La base teorica dell’impostazione di lavoro nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro è già tutta scritta, in modo esauriente, nello scritto di Antonio Gramsci pubblicato su “L’Ordine Nuovo” l’11 ottobre 1919, con il titolo “Sindacati e Consigli”, ed in quello più analitico pubblicato con lo stesso titolo il 12 giugno 1920.
Il lavoro politico nelle fabbriche è la ragione stessa fondante del Partito Comunista, come pure ogni alleanza di classe, che si basi sul riconoscimento della classe operaia in quanto classe egemone, deve vedere i comunisti ed il loro Partito in prima fila nella definizione e consolidamento di una tale alleanza.
Il nostro stesso simbolo, cui siamo legati da ragioni di fedeltà e coerenza storica, rappresenta con la stella quanto stiamo ben dentro la classe operaia (del settore privato e pubblico)in stretto legame con la sua alleata principale, la classe contadina. In un tale legame, aggiornato in questa fase storica alla nuova composizione delle altre classi, specie quelle intermedie, più articolate ma comunque destinate alla crescente proletarizzazione preconizzata da K. Marx, bisogna quindi definire in concreto e dinamicamente i nostri compiti rispetto al lavoro politico.
Classicamente gli obiettivi tattici dovrebbero essere svolti dal sindacato, da un sindacato di classe, quelli strategici dovrebbero essere volti alla costruzione dei Consigli di Fabbrica. Con estremo acume e capacità di sintesi insuperabile A. Gramsci scrive sul sindacato:
“ La natura essenziale del sindacato è concorrentista, non è comunista. Il sindacato non può essere strumento di rinnovazione radicale della società: esso può offrire al proletariato dei provetti burocrati, degli esperti tecnici in questioni industriali d’indole generale, non può essere la base del potere proletario. Esso non offre nessuna possibilità di scelta delle individualità proletarie capaci e degne di dirigere la società, da esso non possono esprimersi le gerarchie in cui si incarni lo slancio vitale, il ritmo del progresso della società comunista.”
E sui Consigli di Fabbrica:
” Il Consiglio di fabbrica è il modello dello Stato proletario. Tutti i problemi che sono inerenti all’organizzazione dello Stato proletario, sono inerenti all’organizzazione del Consiglio. Nell’uno e nell’altro il concetto di cittadino decade, e subentra il concetto di compagno: la collaborazione per produrre bene e utilmente sviluppa la solidarietà, moltiplica i legami di affetto e fratellanza.
Ognuno è indispensabile, ognuno è al suo posto, e ognuno ha una funzione e un posto. Anche il più ignorante e il più arretrato degli operai, anche il più vanitoso e il più “civile” degli ingegneri finisce col convincersi di questa verità nelle esperienze dell’organizzazione di fabbrica: tutti finiscono per acquistare una coscienza comunista per comprendere il gran passo in avanti che l’economia comunista rappresenta sull’economia capitalistica.
Il Consiglio è il più idoneo organo di educazione reciproca e di sviluppo del nuovo spirito sociale che il proletariato sia riuscito a esprimere dall’esperienza viva e feconda della comunità di lavoro. La solidarietà operaia che nel sindacato si sviluppava nella lotta contro il capitalismo, nella sofferenza e nel sacrificio, nel Consiglio è positiva, è permanente, è incarnata anche nel più trascurabile dei momenti della produzione industriale, è contenuta nella coscienza gioiosa di essere un tutto organico, un sistema omogeneo e compatto che lavorando utilmente, che producendo disinteressatamente la ricchezza sociale, afferma la sua sovranità, attua il suo potere e la sua libertà creatrice della storia.”
Come si legge, l’oggetto stesso definito dai due obiettivi è e deve rimanere ben distinto e si concretizza nella priorità che si deve sempre assegnare alla costruzione delle Cellule di Fabbrica, in quanto nuclei fondanti del Partito Comunista, così come si applica a partire dalla concezione leninista e gramsciana, convincente e vincente rispetto a quella bordighiana, che vedeva invece nella dimensione ambigua e confusa del territorio la più idonea per un tale processo di costruzione.
Per altro questa distinzione, al tempo stesso teorica ed organizzativa, va applicata ancora oggi, a maggior ragione oggi, nel lavoro politico nella classe contadina e nelle classi potenzialmente alleate della classe operaia, tenuto conto della frammentarietà e scomposizione introdotte generalmente nei processi di produzione delle merci e dei servizi.
Richiamando la nostra analisi, per la quale si rimanda ad una lettura attenta e non pedissequa, l’attuale fase storica nel nostro Paese ha visto consumarsi fino in fondo la deriva della C.G.I.L. già individuata da Gramsci nel lontano ’19 :
“ L’organizzazione proletaria che si riassume, come espressione totale della massa operaia e contadina, negli uffici centrali della Confederazione del Lavoro, attraversa una crisi costituzionale simile per natura alla crisi in cui vanamente si dibatte lo Stato democratico parlamentare. La crisi è crisi di potere e di sovranità. La soluzione dell’una sarà soluzione dell’altra, poiché, risolvendo il problema della volontà di potenza nell’ambito della loro organizzazione di classe, i lavoratori arriveranno a creare l’impalcatura organica del loro Stato e vittoriosamente la contrapporranno allo Stato parlamentare. Gli operai sentono che il complesso della “loro” organizzazione è diventato tale enorme apparato, che ha finito per ubbidire a leggi proprie, intime alla sua struttura e al suo complicato funzionamento, ma estranee alla massa che ha acquistato coscienza dalla sua missione storica di classe rivoluzionaria. Sentono che la loro volontà di potenza non riesce ad esprimersi, in un senso netto e preciso, attraverso le attuali gerarchie istituzionali. Sentono che anche in casa loro, nella casa che hanno costruito tenacemente, con sforzi pazienti cementandola col sangue e le lacrime, la macchina schiaccia l’uomo, il funzionarismo isterilisce lo spirito creatore e il dilettantismo banale e verbalistico tenta invano di nascondere l’assenza di concetti precisi sulle necessità della produzione industriale e la nessuna comprensione della psicologia delle masse proletarie. Gli operai si irritano per queste condizioni di fatto, ma sono individualmente impotenti a modificarle; le parole e le volontà dei singoli uomini sono troppo piccola cosa in confronto delle leggi ferree inerenti alla struttura dell’apparato sindacale. I leaders dell’organizzazione non si accorgono di questa crisi profonda e diffusa”.
Quei processi così bene descritti, sono stati accelerati ed accentuati dalle direzioni revisioniste del P.C.I. e ancor più della stessa C.G.I.L., della quale vanno demitizzate e sottoposte a rigorose e ferree critiche politiche le segreterie dei Di Vittorio, Novella, Lama fino a Trentin, ed hanno portato ad un vero e proprio salto di paradigma, che rende oggi quasi impossibile una distinzione seria tra la stessa C.G.I.L. ed i sindacati che storicamente abbiamo definito sindacati gialli, e cioè la C.I.S.L. e la U.I.L..
Senza indulgere negli aspetti grotteschi delle vicende storiche, sarebbe altrimenti arduo spiegare come si sia potuti, organizzativamente , passare da un Bruno Buozzi, riformista ma eroico martire della causa dei lavoratori, ad una Susanna Camusso, craxiana della prima ora e a suo tempo espulsa dalla F.I.O.M. per ambigui rapporti con la direzione FIAT.
La stessa storia della F.I.O.M., contrassegnata dall’esperienza formidabile del ’69 operaio, con il tentativo generoso del protagonismo di classe di riproporre l’esperienza dei Consigli di Fabbrica del biennio rosso dei primi anni ’20, a partire dalla Fiat e da Mirafiori, viene però allo stesso tempo marcata, in senso finto-operaista e spontaneista, dalla segreteria di B. Trentin, il quale, da discreto intellettuale piccolo-borghese, profittò del P.C.I. e della sua direzione politica organicamente revisionistica, per attribuire al ’69 operaio un segno non equivalente di classe, piccolo-borghese appunto.
Una tale linea si manifestò teorizzando una astratta alleanza studenti-operai, che assegnava ai primi un ruolo egemonico segnalato da un non detto primato di una generica cultura, delle accademie moderniste, dei cenacoli più o meno trasgressivi (si pensi al ruolo del Manifesto, prima rivista e poi quotidiano). Ma si realizzò pure con la costruzione mitizzata della F.L.M., che mise insieme esperienze del radicalismo sociale cattolico, rispettabili ma assolutamente fuorvianti, a nuove forme di contrattualismo nord-americano o paneuropeo, apertamente o subdolamente portatrici di elementi di opportunismo se non di corruzione nella classe. Ciò che rimane di quella storia, gloriosa per gli attori che la interpretarono con coraggio in ogni singola fabbrica del nostro Paese, rappresenta oggi sostanzialmente una finta alternativa al tradimento ormai apertamente dichiarato della Confederazione.
Una finta alternativa che quasi mai si è rappresentata contro le scelte irreversibili che la C.G.I.L. caratterizzata all’interno della fabbrica dagli attacchi alla rappresentanza diretta di classe, dalla cogestione interclassista, dall’abbandono di ogni difesa salariare e delle nocività in fabbrica. Sul piano sociale questo tradimento si è realizzato con l’ingresso a pieno titolo nei salotti buoni della finanza e delle assicurazioni, con la riconversione di improbabili dirigenti sindacali in finti-manager delle aziende private (scandaloso il caso di Moretti da ex-segretario Filt-Cgil a capo di Trenitalia s.p.a., a suon di milioni di euro all’anno), fino all’attivo scompaginamento di quello stato sociale, conquistato nella lotta strenua degli anni ’60-’70, brutta copia di elementi parziali del socialismo. Tale scompaginamento si è inoltre realizzato anche attraverso la promozione di quel terzo settore che rappresenta oggi il vero cavallo di troia dell’intero processo di privatizzazione nella gestione delle politiche sociali.
Che cosa fa la segreteria F.I.O.M. in questa fase, relegando, spesso in modo brutale, una pur generosa ma inconcludente minoranza al ruolo di inutile Cassandra? Cerca di competere con la Camusso, nell’inutile tentativo di convincere la borghesia monopolistica italiana ed europea (che si rivolge alla rappresentanza istituzionale italiana, versione Renzi, e coinvolge la rappresentanza politica europea, versione politica della falsa sinistra-Syriza-Link) che conviene a tutti continuare ad applicare lo schema della cogestione, seppure in una versione più moderna di quella disperatamente, ma inutilmente difesa dalla vecchia Camusso.
In questa stessa fase storica si va intanto esaurendo la pur feconda esperienza del cosiddetto sindacalismo di base, come stanno riconoscendo i più autorevoli dirigenti sindacali che l’hanno animata.
Di quella storia, pure articolata per sua natura, qui, come nei Documenti congressuali richiamati, non si vuole esaurire l’analisi rispettosa ed attenta che merita. Non possiamo però esimerci dal segnalare che quella esperienza, peculiare del nostro Paese, è stata fortemente influenzata da correnti di pensiero e da pensatori (Negri e Tronti in testa) che più apertamente hanno contestato i cardini dell’analisi di classe marxista e il ruolo fondamentale che deve avere un Partito Comunista di stampo leninista per abbattere il potere capitalistico: la Rivoluzione socialista.
Tali esperienze hanno del resto mostrato il loro fallimento nell’aver fatto accumulare a movimenti, associazioni, organizzazioni spontanee di base, soprattutto negli ultimi venti anni, una serie ininterrotta di sconfitte nelle più significative battaglie sul terreno politico-sociale. Senza sottovalutare (e come potrebbero farlo i comunisti?) il peso della sconfitta epocale fatta subire al campo socialista dalle direzioni revisioniste di quei partiti comunisti, è comunque opportuno ragionare su un fatto incontestabile: come mai non si è potuta ottenere una vittoria, anche una sola vittoria nelle battaglie contro gli aspetti sociali del dominio di classe capitalistico?
La più emblematica di queste sconfitte rimane quella maturata nella battaglia a difesa dell’acqua pubblica; una battaglia sacrosanta, sorretta da un vastissimo, sostanziale ma anche formale consenso (il referendum che è stato vinto), corroborato da fondate ragioni giuridiche e morali, eppure una battaglia persa, con la quasi totale e brutale privatizzazione di tutti i processi industriali legati al ciclo delle acque.
Ma tornando allo specifico delle battaglie sindacali, che il sindacalismo di base ha legittimamente legato a quelle più generali, il problema non sta nel grado di integrazione tra quelle e queste battaglie, bensì dal punto di vista di classe che è necessario assumere per ottenere sintesi più avanzate.
Per i comunisti la contraddizione fondamentale rimane e rimarrà, fino alla definitiva vittoria del Comunismo, la contraddizione capitale-lavoro, e proporre, attraverso l’analisi e la pratica conflittuale che da essa scaturiscono, un’analisi scientifica delle pratiche che agiscano anche sulle altre contraddizioni, rilevanti ma mai fondamentali. Non è un caso, proprio a questo proposito, che le esperienze sindacali rimaste più salde sono quelle che si sono radicate nella classe, tentando analisi e pratiche di classe pur in assenza di un riferimento politico, che non può che essere quello del Partito Comunista.
Il vero fallimento che si è realizzato, nel suo laboratorio più significativo ed esteso, è stato invece quello subito dal modello di sindacato sociale che, con la sua pretesa di contrattualizzare battaglie classicamente sovrastutturali e di soggettivizzare battaglie invece strettamente correlate ai modi di produzione capitalistici, ha finito per favorire le sconfitte su tutti i terreni del conflitto sociale.
In concreto, è un errore tragico pensare di poter estendere a tutta la società la giusta battaglia dei lavoratori per un salario dignitoso, attraverso parole d’ordine come quella del “reddito di cittadinanza “. Non si considera infatti che in questo modo – scollegando la rivendicazione dalla base sociale che lo rivendica – si ottiene solo la trasformazione dei lavoratori in plebei, in una massa di diseredati che attendono dal Principe il tozzo di pane per andare avanti, rinunciando alla rivendicazione della loro dignità e del loro ruolo di produttori.
Una pratica perfettamente funzionale al sistema, perché “delocalizza” la lotta di classe fuori dalla cittadella imperialista, e massifica tutta la società subalterna in una indistinta moltitudine di consumatori, più o meno abbienti, ma privi di ogni sostanziale argomento di conflittualità. In Italia, però, dove il sistema non si può permettere neanche questa pratica, il risultato è ancora peggiore, perché le briciole di sussidio – di questa elemosina- vengono ritagliate a scapito del residuo di ammortizzatori classici, quali la cassa integrazione, contrapponendo – secondo una logica reazionaria e “populista” – lavoratori “garantiti” e altre fasce popolari.
Rimane ancora aperta la discussione su alcune suggestioni, o su alcune definizioni, quali quella di un moderno sindacato metropolitano, che se non tengono ben ferma la barra per la costruzione di un sindacato di classe, e non si allontanano in modo rilevante dal modello di sindacato sociale, rischiano di ripetere i vecchi errori.
Tornando al nostro Gramsci, nel suo secondo scritto su Sindacati e Consigli, quello del 1920, egli offre una definizione del sindacato estremamente rigorosa:
“ Il sindacato non è questa o quella definizione del sindacato: il sindacato diventa una determinata definizione e cioè assume una determinata figura storica in quanto le forze e la volontà operaie che lo costituiscono gli imprimono quell’indirizzo e pongono alla sua azione quel fine che sono affermati nella definizione. Obiettivamente il sindacato è la forma che la merce-lavoro assume e sola può assumere in regime capitalista quando si organizza per dominare il mercato: questa forma è un ufficio costituito di funzionari, tecnici (quando sono tecnici) dell’organizzazione, specialisti (quando sono specialisti) nell’arte di concentrare e di guidare le forze operaie in modo da stabilire con la potenza del capitale un equilibrio vantaggioso alla classe operaia. ”
Infatti, il sindacato può assumere nella lunga fase di crisi convergente del modo di produzione e dell’intero sistema capitalistico, forme organizzative storicamente determinate, ferma restando la sua forma di base, disegnata entro i limiti oggettivi assegnati da una legalità industriale che è stata, chiarisce Gramsci, una grande conquista della classe operaia, e perciò subita dalla classe capitalista, “ ma essa non è l’ultima e definitiva conquista: la legalità industriale ha migliorato le condizioni della vita materiale della classe operaia, ma essa non è più che un compromesso, che è stato necessario compiere, che sarà necessario sopportare fin quando i rapporti di forza saranno sfavorevoli alla classe operaia.”
In questo quadro ben definito, e con le premesse di analisi sopra riassunte, quale può essere dunque il ruolo dei comunisti in questa fase storica, nel nostro Paese, rispetto al lavoro sindacale ?
Intanto, in coerenza con le nostre Tesi congressuali, non è possibile non contestualizzare la nostra azione entro lo scenario inscritto politicamente dai comunisti dell’ Iniziativa dei Partiti Comunisti ed Operai in Europa e sindacalmente nelle proposte e nelle tendenze prodotte dalla W.F.T.U., a partire dall’organizzazione greca del P.A.M.E.. Fuori da questo quadro di riferimenti internazionali, e soprattutto internazionalistici, sarebbe e velleitario assegnarci compiti in tempi medi.
Possiamo inoltre descrivere gli errori che non possiamo e non dobbiamo commettere in questa fase politica, e che sarebbero:
imporre ai compagni scelte organizzative sul piano sindacale ad oggi precise e vincolanti;
in particolare spingere i compagni ad uscire da organizzazioni di massa;
rinunciare, invece, ad avere un’indipendenza di giudizio e di critica sulle singole organizzazioni, specialmente quelle in cui militano denunciando puntualmente le incompatibilità tra la militanza comunista e l’iscrizione a sindacati, se non di destra, comunque segnati da pratiche clientelari, corruttrici, affaristiche, o da culture politiche razziste, conservatrici o addirittura reazionarie;
favorire o promuovere dissidi artificiosi, basati talvolta su esasperati personalismi, tra le organizzazioni sindacali in cui si milita, dovendosi concentrare invece sulle attività di inchiesta operaia e di pratica critica dei conflitti nelle vertenze puntuali e generali.
Ma l’errore più grande sarebbe quello di costituire, a freddo ed a tavolino, una ennesima organizzazione sindacale, con la pretesa di sostituire gli attuali sindacati screditati.
Detto tutto ciò, non possiamo però pensare di eludere il nodo, tutto politico, della costruzione di un grande e compatto sindacato di classe in Italia, a partire dall’oggi.
La nostra proposta di un Fronte Unitario dei Lavoratori è appunto il tentativo di sciogliere questo nodo, avviando da subito una PRATICA SINDACALE COORDINATA, da realizzarsi in ogni fabbrica, in ogni ufficio, in ogni luogo di lavoro dell’agricoltura e dei servizi, in ogni sede ed articolazione del conflitto di classe.
Una pratica che rafforzi le esperienze originali già in atto, che promuova i tentativi che stentano a decollare, che avvii dove è possibile, ed in mancanza di altri protagonismi, direttamente tali processi, costituendo il F.U.L. su una dimensione ovviamente più larga dei nostri iscritti e dei nostri simpatizzanti.
Non siamo particolarmente attaccati, in questo caso ed a differenza di quanto sosteniamo per il Partito Comunista, alle denominazioni ed alle definizioni troppo stringenti; vorremmo però evitare da una parte unanimismi di facciata, dietro cui si nascondano baratri di cultura politica e di pratiche sterili e settarie, dall’altra un arroccamento sterile dei singoli, anche se snelli apparati.
Sarebbe utile se, soggetti sindacali, pure impegnati in esperimenti di coordinamento delle pratiche sindacali, evitassero di attaccare noi od altri che questa proposta stiamo avanzando formalmente, dovendoci concentrare tutti su culture, contenuti e forme condivisibili, dentro un percorso che non potrà mai essere intrapreso come il risultato spontaneo di processi cosiddetti di base.
Abbiamo già anticipato proposte che non siano a semplice corollario del F.U.L., ma che invece concentrino gli sforzi dentro un campo di forze differenziate: sulla tutela legale attiva e militante stiamo già strutturando uno Scudo Legale Popolare, che operi sugli aspetti legali e giurisprudenziali, sul diritto del lavoro ma anche contro l’uso della giustizia penale ai danni del proletariato; sulla tutela della salute e contro le nocività in fabbrica, a sostegno ed a complemento di altri soggetti già impegnati (Medicina Democratica, Associazione Italiana Esposti Amianto, ed altri); sulla tutela delle differenze di genere e di etnia nell’accesso, nella permanenza e nella qualità della presenza nei processi produttivi reali.
Insomma il F.U.L. dovrà essere anche il catalizzatore che riporta tutte le contraddizioni, tutti i conflitti, quelli storici e quelli inediti, dentro il campo egemonico del conflitto fondamentale capitale/lavoro, contro il dominio capitalistico.
No alle mode auto assolutorie della borghesia morente (il legalismo astratto borghese, il fast o lo slow-food, l’orto nel giardino del borghese benpensante, la questione ambientale dei salotti green europei, le bonifiche sempre promesse e mai realizzate, perché fanno più affari le finte messe in sicurezza, una scuola vicina alle imprese ed ai loro interessi).
Si alla pratica militante dei lavoratori, dal punto di vista dei loro interessi materiali (il diritto fattuale, rivendicato ed assicurato dalle lotte, una sicurezza alimentare difesa dai contadini e non dalle false associazioni dei consumatori, uno modello di sviluppo che non consumi l’ambiente, ma che solo il socialismo-comunismo potrà realizzare e che solo i lavoratori possono prefigurare alla conquista delle vere ed utili opere pubbliche, le bonifiche vere, il riuso e la difesa dei territori dai rischi di catastrofi, una scuola di nuovo di massa e che si richiami alla cultura ed alla civiltà operaia).
Ci impegniamo a far conoscere il progetto del FUL agli operai, a tutti i lavoratori di ordine e grado, al proletariato in genere.
Ci impegniamo a fare, da ora, una seria ricognizione di tutte le lotte della casse lavoratrice per innestare il progetto del FUL in ogni zona del nostro paese.
Prepariamo una piattaforma politico sindacale che chieda la revoca di ogni legge sulla precarietà del lavoro e imponga la nazionalizzazione di banche e grandi imprese da affidare al controllo operaio e popolare.
Ci siamo impegnati sulla parola d’ordine con il FUL, TUTTO PER LA CLASSE OPERAIA!