accostati al comunismo proprio per un bisogno di libertà. Lo stesso Pavese ci ha spiegato che “libero è solamente chi s’inserisce nella realtà e la trasforma, non chi procede tra le nuvole. Del resto, nemmeno i rondoni ce la fanno a volare nel vuoto assoluto.. […] Non ci illudiamo che esista un paradiso dei rondoni dove si possa essere insieme progressisti e liberali. Nemmeno gli anarchici riescono a tanto. La nostra libertà è la libertà di chi lavora – di chi ha da fare i conti con l’opaco materiale, con la sua compattezza e la sua durezza”. E il comunismo, nelle sue concretizzazioni storiche, ha garantito la vera libertà ai popoli, ossia la liberazione dai bisogni materiali. E per far ciò ha dovuto confrontarsi e scontrarsi con l’ “opaco materiale”, con la “realtà rugosa”, con la resistenza criminale del nemico, con le classi padronali, con le forze retrive della società, che difendevano privilegi plurisecolari, ed è stato costretto a ricorrere alle maniere forti.
Per questo non dobbiamo vergognarci di essere comunisti e della nostra storia. Abbiamo dato civiltà a questo Paese e al mondo intero.
Pablo Neruda racconta, in Confesso che ho vissuto, di essere andato, nel 1949, in Unione Sovietica, di aver visto migliaia di contadini che ascoltavano in silenzio, in un bosco, col vestito vecchio della festa, la recita delle poesie di Puškin. In Urss Neruda incontrò anche Nazim Hikmet, che vi si trovava in esilio, che gli disse che nel Paese dei Soviet la poesia era “l’esigenza più indispensabile dell’anima”.
Il comunismo è la poesia della vita, l’unica poesia che merita di essere realizzata. Perciò, compagni, continuate il Vostro lavoro, la Vostra lotta per l’affermazione degli ideali del comunismo e del marxismo-leninismo.
Sappiate che qui c’è un lontano, piccolo avamposto che lotta tenacemente per gli stessi ideali. Come Centro Studi “Nino Pino Balotta” abbiamo organizzato, a partire dal 2005, parecchi convegni, seminari, conferenze. Solo quest’anno abbiamo organizzato ben sette seminari mensili dedicati, fra l’altro, a Marx, Lenin, Gramsci. Hanno partecipato una sessantina di persone, anche non comuniste.
In questo momento, è molto importante la formazione ideologica dei quadri e dei militanti, la lotta per l’egemonia culturale.
Vorrei ringraziare i compagni e le compagne che hanno presentato coraggiosamente alle ultime elezioni amministrative, liste comuniste alternative a PD e PDL, al di là dei risultati, che, col tempo, saranno sempre più positivi, se ci impegneremo a fondo.
Voglio ringraziare, infine, la compagna Luciana Coletta, latrice della presente. Buon lavoro a tutti Voi.
Barcellona P.G., 23 giugno 2011
Antonio Catàlfamo
Antonio Catàlfamo opera a livello accademico presso le Università di Cassino e di Messina. E’ coordinatore dell’ “Osservatorio permanente sugli studi pavesiani nel mondo”, che ha sede a Santo Stefano Belbo (Cuneo), nella casa natale di Cesare Pavese. E’ direttore del Centro Studi “Nino Pino Balotta”. E’ autore di diversi libri di poesie, narrativa, saggistica.