Cari compagni e compagne, ecco le tesi congressuali votate dal Comitato Centrale, usatele quotidianamente come base per la discussione teorica, costruite con esse l’ideologia e l’azione del Partito Comunista in Italia. Siate fieri del nostro lavoro! Il segretario Marco Rizzo
http://issuu.com/pc-agitprop/docs/documento_politico_congresso_csp-pc
DOCUMENTI CONGRESSUALI CSP-PARTITO COMUNISTA
Indice
– PREMESSA (pag 3-4)
– PARTE PRIMA (pag 5-41)
1) Non è fallito il socialismo ma la sua revisione (pag 5)
2) La lotta per il socialismo comunismo, contro il revisionismo politico ed
ideologico (pag 8)
3) L’insegnamento di Gramsci oggi (pag 15)
4) Il revisionismo italiano dal dopoguerra fino al PD (pag 28)
– PARTE SECONDA (pag 42-91)
5) Il no comunista al golpe europeo (pag 42)
6) La questione meridionale, il paradigma italiano da Gramsci ai giorni nostri pag
50)
7) Internazionalismo ed antimperialismo (pag 60)
8) Natura della crisi; un programma di trasformazione socialista (pag 64)
9) Il Fronte unito dei lavoratori (FUL) per la ricostruzione del sindacalismo di
classe in Italia (pag 76)
10) La gioventù comunista (pag 81)
11) Differenze di genere, differenze di classe (pag 83)
12) Per la ricostruzione di un vero Partito Comunista (pag 85)
– PARTE TERZA (pag 92-104)
13) Regolamento congressuale 2014 (pag 92)
14) Statuto del Partito Comunista (pag 94)
15) Regolamento finanziario del Partito Comunista (pag 101)
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PREMESSA
L’analisi dei comunisti è una critica radicale, implacabile e irrevocabile, al
capitalismo che, giunto alla sua fase finale, sta trascinando l’umanità e questo pianeta
in un baratro fatto di crisi economica, guerra, fame, malattie e sottosviluppo,
distruzione dell’ambiente.
La proposta è altrettanto radicale: l’abbattimento del capitalismo parassitario
e moribondo per costruire il Socialismo-Comunismo, per la liberazione dell’umanità
dal giogo dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dall’ingiustizia, dalla miseria e dalla
guerra. Ci richiamiamo al marxismo-leninismo e all’esperienza della Rivoluzione
d’Ottobre con piena convinzione e senso della storia, consci del fatto che, con la fine
dell’URSS non è finita la sua illuminante eredità, ma solo la sua degenerazione
revisionista, iniziata nel 1956 con il XX Congresso del PCUS e le riforme di
Khrusciov e Kosygin. Da sempre gli oppressi cercano di emanciparsi dai loro
oppressori, ma oggi dall’esito della lotta di classe dipende la sopravvivenza stessa del
pianeta. Il Socialismo-Comunismo è l’unica vera soluzione alternativa, ma per
sconfiggere l’imperialismo, tanto degli USA, quanto dell’UE e degli altri paesi, il cui
capitalismo è recentemente entrato in fase monopolistica, non basta la denuncia. La
teoria rivoluzionaria deve trovare applicazione in una prassi altrettanto rivoluzionaria:
il Partito Comunista è appunto lo strumento che unisce e organizza teoria e prassi.
Parliamo qui di una politica vera e alta, non di quella miserabile degli
arrivisti e dei corrotti, di un ideale per cui i comunisti sono sempre stati pronti a
sacrificare la propria vita.
Stiamo ricostruendo il Partito Comunista in Italia, con profonda cognizione
della nostra gloriosa storia e degli errori del passato, tenendo conto anche delle
esperienze, accumulate nel ventennale tentativo di tenere aperta la ‘questione
comunista’ in Italia dopo lo scioglimento del PCI.
Comunisti Sinistra Popolare ne è stata coraggiosa e generosa parentesi,
apertasi nel 2009, con la quale abbiamo voluto prendere le distanze, in un quadro di
seria autocritica, dagli errori di governismo e parlamentarismo e dalle conseguenti
deviazioni opportuniste del PRC e del PDCI. Oggi, grazie ad una seria riflessione
teorica e ad un impegno militante determinato, siamo in grado di fornire una sponda,
ideologicamente, politicamente e organizzativamente adeguata a quanti ritengono che
il capitalismo non sia l’ultimo orizzonte della storia e che il Socialismo-Comunismo
sia l’unica via di uscita definitiva dalla sua crisi. In queste tesi non troverete i toni
suadenti, i colori sbiaditi, le teorie del dubbio e quell’eclettismo che negli ultimi
quarant’anni hanno caratterizzato, prima, la fine del PCI e poi le sue ipotesi
rifondative.
Siamo pienamente coscienti che, quanto le condizioni oggettive reclamano
oggi la necessità di un forte cambiamento, tanto, almeno in Italia, sono ancora deboli
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le condizioni soggettive. Perciò assumiamo pienamente l’insegnamento leninista di
Gramsci, quando rilevava che “…un esercito già esistente è distrutto se vengono a
mancare i capitani, mentre l’esistenza di un gruppo di capitani, affiatati, d’accordo
tra loro, con fini comuni, non tarda a formare un esercito anche dove non esiste”. Noi
dobbiamo e vogliamo costruire, appunto, un partito di quadri, di capitani che con una
chiara linea di classe, siano in grado di guidare alla vittoria l’esercito di massa dei
proletari nella loro accezione più vasta.
Ci rivolgiamo ai comunisti sinceri che ancora militano in organizzazioni che
apertamente o surrettiziamente hanno rinnegato l’ideologia comunista, ai comunisti
delusi dalla politica, ai comunisti ‘in fieri’ delle nuove generazioni e a tutti gli
sfruttati, vittime del capitalismo e della sua crisi.
Ricominciamo dalle nostre radici, dai nostri più arditi obiettivi, facendo tesoro delle
nostre riflessioni e elaborazioni teoriche, lo facciamo per realizzare una rivoluzione
che cambi in meglio la vita di tutti, orgogliosi della nostra identità, nel nome dell’idea
più alta e nobile che esista: il Comunismo, che è “la gioventù del mondo”. A questo
serve anche il programma politico che presentiamo.
Invitiamo tutti compagni a studiare e approfondire il documento
congressuale, a contribuire al suo miglioramento con riflessioni, proposte, consigli
ma, soprattutto, con un’appassionata militanza. Il Partito Comunista non si costruisce
a tavolino, ma con l’impegno e la lotta di tutti e di ciascuno.
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PARTE PRIMA
1) Non è fallito il socialismo ma la sua revisione.
Consideriamo (fortunatamente) terminata la stagione dell’eclettismo
dubbioso, dell’esaltazione dei particolarismi che, in questi ultimi anni, ha contribuito a
distruggere identità e prospettiva per chi voleva richiamarsi con coerenza al
comunismo, per poi ridursi infine al nulla teorico ed organizzativo. In questo percorso,
appunto da comunisti, prendiamo “in carico” la storia del movimento comunista
internazionale e rivendichiamo la “spinta propulsiva” della Rivoluzione d’Ottobre, la
costruzione del Socialismo in URSS e la figura di Stalin, continuatore dell’opera di
Lenin, indicando nei processi di revisionismo di quella esperienza una delle cause del
fallimento che, appunto, si ascrive esclusivamente alla sua degenerazione e non certo
alla sua essenza. Il fallimento dell’Urss è il fallimento del revisionismo, da Khrusciov
a Gorbaciov.
NON E’ FALLITO IL SOCIALISMO, MA LA SUA REVISIONE!!!
Sarebbe un po’ come dire, guardando oggi alla miseria della politica e della società
italiana, che la colpa è dei partigiani che hanno fatto la Resistenza. In tal senso, la
figura di Stalin non va presa come “feticcio”, ma servirà, assieme a Marx, Engels,
Lenin, Gramsci e agli altri grandi della ”nostra” storia, da una parte come punto
teorico di attualizzazione della teoria marxista-leninista e, dall’altra, come
“spartiacque” per la costruzione pratica del partito. In Italia la dittatura della borghesia
ti “consente” addirittura (sino ad oggi) di esser “comunista” ma non sopporta, non
ammette lo “stalinismo”.
Sono molti (troppi) quelli che si sono piegati a questo diktat in Italia,
(peraltro neanche Stalin si definiva stalinista, il marxismo-leninismo è termine di
riferimento politico e ideologico): chi non se la sente di rispondere adeguatamente al
pensiero unico della borghesia non potrà mai contribuire realmente alla costruzione
del Partito Comunista. Di fronte alla palese dittatura della borghesia globalizzata
serve sviluppare il concetto della dittatura proletaria, da cui nessuna parte del popolo
ha nulla da temere, in quanto vera “democrazia di tutti”.
Il 7 novembre 1917, milioni di operai, contadini e soldati, guidati da Lenin,
capo del Partito Bolscevico, compirono, per la prima volta nella storia dell’umanità, la
più grande rivoluzione popolare in grado di scalzare dal potere la borghesia,
instaurando un nuovo potere operaio e popolare fondato sui Soviet come base del
nuovo Stato Socialista.
Ciò avvenne per il concentrarsi, in quel paese, di alcune contraddizioni del
capitalismo che lo portarono ad essere l’anello debole della catena imperialista, ma
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anche per la costruzione, nel corso di lunghi anni, di una forte direzione politica
rivoluzionaria che seppe coniugare, in ogni fase di sviluppo degli avvenimenti, una
giusta analisi di classe dell’imperialismo e del capitalismo ad una audace e tempestiva
determinazione dei compiti dell’avanguardia organizzata della classe operaia e del
popolo: il Partito Comunista.
Solo così si poté, nel breve volgere di pochi giorni, spostare i rapporti di
forza a favore delle forze proletarie ed instaurare il potere dei soviet, sconfiggere la
reazione interna dei capitalisti e dei proprietari terrieri e successivamente, nel corso di
una lunga guerra civile, respingere l’attacco di 15 eserciti stranieri, che si scatenarono
nel primo feroce attacco contro la Russia Sovietica al fine di uccidere nella culla la
giovane rivoluzione, nell’interesse del capitale finanziario internazionale.
La storia dello stato, che, dopo la vittoria contro l’invasione straniera, si
chiamerà Unione Sovietica è la storia della costruzione del primo stato socialista del
mondo che dal 1937 diventerà la seconda potenza industriale del mondo. E che, con la
forza economica e politica accumulata, seppe respingere il secondo proditorio attacco
delle forze imperialiste europee e mondiali nel 1941, questa volta nella forma delle
armate nazi-fasciste, inseguendo il nemico fino alla sua capitale, Berlino, issando sulla
sede del Reichstag la bandiera rossa dell’Unione Sovietica e della rivoluzione
proletaria.
La storia del primo stato socialista terminerà nel 1991 con la restaurazione
del capitalismo e la vanificazione delle grandi conquiste sociali che in
quell’esperimento si realizzarono, a causa delle pressioni internazionali, ma
soprattutto, dell’avvento nella sua direzione politica di forze che, sulla base di una
profonda revisione dei principi e dei valori del marxismo-leninismo, a partire dal 1953
e nel corso dei decenni successivi, cominciarono ad inseguire la chimera della
coniugazione della pianificazione con il mercato, di fatto inseguendo il modello del
capitalismo nella competizione internazionale, subendone la profonda influenza fino a
diventarne subalterni ed infine sconfitti.
Questo triste epilogo della storia del socialismo realizzato nel corso del XX secolo,
ben lungi dal far venir meno le ragioni dell’emancipazione proletaria, è, per tutti i
comunisti, fonte di grandi insegnamenti.
Innanzitutto, è la conferma della tesi leninista che, anche dopo una o più
sconfitte, la borghesia non rinuncia ai tentativi di restaurazione del proprio potere, a
cui si può resistere vittoriosamente soltanto consolidando il potere popolare e non
scimmiottando le leggi del suo ordinamento sociale.
Inoltre, si conferma valida la tesi che soltanto con una forte politica di competizione, a
livello internazionale, il socialismo può contrastare l’egemonia del capitalismo e
limitarne sempre più il campo d’azione, e non con la cosiddetta politica di “pacifica
coesistenza” perseguita dal XX congresso del PCUS in poi.
Infine, apprendiamo, da tutta la storia del ‘900 che la lotta al revisionismo
politico ed ideologico in seno al movimento operaio e comunista deve, sempre, essere
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condotta apertamente e senza omissioni, coinvolgendo in essa non solo i militanti di
partito ma le più vaste masse popolari che, solo se informate e coscienti del proprio
ruolo storico, possono essere permanentemente protagoniste della costruzione della
nuova società.
Sulla base di questi principi e dagli insegnamenti tragici che ci vengono dalla
storia, noi confermiamo l’attualità di una identità comunista e la necessità di
ricostruire, allo stesso tempo, il Partito Comunista in Italia e l’unità rivoluzionaria del
movimento comunista internazionale, traendo forte ispirazione dalla nostra storia, a
partire dall’esempio grande e universale della Rivoluzione Proletaria e Socialista
d’Ottobre, che ha aperto una nuova fase nella storia dell’umanità con la costruzione
del Socialismo nell’Urss. Ma impariamo anche dagli errori che hanno portato alla
restaurazione del capitalismo nei Paesi dell’Est.
Facendo tesoro di tutto questo, con il capitalismo nella sua fase finale
imperialista, i comunisti e i popoli sapranno realizzare nuove rivoluzioni
proletarie per costruire col potere operaio e popolare il Socialismo-Comunismo.
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2) La lotta per il socialismo – comunismo, contro il revisionismo politico ed
ideologico.
Per ridare credibilità e capacità di attrazione, prima di tutto fra le masse
popolari, agli ideali del socialismo e del comunismo al fine di rimotivare la stessa
utilità politica e sociale dei partiti comunisti, è necessario ritornare alle origini del
movimento comunista, per riscoprirne le basi politiche ed ideologiche e le finalità
storiche che ne determinano le ragioni della propria esistenza.
E’ nel Manifesto del Partito Comunista del 1848 di Marx ed Engels che, per
la prima volta, troviamo la esposizione organica dell’analisi e dei principi fondativi
del socialismo-comunismo. Qui, la rivoluzione comunista viene definita come la più
radicale rottura con i tradizionali rapporti di proprietà e con le idee tradizionali,
indicando come obbiettivo della prima tappa della rivoluzione operaia l’elevarsi del
proletariato a classe dominante, per raggiungere la democrazia, intesa nel suo
significato autentico di potere popolare.
Il proletariato, viene detto nel testo, userà il suo dominio politico per togliere
via via alla borghesia tutto il capitale, per concentrare nelle mani dello Stato, ossia del
proletariato organizzato quale classe dominante, tutti gli strumenti di produzione, e
per aumentare, con la massima rapidità possibile, la massa delle forze produttive,
procedendo attraverso progressive infrazioni al diritto di proprietà e dei rapporti
borghesi di produzione.
Le misure programmatiche, da attuarsi, a grandi linee, nei paesi più
progrediti, vanno in tale direzione e parlano di centralizzazione del credito nelle mani
dello Stato, mediante una banca nazionale con monopolio esclusivo, di
centralizzazione dei mezzi di trasporto in mano allo Stato, di moltiplicazione delle
fabbriche nazionali espropriate ai capitalisti privati, di espropriazione della proprietà
fondiaria ed impiego della rendita della terra per le spese dello Stato, di imposizione
fiscale prima progressiva poi –col nuovo sistema- ridotta ai minini termini, di
educazione pubblica e gratuita, del diritto e del dovere del lavoro per tutti. Queste
sono le nostre origini.
E che cosa fece la Comune di Parigi del 1871, che fu la prima
materializzazione del potere proletario? Dovette riconoscere, innanzitutto, che la
classe operaia, una volta giunta al potere, non può continuare ad amministrare con la
vecchia macchina statale, bensì, per non perdere di nuovo il potere, da una parte deve
eliminare tutto il vecchio apparato repressivo già usato contro di essa, e dall’altra deve
difendersi contro i suoi stessi deputati ed impiegati dichiarandoli revocabili senza
alcuna eccezione ed in ogni momento.
La Comune applicò, a questo proposito, due misure infallibili. In primo
luogo, assegnò elettivamente tutti gli impieghi, amministrativi, giudiziari, educativi,
per suffragio generale degli interessati e con diritto di revoca, in qualsiasi momento,
da parte di questi. In secondo luogo, per tutti i servizi, da quelli inferiori ad i più
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elevati, pagò solo il salario che ricevevano gli altri lavoratori, cosicché, il più alto
assegno che essa pagava era di 6mila franchi. In questo modo veniva posto un freno
sicuro alla caccia agli impieghi ed al carrierismo.
Questi principi e queste misure vennero messe in discussione in seno ai
partiti del movimento operaio già sul finire del XIX secolo. Eduard Bernstein, nella
sua opera del 1899, “Le premesse del socialismo” affermò che la socialdemocrazia
avrebbe dovuto trasformarsi da partito di rivoluzione sociale in partito democratico di
riforme sociali, negando il carattere scientifico del socialismo, il processo di
impoverimento progressivo e di proletarizzazione come effetto delle contraddizioni
capitalistiche e la necessità della dittatura del proletariato come sbocco della
rivoluzione e strumento della costruzione del socialismo.
Toccò a Lenin ristabilire la vera dottrina di Marx della rivoluzione e del
socialismo, partendo dalla confutazione puntuale delle deformazioni e della revisione
profonda a cui era stata sottoposta. A partire, innanzitutto, dalla dottrina dello Stato,
ribadendo in “Stato e Rivoluzione” che lo Stato è l’organo di dominio di classe,
strumento di oppressione di una classe da parte di un’altra. E, poi, polemizzando con
Karl Kautsky che, dopo pochi mesi dalla Rivoluzione d’ottobre, aveva iniziato
un’operazione di demolizione dell’operato dei bolscevichi accusandoli di adottare
mezzi antidemocratici. Nell’opuscolo “ La rivoluzione proletaria ed il rinnegato
Kautsky”, Lenin ricorda, tra l’altro, che Marx ed Engels per ben quaranta anni,
avevano parlato della necessità storica per il proletariato di spezzare la macchina
statale borghese per poter avviare la costruzione dello stato proletario e del
socialismo, tenendo conto delle rivoluzioni del 1848 e, ancor più, del 1871.
Ma, soprattutto, in quest’opera, Lenin compie una analisi delle possibilità
della restaurazione capitalistica dopo la vittoria della rivoluzione proletaria che, alla
luce degli avvenimenti del XX secolo, assume tonalità profetiche. Polemizzando,
appunto, con Kautsky, che esaltava puramente i principi, ritenuti universali, della
democrazia borghese, Lenin ricorda che gli sfruttatori, cioè la borghesia, anche dopo
essere stati sconfitti dalla rivoluzione proletaria, mantengono ancora molti privilegi e
condizioni di vantaggio rispetto ai proletari, cosicché essi non si piegheranno mai alla
decisione della maggioranza degli sfruttati, e poiché il passaggio dal capitalismo al
comunismo abbraccia un’intera epoca storica, negli sfruttatori permane la speranza
della restaurazione del loro potere che si tramuta in tentativi di realizzarla.
Il revisionismo politico ed ideologico del marxismo-leninismo, d’altronde, è
il riflesso intellettuale della situazione sociale di determinati ceti, intermedi o settori
della stessa classe operaia che, ritengono di potere trovare soluzioni alla propria
condizione sociale nell’ambito di un capitalismo improntato ai principi del cosiddetto
“ sistema di mercato sociale” come terreno di possibile compromesso fra interessi
contrapposti. Esso ha trovato, pertanto terreno fertile per svilupparsi non solo nella
socialdemocrazia, ma anche nel movimento comunista, a partire dai paesi dell’est
europeo e nella stessa Unione Sovietica.
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Se l’Unione Sovietica è sopravvissuta nei primi anni, che sono stati quelli
della sua maggiore debolezza, partendo da condizioni di sottosviluppo di carattere
medioevale, dopo aver subito il primo attacco concentrico di carattere economico e
militare di molti stati capitalisti, costituendosi, poi, come forza determinante nella
sconfitta del nazismo e del fascismo, è perché i dirigenti del PCUS erano guidati da
un’analisi di prospettiva che fece dire a Stalin nel 1931, rispondendo a coloro che
chiedevano un rallentamento dei ritmi di sviluppo economico ed industriale: “ Siamo
rimasti indietro di 50 o 100 anni rispetto ai paesi più evoluti. Dobbiamo colmare
questo divario nell’arco di dieci anni. O ci riusciamo o saremo stritolati.”
L’esito della Seconda Guerra Mondiale e l’effetto che il 1945 provocò nel
mondo fu grande. Libertà, democrazia, socialismo erano apparsi a tanti combattenti i
veri obbiettivi per cui lottare e tutta la situazione politica conobbe un generale
spostamento a sinistra. I comunisti facevano progressi non solo in Europa orientale ma
in tutto il mondo, passando da 1,5 a 4,8 milioni di iscritti e conseguendo, nelle
elezioni, percentuali di voti che oscillavano fra il 10 ed il 30 per cento in quasi tutti i
paesi dell’Europa occidentale. L’URSS iniziò una nuova opera di ricostruzione di cui
il fattore decisivo fu una massiccia politica di investimenti statali in economia,
superiori a quelli degli anni ’30, che permisero la realizzazione di un ulteriore balzo
nella sua potenza industriale, con risultati spettacolari nel duello con gli USA.
Ciò avverrà, in un contesto di divisione dell’Europa e del mondo in blocchi
contrapposti che vedrà, ben presto, le potenze capitalistiche occidentali lanciare la
Guerra Fredda contro l’Unione Sovietica ed i paesi di democrazia popolare dell’est
europeo.
Inoltre, da parte di alcuni partiti comunisti occidentali, si compresero in
ritardo gli obbiettivi perseguiti dall’imperialismo americano, confidando essi in una
più duratura alleanza delle potenza vincitrici della guerra, sottovalutando la volontà
dell’imperialismo nord-americano di cacciare i comunisti dal governo dei paesi della
parte occidentale dell’Europa. Emersero, in questi anni, nel movimento comunista,
nuovamente, i difetti classici di elettoralismo e parlamentarismo che erano tipici, da
sempre, del riformismo e dell’opportunismo e che vennero fortemente criticati nella
riunione del Cominform del settembre 1947.
Cominciarono a comparire tesi quali la via parlamentare e nazionale al
socialismo che verranno generalizzate dopo il XX Congresso del PCUS, che nel PCI
avrà una sua formulazione completa, nel contesto della elaborazione della “via italiana
al socialismo” nel suo 8° Congresso del 1956. Si tratterà di una concezione del
socialismo che nasce, non da una rottura rivoluzionaria, ma da una evoluzione sulla
base delle trasformazioni progressive accumulate nel quadro del capitalismo, fondata
su di una revisione della teoria leninista dello Stato, che sottovaluta il carattere di
classe della democrazia borghese identificata sempre più come “democrazia” tout
court.
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La situazione postbellica non ampliava soltanto le possibilità di successo del
movimento comunista internazionale, ma creava anche le premesse per l’insinuarsi
dell’ideologia borghese nelle sue fila, a partire dal suo Partito guida, il PCUS.
La coalizione antifascista che aveva permesso la vittoria nella guerra contro il
fascismo ed il nazismo, alimentava delle illusioni sull’imperialismo in certi settori del
movimento, portandoli a pensare che da parte degli alleati nel conflitto mondiale non
sarebbe venuto alcun pericolo per il socialismo, ma anzi tale alleanza si sarebbe potuta
articolare stabilmente, a livello nazionale, in ampi fronti popolari antifascisti e
democratici, attenuando o cessando la lotta contro l’imperialismo, in particolare quello
statunitense il che avvenne, dopo la morte di Stalin, con l’avvio della politica di”
coesistenza pacifica” con la sanzione definitiva nel XX Congresso del PCUS del
1956.
Tale posizione si fondava sulla ricerca di un compromesso, di una durevole e
pacifica convivenza tra socialismo ed imperialismo che ignorava la naturale
aggressività di quest’ultimo, ponendo il socialismo in condizioni di particolare
debolezza e vulnerabilità verso l’imperialismo stesso.
Un altro approdo del XX Congresso del PCUS, in termini di revisione
politica ed ideologica, fu la deformazione e falsificazione del concetto stesso di
socialismo. Fino ad allora, due tesi erano ritenute valide come fondamento del
marxismo-leninismo:
1) Il potere della classe operaia, guidata da un partito comunista come
premessa politica per l’esistenza di uno Stato Socialista.
2) L’applicazione in ogni paese, tenuto conto delle particolarità nazionali, di
regole e leggi di validità generale durante il processo di costruzione del
socialismo, al fine di garantirne il successo. Secondo l’impostazione di
Khrusciov, invece, l’edificazione del socialismo non era più legata alla classe
operaia ed alla guida di un partito comunista, ma sarebbe potuta avvenire
nella libera competizione delle forze più disparate, anche borghesi, ed in
queste circostanze, il Parlamento, con la conquista al suo interno di una
solida maggioranza delle forze di sinistra, sarebbe potuto essere trasformato
in strumento di democrazia per i lavoratori.
In un primo momento, queste tesi sembrarono conquistare il consenso della
quasi totalità del movimento comunista internazionale, con le sole significative
eccezioni del Partito Comunista Cinese e del Partito del Lavoro d’Albania. Tuttavia il
tragico epilogo,nel 1973, dell’esperienza del Governo di Unità Popolare di Salvador
Allende in Cile, confermò che la vittoria elettorale non è sufficiente a garantire il
successo del processo rivoluzionario.
Ma, invece di trarre da questo insegnamento, l’occasione per la necessaria
rettifica politica e teorica, consistenti partiti comunisti occidentali svilupparono la loro
elaborazione politico-ideologica nella direzione di quello che venne chiamato
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“eurocomunismo” che rappresentò la sintesi più avanzata del revisionismo moderno,
arrivando ad affermare che era possibile un incontro di carattere strategico con le
forze borghesi, costruire il socialismo sotto l’ombrello della NATO e costruire il
socialismo ogni giorno, passo dopo passo, senza conquista del potere .
Infine, il risultato della deformazione revisionista della teoria del socialismo è
stato la liquidazione del socialismo in Unione Sovietica e nei paesi dell’est europeo
attraverso tappe che si sono sviluppate con:
1) La sostituzione di una pianificazione economica seria e centralizzata con il
tentativo di combinazione di economia pianificata e regolazione della
produzione attraverso il mercato.
2) Il rapido incremento del divario produttivo rispetto ai paesi capitalisti
sviluppati, a causa dell’attenuarsi della rivoluzione tecnico-scientifica..
3) La demolizione delle fondamenta dell’economia socialista con l’introduzione
della “ economia di mercato socialista “ che portò alla rovina i kolchoz,
costretti a cedere la propria terra per ritornare alla coltivazione attraverso
aziende famigliari private.
4) La definitiva liquidazione dell’economia fondata sulla proprietà collettiva e
popolare ed il ritorno al capitalismo integrale.
Condizione fondamentale, quindi, per ricostruire veri partiti comunisti in tutto il
mondo, in grado di riprendere con vigore la lotta anticapitalistica e per il socialismo, è
la critica dei capisaldi del revisionismo antico e moderno, rimettendo al centro della
riflessione politica e teorica i principi fondamentali del marxismo-leninismo che sono
stati confermati dalla storia.
L’accentuarsi della crisi del capitalismo esalta i suoi aspetti più autoritari ed
antidemocratici. I parlamenti borghesi, oltreché scavalcati dallo strapotere dei governi,
perdono sempre più legittimità a causa di leggi elettorali che, tramite sbarramenti,
premi di maggioranza ecc., cercano di escludere dalle istituzioni la rappresentanza
politica, il ruolo della classe operaia e del conflitto sociale. I comunisti, quindi,
ritengono che, ai fini della conquista del potere da parte della classe operaia, la lotta
parlamentare non sia determinante, ma debba essere comunque praticata, dove e
quando possibile ed utile, in quanto rappresenta una verifica dell’efficacia del lavoro
svolto tra le masse ed una tribuna da cui diffondere il programma comunista.
Il Partito Comunista deve prioritariamente lavorare per costruire l’unità della
classe operaia e per costruire attorno ad essa un blocco di forze sociali che raggruppi
lavoratori della città e della campagna, giovani e donne del mondo del precariato,
strati di piccola borghesia, lavoratori della scienza e della cultura, piccoli
commercianti, piccoli imprenditori, oppressi dal capitale monopolistico e
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proletarizzati dalla crisi che, organizzato in un Fronte Unitario dei Lavoratori, diventi,
sotto la guida del Partito, il soggetto della rivoluzione proletaria, con la finalità di
abbattere il capitalismo, strappare il potere politico alla borghesia, instaurare la
dittatura proletaria come più alta ed estesa forma di democrazia ed avviare la
costruzione del socialismo-comunismo.
La rivoluzione socialista deve essere correttamente intesa come processo e
guidata dal Partito, con una attenta valutazione delle forme di lotta da adottare, degli
obiettivi tattici di breve e medio periodo da perseguire, in modo da non cadere in
controproducenti fughe in avanti, ma facendo sì che ogni tappa acquisita segni un
punto più avanzato della lotta verso l’obiettivo finale.
Inoltre, il Partito deve sempre tenere presente la dimensione internazionale e
l’influenza che i fattori esterni al Paese esercitano sulla situazione interna,
sviluppando la solidarietà proletaria internazionalista ed i legami con i Partiti
Comunisti ed Operai degli altri paesi, scambiando con loro analisi, opinioni ed
esperienze, sostenendo attivamente chi lotta contro l’oppressione imperialista.
La battaglia di opposizione ai governi borghesi di ogni tipo, condotta, non tanto
nelle aule parlamentari, quanto nelle piazze, nei luoghi di lavoro e di studio, vedrà il
suo esito determinato dalla capacità del blocco sociale organizzato nel Fronte di
mettere in crisi qualsiasi governo borghese attraverso la lotta di massa,
coinvolgendovi strati sempre più ampi di lavoratori, di giovani e di donne.
Saranno i rapporti di forza che concretamente si determineranno, lo sviluppo
concreto delle forme di lotta e le sue dimensioni, a stabilire se il nuovo governo del
Fronte sarà espressione dello stesso popolo in lotta, in un primo tempo senza passaggi
elettorali, oppure se tale governo si formerà nell’ambito dei meccanismi formali della
democrazia borghese, cioè attraverso una maggioranza parlamentare scaturita da
elezioni politiche. Ciò che sarà determinante sarà la creazione di un legame
indissolubile tra questo governo e le masse popolari, lo stimolo per una loro sempre
più ampia ed attiva partecipazione al controllo ed alla gestione della cosa pubblica. Il
Partito, come avanguardia organizzata della classe operaia ha ed avrà un ruolo
determinante nel guidare il Fronte ed il suo governo nel processo rivoluzionario e
nella costruzione del socialismo-comunismo.
La dittatura proletaria non vieta peraltro l’esistenza di altri partiti ed
organizzazioni, purché agiscano nell’ambito del sistema socialista e ne rispettino
Costituzione e leggi. Al contrario, favorisce lo sviluppo e l’articolazione di quella che
Gramsci definiva “ società civile “ per distinguerla dalla “ società politica “, cioè
dall’organizzazione statuale. La socializzazione dei mezzi di produzione consente alla
società nel suo complesso di beneficiare del plusvalore prodotto, destinato non più al
profitto privato, ma allo sviluppo della società intera. Con la socializzazione dei mezzi
di produzione si attua la liberazione del lavoro dallo sfruttamento e si pongono le basi
per la liberazione dal lavoro come attività forzata per la sopravvivenza. La
socializzazione non può e non deve essere immediatamente totale. Essa deve avvenire
per gradi, partendo dai settori a più alta concentrazione di capitale e dai settori
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strategici. Il Partito deve agire per promuovere le associazioni di piccoli produttori
privati in cooperative da inserire, quando ve ne siano le condizioni di concentrazione
ed accumulazione, nella proprietà sociale. L’allargamento progressivo dei rapporti
socialisti di produzione, il graduale superamento del carattere mercantile della
produzione e dei rapporti di scambio basati sul denaro sono gli obiettivi irrinunciabili
del Partito in questa fase.
Per allocare le risorse e stabilire gli obbiettivi produttivi nel modo più efficace e
più funzionale al soddisfacimento dei bisogni della società, la pianificazione deve
essere centralizzata e strettamente connessa all’esercizio del controllo dei lavoratori,
che deve garantire il corretto e preciso flusso di informazione e comunicazione: dei
bisogni e dei dati dal basso verso l’alto, dell’entità delle risorse allocabili e degli
obbiettivi dall’alto verso il basso, vigilando sulla realizzazione di quanto stabilito con
gli eventuali correttivi.
Il principio generale della distribuzione socialista si fonda su due affermazioni.
La prima, ”da ciascuno secondo le sue capacità“ afferma un principio di giustizia
sociale in base a cui nessuno, neppure la società nel suo complesso, ha il diritto di
chiedere ad un suo membro più di quanto questi può dare, valorizzando le sue capacità
come fonte di ricchezza sociale, impegnando così ciascuno a contribuire al progresso
ed al benessere della società. La seconda, ”a ciascuno secondo il suo lavoro“ stabilisce
il principio che il lavoro individuale non sia più sfruttato dal padrone privato che si
appropria del prodotto del lavoro altrui, ma sia remunerato in termini di salario diretto,
indiretto (diritto alla casa, alla sanità gratuita, alla cultura, alla sicurezza sul lavoro,
all’assistenza della maternità ed infanzia, alla garanzia del posto di lavoro, ecc.) e
differito (pensione) sulla base del contributo che ciascuno dà allo sviluppo della
società, misurato in ore di lavoro.
Con la crescita della ricchezza sociale accumulata e con l’estensione dei rapporti
socialisti di produzione a tutti i settori e livelli dell’economia, con la definitiva
trasformazione della proprietà cooperativa e collettiva in proprietà sociale, il principio
generale della distribuzione evolverà in “ da ciascuno secondo le sue capacità, a
ciascuno secondo i suoi bisogni “. Poiché ogni individuo può avere bisogni diversi da
un altro, questo principio costituisce la negazione dell’appiattimento, in quanto
afferma l’uguaglianza nel riconoscimento della diversità delle personalità e dei
bisogni. Esso costituisce la base del funzionamento della distribuzione della società
comunista, la società dell’uguaglianza e della libertà vere nella quale la donna e
l’uomo, finalmente liberi dallo sfruttamento, dal bisogno, dall’ignoranza e dalla
superstizione, diventeranno artefici del proprio destino.
15
3) L’insegnamento di Gramsci oggi.
Leggere e studiare Gramsci è un’avventura per molti versi difficile ed
eccitante. Com’è noto i suoi scritti del carcere sono una serie quasi di appunti sparsi, in
cui ci si può addentrare o seguendo l’ordine cronologico, oppure seguendo le chiavi di
lettura delle edizioni critiche che propongono degli assemblaggi scelti dagli editori tra
prime, seconde e a volte anche terze riscritture dell’Autore. La prima modalità è
certamente la più avvincente: la sensazione è quella di essere presi per mano ed essere
condotti in una foresta di pensieri di rara profondità, talvolta legati all’attualità che
Gramsci viveva nel suo tempo, talvolta con spunti profondamente attinenti all’attualità
odierna. La seconda modalità è certamente quella più agevole ed efficiente per il
lettore che, come sempre più spesso accade, può dedicare un tempo limitato a questa
lettura.
Su Gramsci è stato scritto molto, moltissimo, molto di più di quanto lui stesso
abbia scritto. Questo è un bene, perché ha tenuto il suo pensiero al centro
dell’attenzione del mondo politico e culturale italiano e, molto di più, non italiano. Ma
purtroppo bisogna dire che le cose che sono state scritte sul suo pensiero e sulla sua
vita sono state spesso motivate da disegni ideologici e politici che si sono sovrapposte
al pensiero originario del grande rivoluzionario e dirigente politico. Pertanto il nostro
parere è: se non avete mai letto qualcosa su Gramsci, non cominciate a farlo ora e
iniziate a leggere direttamente le sue pagine: vi affascineranno e troverete da soli i
vostri spunti di riflessione. Se invece siete già stati sommersi dalle tante polemiche
che sono nate dalla prima pubblicazione delle sue opere a oggi, forse sarebbe il caso di
ascoltare il nostro punto di vista. C’è tanto da confutare nelle cose che sono state
scritte su Gramsci, sulla sua vita e sulle sue opere, e non si può fare che
sommariamente nelle poche pagine che ci ritagliamo qui.
Sulla vita. Come mai Gramsci scrive febbrilmente nei primi anni del carcere e
poi si dedica quasi esclusivamente a rivedere i testi da lui scritti, sostanzialmente non
producendo nulla di nuovo? Come mai nei due anni di vita dopo l’uscita dal carcere
non riprende la scrittura, sebbene sottoposto a libertà vigilata, ma certo in condizioni
molto più libere di quelle carcerarie? Sono state imbastite delle vere e proprie spy-
story su questi fatti, che coinvolgono il rapporto di Gramsci col Partito Comunista
d’Italia e in particolare con Togliatti, col Partito Comunista dell’URSS, storie tutte
centrate su un unico assunto: Gramsci durante la prigionia cominciò a dissentire dalla
politica ufficiale dell’Internazionale Comunista, ma non poteva rivelarlo perché
ricattato in Italia a causa della sua condizione e in URSS a causa della presenza in
quel paese della moglie. La base documentaria di queste ipotesi sta sostanzialmente in
una sola lettera, quella in cui Gramsci auspicava che nel partito bolscevico si
ritrovasse l’unità in seguito ai violenti scontri ideologici e politici che coinvolsero la
sua dirigenza. Chiunque avesse mai letto le pagine dei Quaderni potrà sempre e solo
trovare critiche anche pesanti al pensiero di Trotskij (chiamato nel suo linguaggio
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crittografico col nome di Leone Davidovi) e apprezzamenti senza riserve per l’opera
politica e ideologica di Giuseppe Bessarione (Josif Stalin), definito il più genuino
interprete attuale della filosofia della prassi (il materialismo dialettico). Anche la
polemica che si è sollevata riguardante la scomparsa dell’ultimo dei suoi quaderni
lascia molto perplessi: ammesso che i quaderni siano 30 e non 29, in questo quaderno
mancante (o sottratto) cosa mai ci sarebbe stato? Qualcosa che contraddiceva a tal
punto i primi da risultare così scomodo per i dirigenti comunisti sovietici e italiani?
Insomma illazioni che non hanno alcuna base documentale.
Quanto alle condizioni di salute di Gramsci, negli ultimi anni di detenzione e
durante il periodo di libertà vigilata in clinica, erano talmente precarie da giustificare
ampiamente la sua impossibilità di dedicarsi a nuovi approfondimenti o anche solo a
poter leggere o scrivere, almeno con la profondità dimostrata nei primi anni. Questo è
documentato dalla semplice lettura della cronistoria dei suoi quaderni e anche dalla
distribuzione temporale dei nuovi scritti e delle riletture. E questo dovrebbe mettere a
tacere ogni illazione su dissidi, ricatti e altre assurdità che possono avere cittadinanza
su romanzi di fantascienza politica ma non su seri studi di critica politica.
Sulla ideologia. È stato, ed è tutt’oggi, molto in voga classificare Gramsci come
pensatore, come filosofo. E in particolare associarlo al filone idealista italiano, che
vede in Benedetto Croce il suo massimo esponente. È vero che Gramsci non può che
partire dalla lettura del massimo e più influente filosofo italiano vivente all’epoca, ma
qual è il suo rapporto con lui? Questo rapporto è stato paragonato a quello che Marx
ha avuto con Hegel, ossia – si dice – del più fedele discepolo che ha continuato la sua
opera. Ora ciò si afferma in barba a tutti gli scritti che Marx e Engels, dal loro lato, e
Gramsci, dal suo, hanno prodotto. Ma forse non c’è peggior sordo di chi non vuol
sentire.
Come tutti i lettori di Marx ed Engels sanno, il materialismo dialettico è il
ribaltamento della dialettica idealista, è la restituzione del meccanismo dialettico dal
mondo delle idee a quello della materia, ma soprattutto è un ribaltamento che riporta il
pensiero, la filosofia, dalla sterile speculazione alla prassi, all’azione: è benzina per
l’azione politica del proletariato. Marx ed Engels non sono filosofi, sono dirigenti
politici della classe operaia, non lo sono per loro espressa dichiarazione, ma
soprattutto per la loro storia politica. Lo stesso va detto con forza di Gramsci, con le
sue stesse parole: «Si potrebbe scrivere un nuovo Anti-Dühring che potrebbe essere
un “Anti-Croce” da questo punto di vista, riassumendo non solo la polemica contro la
filosofia speculativa, ma anche quella contro il positivismo e il meccanicismo e le
forme deteriori della filosofia della prassi.» (Quaderno 8). Non bastano le ripetute
affermazioni del Gramsci del carcere, in cui esplicitamente dice che la sua filosofia
della prassi è il materialismo dialettico, quello fondato da Marx e che vedeva allora in
Stalin il più fedele interprete? Non bastano le pagine di vere lezioni di materialismo
storico che Gramsci ci impartisce sul Risorgimento italiano e la sua impareggiabile
17
analisi di classe, sul rapporti tra intellettuali e classi, sul fordismo e le origini e le
ricadute che esso ha sulla base materiale americana e sulla sua sovrastruttura?
Purtroppo, una volta che si è andata affermando questa falsità, molti filosofi e
politici italiani e non, che – invece di partire dalla lettura critica di Gramsci – si sono
adagiati su questa lettura fatta da altri, hanno finito per regalare Gramsci all’idealismo,
anziché difenderlo come grande dirigente del movimento comunista internazionale
che ha nel materialismo storico e dialettico il suo strumento di lotta più affilato.
Sulla politica. Qui le cose si fanno ancora più complicate, perché si intersecano
con tutta la storia del PCI dall’immediato dopoguerra, fino al suo scioglimento.
Gramsci è l’antesignano delle “vie nazionali al socialismo”? La sua concezione della
conquista dell'”egemonia” e della guerra di posizione che conquista una “casamatta”
dietro l’altra, sottraendola al nemico, è l’antesignana politica della “lunga marcia nelle
istituzioni” che il PCI iniziò al momento della famosa “svolta di Salerno”? La sua
concezione della “società civile”, dell'”Occidente” contrapposto all'”Oriente”, è una
concezione interclassista che rigetta la dittatura del proletariato e prefigura una
alleanza tra “produttori” che contrasta le forze reazionarie intese solo come quelle
“parassitarie”?
Noi crediamo fermamente di no. Questa lettura è profondamente sbagliata.
Basta leggere le pagine di Gramsci nell’originale per rendersi conto di quanto
profondamente marxista-leninista fosse il suo pensiero, di quanto tutta la sua analisi
fosse volta a scoprire le crepe di un sistema capitalistico-imperialista, che in Europa
era riuscito a frenare l’impeto rivoluzionario e passava al contrattacco, di quanto la sua
concezione del Partito e dello Stato fosse indirizzata sempre e solo alla conquista del
potere politico da parte dell’avanguardia rivoluzionaria.
Chi aveva interesse a piegare, a torcere il suo pensiero per scopi legati
all’attualità e per giustificare e trovare “padri nobili” alle proprie scelte politiche, fece
un’operazione – prima di tutto culturale – che segnò pesantemente l’influenza che
Gramsci ebbe in Italia e che invece avrebbe potuto avere tutt’altro segno. Anche la
scelta di inserire Gramsci nell’empireo dei “pensatori” italiani, persino dei grandi
“scrittori”, fu una scelta tesa ad accreditare il PCI come grande partito “nazionale” e i
suoi dirigenti come fondatori della nuova società italiana che usciva dal fascismo. La
scelta di quella politica imposta a tutto il Partito comunista italiano, l’idea che si
potessero “spostare gli equilibri” su un terreno più “avanzato” fa parte della revisione
politico-ideologica che abbiamo analizzato nelle pagine precedenti.
La lettura di Gramsci, del Gramsci vero, del grande dirigente del proletariato
italiano e internazionale, del grande teorico del marxismo-leninismo, è quello che noi
oggi sottoponiamo all’attenzione del proletariato internazionale, dei popoli
antimperialisti e anticapitalisti, che vedono nel socialismo la prospettiva rivoluzionaria
che può e deve cambiare il mondo.
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Necessità di una politica ideologica di massa
Antonio Gramsci ha sempre attribuito un’importanza rilevante alla
preparazione ideologica non solo dei militanti comunisti ma delle stesse masse
popolari, al fine di condurre una efficace lotta contro il capitalismo e per il socialismo.
In uno scritto del maggio 1925 pubblicato su “ Lo Stato operaio “ del marzo-aprile
1931 egli afferma infatti che: “Noi sappiamo che la lotta del proletariato contro il
capitalismo si svolge su tre fronti: quello economico, quello politico e quello
ideologico, ma la lotta economica non può essere disgiunta dalla lotta politica, e né
l’una né l’altra possono essere disgiunte dalla lotta ideologica. Perché la lotta
sindacale, diventi un fattore rivoluzionario, occorre che il proletariato l’accompagni
con la lotta politica, cioè che il proletariato abbia coscienza di essere il protagonista
di una lotta generale che investe tutte le questioni più vitali dell’organizzazione
sociale, cioè abbia coscienza di lottare per il socialismo. I tre fronti della lotta
proletaria si riducono ad uno solo, per il Partito della classe operaia, che è tale,
appunto, perché riassume e rappresenta tutte le esigenze della lotta generale. Perciò
il Partito deve assimilare il marxismo e deve assimilarlo nella sua forma attuale,
come leninismo.”
Aspra e sferzante è infatti, a questo proposito, la critica di Gramsci alle
tradizioni del movimento operaio italiano: “L’attività teorica, la lotta cioè sul fronte
ideologico, è sempre stata trascurata nel movimento operaio italiano. In Italia, il
marxismo (all’infuori di Antonio Labriola) è stato studiato più dagli intellettuali
borghesi, per snaturarlo e rivolgerlo ad uso della politica borghese, che dai
rivoluzionari. Mai, le Direzioni del Partito immaginarono che per lottare contro la
ideologia borghese, per liberare cioè le masse dalla influenza del capitalismo,
occorresse prima diffondere nel Partito stesso la dottrina marxista ed occorresse
difenderla da ogni contraffazione. Per lottare, quindi, contro la confusione che si è
andata in tal modo creando, è necessario che il Partito intensifichi e renda
sistematica la sua attività nel campo ideologico, che esso ponga come un dovere del
militante la conoscenza della dottrina del marxismo-leninismo, almeno nei suoi
termini più generali.”
E ancora, sempre nello stesso scritto, in merito all’organizzazione del Partito:
“Il nostro Partito non è un partito democratico, almeno nel senso volgare che
comunemente si dà a questa parola. E’ un Partito centralizzato nazionalmente ed
internazionalmente. Perché il Partito viva e sia a contatto con le masse occorre che
ogni membro del Partito sia un elemento politico attivo, sia un dirigente. Appunto
perché il Partito è fortemente centralizzato, si domanda una vasta opera di
propaganda e di agitazione nelle sue file, è necessario che il Partito, in modo
organizzato, educhi i suoi membri e ne elevi il livello ideologico per guidare, in
qualunque condizione, la lotta della classe operaia e delle masse popolari. La
preparazione ideologica di massa è quindi una necessità della lotta rivoluzionaria, è
19
una delle condizioni indispensabili della vittoria.”
Il Partito Comunista
In diversi momenti della sua vicenda politica ed umana, Antonio Gramsci ha
trattato il tema della funzione storica e dell’organizzazione del Partito Comunista. In
un articolo pubblicato su “ L’Ordine Nuovo “ del 4 settembre e 9 ottobre del 1920 egli
afferma : “Il Partito Comunista è lo strumento e la forma storica del processo di
intima liberazione per cui l’operaio da esecutore diviene iniziatore, da massa diviene
capo e guida, da braccio diviene cervello e volontà; nella formazione del Partito
Comunista è dato cogliere il germe di libertà che avrà il suo sviluppo e la sua piena
espansione dopo che lo Stato operaio avrà organizzato le condizioni materiali
necessarie. Il Partito Comunista, anche come mera organizzazione si è rivelato forma
particolare della rivoluzione proletaria, compiuta dagli uomini e dalle donne
organizzati nel Partito Comunista, che nel Partito si sono plasmati una personalità
nuova, hanno acquistato nuovi sentimenti, hanno realizzato una vita morale che tende
a divenire coscienza universale e fine per tutta l’umanità.”
E, ancora, in un articolo su “L’Ordine Nuovo” dell’11 giugno 1921: “Il Partito
comunista è il partito politico, storicamente determinato, della classe operaia
rivoluzionaria. La classe operaia è nata e s’è organizzata sul terreno della
democrazia borghese, nel quadro del regime costituzionale e parlamentare. Ecco
perché,nelle varie fasi del suo sviluppo, essa ha appoggiato i partiti politici più
diversi. Con la creazione del Partito Comunista, la classe operaia rompe tutte le
tradizioni ed afferma la sua maturità politica. Essa vuole lavorare positivamente per
il proprio sviluppo autonomo di classe; essa pone la sua candidatura a classe
dirigente ed afferma di poter esercitare questa funzione storica solo in un ambiente
istituzionale diverso dall’attuale, in un nuovo sistema statale e non già nel quadro
dello Stato parlamentare burocratico.”
Sindacati e Consigli
Il ruolo dei consigli di fabbrica come cellula del futuro Stato operaio è stato
uno dei temi su cui Antonio Gramsci ha più riflettuto e scritto. Così, nell’editoriale de
“ L’Ordine Nuovo “ del 11 ottobre 1919 leggiamo: “L’organizzazione proletaria che
si riassume, come espressione totale della massa operaia e contadina, negli uffici
centrali della Confederazione del Lavoro, attraversa una crisi costituzionale. Gli
operai sentono che il complesso della “ loro “ organizzazione è diventato tale enorme
apparato, che ha finito per ubbidire a leggi proprie, intime alla sua struttura ed al suo
complicato funzionamento, ma estranee alla massa che ha acquistato coscienza della
sua missione storica di classe rivoluzionaria.
La dittatura proletaria può incarnarsi in un tipo di organizzazione che sia
specifico della attività propria dei produttori e non dei salariati, schiavi del capitale.
Il Consiglio di fabbrica è la cellula prima di questa organizzazione. Poiché nel
20
Consiglio tutte le branche del lavoro sono rappresentate, proporzionalmente al
contributo che ogni mestiere ed ogni branca di lavoro dà alla elaborazione
dell’oggetto che la fabbrica produce per la collettività, l’istituzione è di classe e
sociale. Perciò il Consiglio realizza l’unità della classe lavoratrice, da alle masse una
coesione ed una forma della stessa natura di quella da esse assunte nella
organizzazione generale della società. Il Consiglio di Fabbrica è il modello dello
Stato proletario. L’esistenza del Consiglio dà agli operai la diretta responsabilità
della produzione, li conduce a migliorare il loro lavoro, instaura una disciplina
cosciente e volontaria, crea la psicologia del produttore, del creatore di storia.”
Il Vaticano e l’Italia
Particolarmente netto ed inequivocabile è il giudizio di Antonio Gramsci sul
Concordato fra Stato italiano ed il Vaticano compreso nei Patti Lateranensi siglati l’11
febbraio 1929 fra regime fascista e Chiesa Cattolica. Nei “ Quaderni del carcere”,
infatti leggiamo: “La capitolazione dello Stato moderno che si verifica per il
concordato viene mascherata identificando verbalmente concordato e trattati
internazionali. Ma un concordato non è un comune trattato internazionale: nel
concordato si realizza, di fatto, una interferenza di sovranità in un solo territorio
statale, poiché tutti gli articoli di un concordato si riferiscono ai cittadini di uno solo
degli stati contraenti, sui quali il potere sovrano di uno Stato estero giustifica e
rivendica determinati diritti e poteri di giurisdizione. Il concordato intacca in modo
essenziale il carattere di autonomia della sovranità dello Stato moderno. La Chiesa,
in cambio, si impegna verso una determinata forma di governo di promuovere quel
consenso di una parte dei governati che lo Stato esplicitamente riconosce di non poter
ottenere con mezzi propri, mentre quest’ultimo riconosce pubblicamente ad una casta
di suoi cittadini determinati privilegi politici.”
La questione meridionale
A questo tema dedichiamo un ampio capitolo di questo documento, frutto delle
riflessioni aggiornate e della ricerca dei nostri militanti. Qui ci limitiamo, quindi, a
citare un brano de “ L’Ordine Nuovo “ del 3 gennaio 1920 che dimostra la
concretezza programmatica del pensiero di Gramsci come base per la formazione di
un blocco sociale di alleanza popolare. “La borghesia settentrionale ha soggiogato
l’Italia meridionale e le isole e le ha ridotte a colonie di sfruttamento; il proletariato
settentrionale, emancipando se stesso dalla schiavitù capitalistica,emanciperà le
masse contadine meridionali asservite alla banca ed all’industrialismo parassitario
del Settentrione. La rigenerazione economica e politica dei contadini non deve essere
ricercata in una divisione delle terre incolte e mal coltivate, ma nella solidarietà del
proletariato industriale, che ha bisogno, a sua volta, della solidarietà dei contadini,
che ha interesse a che il capitalismo non rinasca economicamente dalla proprietà
terriera e che l’Italia meridionale e le isole non diventino una base militare di
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controrivoluzione capitalistica. Imponendo il controllo operaio sull’industria, il
proletariato rivolgerà l’industria alla produzione di macchine agricole per i contadini
di stoffe e calzature per i contadini, di energia elettrica per i contadini; impedirà che ,
più oltre, l’industria e la banca sfruttino i contadini e li soggioghino come schiavi alle
loro casseforti. Spezzando l’autocrazia nella fabbrica, spezzando l’apparato
oppressivo dello Stato capitalistico, instaurando lo Stato operaio che soggioghi i
capitalisti alla legge del lavoro utile, gli operai spezzeranno tutte le catene che
tengono avvinghiato il contadino alla sua miseria, alla sua disperazione; instaurando
la dittatura operaia, avendo in mano le industrie e le banche,il proletariato rivolgerà
l’enorme potenza dell’organizzazione statale per sostenere i contadini nella loro lotta
contro i proprietari, contro la natura, contro la miseria; darà il credito ai contadini,
instituirà le cooperative, garantirà la sicurezza personale e dei beni contro i
saccheggiatori, farà le spese pubbliche di risanamento e di irrigazione. Farà tutto
questo perché è suo interesse dare incremento alla produzione agricola, avere e
conservare la solidarietà delle masse contadine, rivolgere la produzione industriale a
lavoro utile di pace e di fratellanza fra città e campagna, tra Settentrione e
Mezzogiorno”.
In merito al confronto ideologico nel PCU(b)
Nella seconda metà degli anni ’20, nel PCU(b) ( che diventerà PCUS nel 1952)
divampa un duro scontro politico sulle modalità e le forme di costruzione del
socialismo che vedono contrapposte la maggioranza guidata da Stalin e la minoranza
guidata da Trockij, Zinov’ev e Kamenev. Antonio Gramsci il 14 ottobre 1926 scrive
una lettera riservata, da lui firmata a nome dell’Ufficio Politico del PCdI ed inviata a
Mosca. In essa, dopo aver espresso attenzione e preoccupazione si afferma: “L’Ufficio
Politico del PCdI ha studiato, con la maggiore diligenza ed attenzione che le erano
consentite, tutti i problemi che oggi sono in discussione nel Partito Comunista dell’
Unione. Noi, finora abbiamo espresso un’opinione di Partito solo sulla questione
strettamente disciplinare delle frazioni. Dichiariamo ora che riteniamo
fondamentalmente giusta la linea politica della maggioranza del CC del Partito
Comunista dell’ Unione. Ci impressiona il fatto che l’atteggiamento delle opposizioni
investa tutta la linea politica del CC toccando il cuore stesso della dottrina leninista e
dell’azione politica del Partito dell’Unione. E’ il principio e la pratica della dittatura
del proletariato che vengono posti in discussione, sono i rapporti fondamentali di
alleanza tra operai e contadini che vengono turbati e messi in pericolo, cioè i pilastri
dello Stato operaio e della Rivoluzione. E’ questo per noi l’elemento essenziale delle
vostre discussioni, è in questo elemento la radice degli errori del blocco delle
opposizioni e l’origine dei pericoli latenti che nella sua attività sono contenuti. Nella
ideologia e nella pratica del blocco delle opposizioni rinasce in pieno tutta la
tradizione della socialdemocrazia e del sindacalismo, che ha impedito finora al
proletariato occidentale di organizzarsi in classe dirigente.”. Il pieno appoggio alla
linea della maggioranza del CC del PCU(b), guidata da Stalin, smentisce il presunto
22
antistalinismo, in mala fede attribuito a Gramsci dai suoi esegeti opportunisti e
revisionisti, fuori e dentro il PCI.
Egemonia, guerra manovrata e guerra di posizione
Una delle più disoneste manipolazioni del pensiero gramsciano, forse la
peggiore, viene attuata dai suoi esegeti revisionisti distorcendo il concetto di
egemonia, centrale in tutta la sua elaborazione, contrapponendolo al concetto leninista
di dittatura proletaria. Lo scopo dell’operazione consiste nel tentativo di attribuire a
Gramsci la paternità ideale e teorica dell’accettazione revisionista e opportunista della
democrazia borghese, del parlamentarismo e delle forme legali di lotta come valori
universali. Partendo da una falsa contrapposizione del “Gramsci immaturo”, cioè del
dirigente rivoluzionario dell’Ordine Nuovo e delle lotte del Biennio Rosso, al
“Gramsci maturo” delle riflessioni carcerarie, ridotto al ruolo di filosofo speculativo, i
revisionisti cercano di spacciare il naturale sviluppo, anche autocritico, del pensiero
gramsciano in merito alla sconfitta delle insurrezioni operaie del 1919-1920 come un
“salto” (Paolo Spriano), una presa di distanza dalla teoria rivoluzionaria di tipo
leninista.
Certamente, la manipolazione viene resa più facile dal linguaggio in codice che
Gramsci è costretto ad usare per evitare le maglie della censura carceraria, per cui, in
tutti i suoi scritti dalla prigionia, uno stesso termine viene utilizzato con significati
diversi, a volte etimologici, altre volte come alias di concetti che, per ragioni di
sicurezza, non potevano essere definiti col loro nome. Tuttavia, una lettura attenta e
priva di malafede consente di desumere dal contesto il giusto significato.
E’ il caso del concetto di egemonia. In alcuni casi viene usato con il significato
etimologico di “guida, capacità di direzione”, in altri è sinonimo criptato di dittatura
proletaria. Su questa apparente ambiguità il revisionismo ha imbastito l’assurdo
teorema della presunta opzione gramsciana per uno stato operaio, basato sulla sola
creazione del consenso, che di fatto riconoscerebbe la democrazia borghese, i suoi
istituti e i suoi principi come valori universali, cioè a prescindere dal loro contenuto di
classe. Nulla di più falso! Lasciamo alle parole di Gramsci il compito di confutare
questa menzogna: “... la supremazia di un gruppo sociale si manifesta in due modi,
come «dominio» e come «direzione intellettuale e morale». Un gruppo sociale è
dominante dei gruppi avversari che tende a «liquidare» o a sottomettere anche con la
forza armata ed è dirigente dei gruppi affini o alleati. Un gruppo sociale può e anzi
deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una
delle condizioni principali per la stessa conquista del potere); dopo, quando esercita
il potere e anche se lo tiene saldamente in pugno, diventa dominante, ma deve
continuare ad essere anche «dirigente»” (A. Gramsci, Quaderni del Carcere, ed.
Einaudi 1975, p. 2010-2011). Nel concetto di egemonia, Gramsci sottolinea l’unità
dialettica tra dominio e direzione, tra coercizione e consenso, tra forza e convinzione
e, così facendo, ribadisce la concezione leniniana della dittatura proletaria come la più
alta forma di creazione del consenso all’interno del blocco sociale coagulato intorno
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alla classe operaia, ma anche come la più implacabile forma di coercizione, anche
violenta, del blocco avversario. E ancora: “Il proletariato può diventare classe
dirigente e dominante nella misura in cui riesce a creare un sistema di alleanze di
classe che gli permetta di mobilitare contro il capitalismo e lo Stato borghese la
maggioranza della popolazione lavoratrice…” (A. Gramsci, La costruzione del Partito
Comunista, ed. Einaudi, 1971, p. 140).
E’ la riproposizione della politica delle alleanze della classe operaia concepita
da Lenin come condizione imprescindibile per il successo della rivoluzione e
l’instaurazione della dittatura proletaria. Gramsci, giustamente, si sofferma spesso
sulla componente consensuale dell’egemonia, in quanto cruciale per la creazione e la
tenuta del blocco sociale rivoluzionario. L’esercizio dell’egemonia dipende dalla
capacità di “dare soluzioni concrete ai problemi concreti” delle masse non proletarie,
di far comprendere loro che l’attuazione degli interessi proletari coincide con la
realizzazione dei loro stessi interessi, che la classe operaia, liberando sé stessa, libera
l’intera società. L’egemonia è quindi anche capacità “… di conservare l’unità
ideologica di tutto il blocco sociale che appunto da quella determinata ideologia è
cementato e unificato.” (A. Gramsci, Il Materialismo storico e la filosofia di
Benedetto Croce, Editori Riuniti, p. 7), allo scopo di mantenere unito un blocco
sociale disomogeneo e con contraddizioni di classe interne (pensiamo, ad esempio,
alla contraddizione tra l’elemento operaio e quello piccolo-borghese contadino). In
qualsiasi blocco sociale, questa “universalità” della classe egemone è affermata dagli
intellettuali a lei organici, la cui funzione è appunto quella di garantire la tenuta e la
compattezza del blocco sociale sul piano ideologico. Nel caso del proletariato, questa
funzione è svolta dal partito rivoluzionario, il “moderno principe”, intellettuale
collettivo organicamente legato alla classe operaia, che non si limita alla semplice
creazione del consenso, ma agisce sulla realtà trasformandola, in un’inscindibile
legame tra teoria e prassi, tra idea e azione.
Nella sua radicale critica al meccanicismo del marxismo volgare, Gramsci
ammonisce che il capitalismo è in grado di superare anche la più rivoluzionaria delle
crisi; il capitalismo non cade da solo se manca l’azione del soggetto rivoluzionario,
cioè del partito e in questo individua le cause della sconfitta del Biennio Rosso 1919-
1920: le condizioni oggettivamente rivoluzionarie, determinatesi dopo la guerra
imperialista mondiale, hanno dato vita ad un forte movimento insurrezionale del
proletariato, la cui sconfitta è dovuta al difetto di condizioni soggettive, cioè alla
mancanza di un partito rivoluzionario. Con buona pace dei revisionisti, Gramsci non
ha alcun ripensamento né sul merito, né sulle forme di lotta, ma constata
semplicemente il dato di fatto dell’assenza, in quella fase, di un partito comunista,
capace di organizzare la lotta insurrezionale e guidarla alla vittoria.
Come in Gramsci è chiarissimo il ruolo dei consigli di fabbrica come embrione
e modello della futura statualità proletaria, che ci autorizza “…ad affermare che il
soviet è una forma universale e non è un istituto russo e solamente russo…” (A.
Gramsci, Ordine Nuovo, ed. Einaudi, 1954, p. 147), così è altrettanto esplicita in lui la
funzione del partito in condizioni di dittatura proletaria: “… il partito comunista educa
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il proletariato ad organizzare la sua potenza di classe e a servirsi di questa potenza
armata per dominare la classe borghese e determinare le condizioni in cui la classe
sfruttatrice sia soppressa e non possa rinascere. Il compito del partito comunista
nella dittatura è dunque questo: organizzare potentemente e definitivamente la classe
degli operai e dei contadini in classe dominante; controllare che tutti gli organismi
del nuovo Stato svolgano realmente opera rivoluzionaria; rompere i diritti e i rapporti
antichi inerenti al principio della proprietà privata” (A. Gramsci, Ordine Nuovo, ed.
Einaudi, 1954, p. 42). Un partito, quindi, che è fulcro e direzione del potere operaio,
che ne verifica l’attuazione pratica e che si pone fuori e al di sopra della legalità e del
diritto finora vigenti. Nulla a che vedere con la via revisionista, imboccata
successivamente dai gruppi dirigenti del partito fondato da Gramsci.
L’altra grande mistificazione revisionista trae lo spunto da diversi scritti, in cui
Gramsci analizza la fine della fase rivoluzionaria immediatamente successiva alla
guerra imperialista mondiale e alla Rivoluzione d’Ottobre, in Italia e in Europa,
ragionando di “guerra manovrata e guerra di posizione”. Premesso che dobbiamo
avere sempre ben presente che si tratta di riflessioni esposte in forma di appunti,
quindi prive di organicità, in una situazione di costrizione fisica e psicologica, le quali,
pertanto, non possono assumere il valore di un’opera compiuta, redatta in condizioni
di libertà, né tanto meno essere erette a dogma indiscutibile, anche in questo caso ci
sembra comunque forzata in estrema malafede l’interpretazione che di questi concetti
hanno dato i revisionisti. In posizione di forte critica all’interpretazione trotzkista della
concezione marxiana di “rivoluzione permanente”, Gramsci scrive: “E’ da vedere se la
famosa teoria di Bronstein [Trotzki] sulla permanenza del movimento non sia il
riflesso politico della teoria della guerra manovrata …, in ultima analisi il riflesso
delle condizioni generali-economiche-culturali-sociali di un paese in cui i quadri
della vita nazionale sono embrionali e non possono diventare «trincea o fortezza». In
questo caso, si potrebbe dire che Bronstein, che appare come un «occidentalista» era
invece un cosmopolita, cioè superficialmente nazionale e superficialmente
occidentalista o europeo. Invece Ilici [Lenin] era profondamente nazionale e
profondamente europeo. … Mi pare che Ilici aveva compreso che occorreva un
mutamento dalla guerra manovrata, applicata vittoriosamente in Oriente nel 1917,
alla guerra di posizione che era la sola possibile in Occidente … Questo mi pare
significare la formula del «fronte unico» … In Oriente lo Stato era tutto, la società
civile era primordiale e gelatinosa; nell’Occidente … lo Stato era solo una trincea
avanzata dietro cui stava una robusta catena di fortezze e casematte; più o meno, da
Stato a Stato, si capisce, ma questo appunto domandava un’accurata ricognizione di
carattere nazionale.” (A. Gramsci, Quaderni del Carcere, ed. Einaudi 1975, p. 866-
865). E ancora: “ Questa mi pare la questione di teoria politica la più importante,
posta dal periodo del dopo guerra e la più difficile ad essere risolta giustamente. Essa
è legata alle questioni sollevate dal Bronstein, che in un modo o nell’altro, può
ritenersi il teorico politico dell’attacco frontale in un periodo in cui esso è solo causa
di disfatta. Solo indirettamente questo passaggio nella scienza politica è legato a
quello avvenuto nel campo militare, sebbene certamente un legame esista ed
25
essenziale. La guerra di posizione domanda enormi sacrifici a masse sterminate di
popolazione; perciò è necessaria una concentrazione inaudita dell’egemonia e quindi
una forma di governo più «intervenzionista», che più apertamente prenda l’offensiva
contro gli oppositori e organizzi permanentemente «l’impossibilità» di disgregazione
interna: controlli di ogni genere, politici, amministrativi ecc., rafforzamento delle
«posizioni» egemoniche del gruppo dominante ecc. Tutto ciò indica che si è entrati in
una fase culminante della situazione politico-storica, poiché nella politica la «guerra
di posizione», una volta vinta, è decisiva definitivamente.” (A. Gramsci, Quaderni del
Carcere, ed. Einaudi 1975, p. 801-802).
Anche di queste considerazioni di Gramsci si sono serviti, stravolgendole, i
teorici revisionisti per affermare una sua presunta presa di distanza dall’esperienza
dell’Ottobre sovietico e dell’insurrezione armata, attribuendogli, a sproposito, la
paternità di una concezione gradualistica del processo rivoluzionario. Il tentativo
manifesto della manipolazione è quello di dare nobili natali alle successive deviazioni
revisioniste che hanno portato alla mutazione genetica e alla dissoluzione del PCI,
dall’accettazione aprioristica della democrazia e della legalità borghesi, alla
concezione di una via parlamentare al socialismo, alla partecipazione condivisa e
convinta alle istituzioni dello Stato borghese, anche a quelle non elettive. Nulla di
tutto ciò è presente nell’opera, teorica e pratica, di Gramsci.
Intanto, per capire la riflessione gramsciana, occorre tenere ancora una volta presente
il momento storico in cui scrisse questi appunti, contenuti nei Quaderni N° 6 e N° 7,
cioè dal 1930 al 1932 e, soprattutto, circoscriverla al reale oggetto di analisi. Sono
passati più di dieci anni dalla sconfitta delle insurrezioni operaie del Biennio Rosso in
Italia e dei tentativi rivoluzionari in Polonia, Ungheria e Germania. Il movimento
operaio è uscito battuto da quelle esperienze, l’ondata rivoluzionaria si è arrestata, è
iniziata una fase controrivoluzionaria, con l’ormai decennale affermazione del
fascismo in Italia e l’ascesa del nazismo in Germania, il tentativo di fermare il
fascismo sul piano militare, con l’esperienza degli Arditi del Popolo e delle Squadre
d’Azione Comunista, è fallito. D’altro canto, l’Unione Sovietica non solo resiste, ma
cresce. Su questi fatti, storicamente circoscritti, riflette Gramsci, valutando le tattiche
che il movimento operaio aveva applicato nei dieci anni trascorsi dalla fine dei
tentativi rivoluzionari, interrogandosi sulle ragioni della sconfitta. La riflessione
avviene tenendo conto della lotta tra la linea della maggioranza del PCU(b), guidata
da Stalin, contro le posizioni di Trotzki, ormai espulso dal partito e dall’Unione
Sovietica.
Nel primo testo citato, Gramsci si riferisce al fallimento delle insurrezioni
operaie in Europa – e solo a quelle -, non all’esperienza dell’Ottobre. Usa il passato,
quindi non fa affermazioni a valenza generale, ma a valenza particolare, con precisa
collocazione spazio-temporale; ragiona di tattica, non di strategia, cioè non mette in
discussione né l’obiettivo (la dittatura proletaria), né il metodo in sé (l’insurrezione
armata), ma acutamente rileva l’inadeguatezza dell’applicazione di una tattica in sé
giusta nel momento sbagliato, cioè quando ormai era incominciata la fase
controrivoluzionaria; giustamente fa notare l’assenza di una “ricognizione” preventiva,
26
di un’analisi scientifica dei rapporti di forza reali all’interno di ciascun paese. E’
questa la lezione storica che Gramsci trae dalle vicende degli anni 1919-1920 in
“Occidente”, cioè in Europa: la maggiore articolazione della società civile in questi
paesi rispetto “all’Oriente”, alla Russia e il sostanziale equilibrio tra società civile e
società politica, tra apparato di creazione del consenso e apparato di dominio,
influiscono sui rapporti di forza tra le classi e rendono necessario un intenso ed
efficace lavoro per la conquista dell’egemonia e la costruzione del blocco sociale
rivoluzionario prima (prima, non invece!) dell’assalto frontale, per crearne le
condizioni. In sostanza, una tattica non esclude l’altra, ma, a seconda della situazione
reale, la guerra di posizione può servire a creare le condizioni soggettive per la guerra
di movimento. Gramsci non dice che in Occidente l’unica tattica praticabile in
qualsiasi tempo è quella della guerra di posizione, ma dice che nel 1919-1920, in quel
preciso periodo storicamente determinato, questa sarebbe stata l’unica tattica
applicabile in Europa.
Nel secondo brano riportato più sopra, Gramsci sviluppa ulteriormente ciò che
Lenin aveva compreso già nel 1921, cioè che l’ondata rivoluzionaria si era arenata e
che un assalto frontale al capitalismo in Europa sarebbe stato destinato al fallimento e
avrebbe messo in pericolo la sopravvivenza stessa del primo stato proletario al mondo.
Lenin, Stalin e Gramsci, in forte sintonia e in contrapposizione all’avventurismo
trotzkista, capiscono che è giunto il momento di passare alla guerra di posizione, cioè
ad erigere quelle “trincee e casematte”, questa volta proletarie, che avrebbero
consolidato la costruzione del socialismo “in un paese singolarmente preso”. Per
Gramsci il passaggio a questa nuova, durissima, fase di guerra di posizione comporta
“una concentrazione inaudita dell’egemonia”. Emerge in questo suo scritto il nesso
dialettico tra direzione e dominio all’interno del termine “egemonia”, che viene a
coincidere con quello di dittatura proletaria.
La guerra di posizione, quindi, è una tattica, determinata dalle concrete
condizioni storiche, applicabile sia alla fase preparatoria dell’assalto rivoluzionario, sia
alla fase successiva di costruzione del socialismo. Non è, per Gramsci, l’alternativa
“all’abbattimento violento della società borghese” (K. Marx, F. Engels, Il Manifesto
del Partito Comunista), né è sinonimo di via parlamentare, che non è guerra, ma
compartecipazione, né comporta l’osservanza della legalità borghese, così come la
“conquista delle trincee e delle casematte” non significa affatto l’insediamento,
lautamente retribuito, nelle istituzioni borghesi. Neppure implica una visione
gradualistica, per cui prima si dovrebbe conquistare l’egemonia e poi il potere. Anche
a volere scindere i due concetti, intendendo l’egemonia come sola capacità di
direzione e non anche come esercizio del dominio, è evidente che, se teniamo presente
il nesso indissolubile tra teoria e prassi che caratterizza tutto il pensiero gramsciano,
l’egemonia non può che costruirsi attraverso l’azione concreta per la conquista del
potere, attraverso l’iniziativa rivoluzionaria.
Sono questi solo alcuni frammenti dell’articolato e profondo pensiero di
Antonio Gramsci su alcuni dei principali temi della sua elaborazione e della sua
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battaglia politica “nel mondo grande e terribile”, come era solito chiamare il contesto
in cui si trovò ad operare. Da essi i comunisti possono, ancor oggi, trarre spunto ed
ispirazione per la loro lotta, in un mondo non meno “grande e terribile” di quello in
cui visse e lottò il fondatore del Partito Comunista d’Italia.
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4) Il revisionismo italiano, dal dopoguerra fino al PD.
C’è sempre un inizio. Come il virus infetta il corpo, come la ruggine logora il
ferro. Ci chiediamo: cosa ha portato la grande esperienza storica e politica dei
comunisti in Italia alla irrilevanza politica e alla miseria odierna? Durante questo
percorso, su cui ha certo inciso anche il contesto esterno, ci sono state frenate e
accelerazioni, avanzate ed anche sconfitte. Alla fine il più grande partito comunista
d’Occidente – il partito di Antonio Gramsci – è arrivato alla sua consunzione. E’
chiaro che chi, come noi, vuole ricostruire un vero Partito Comunista in Italia, non
può esimersi da una analisi seria e approfondita di questi perché. Non affretteremo
conclusioni che solo con un percorso condiviso di rilettura del passato si potranno
avere, ma è utile fare un po’ di chiarezza qui ed ora. Abbiamo ritenuto strategico
analizzare la storia del PCUS e dell’URSS, serve farlo anche per l’ Italia, il nostro
Paese.
La temperie in cui Palmiro Togliatti dirige il PCI post-resistenziale era
innegabilmente avversa ad una reale possibilità di ‘fare la rivoluzione’ in Italia. Detto
questo, non si può ignorare in che misura ed in che cosa Togliatti abbia fatto, o non
abbia fatto, nel fare pesare i ‘rapporti di forza’ nell’arena italiana. Non essendo
trotzkisti, non saremo così falsi e faziosi nel dire che il “tradimento” della rivoluzione
inizia con la svolta di Salerno, tuttavia sia questa, sia i suoi successivi sviluppi esigono
una riflessione più approfondita che il nostro Partito dovrà affrontare. Sarebbe infatti
troppo semplicistico liquidarla come un “tradimento”, sic et simpliciter. Nelle date
condizioni del 1944 il PCI, con il Nord del Paese occupato dai tedeschi e dai loro servi
fascisti e il Sud “liberato” dagli angloamericani (che appoggiano la monarchia e il
debole governo Badoglio), lavorò per emarginare le posizioni attendiste di chi voleva
delegare agli eserciti alleati la liberazione dell’Italia, coinvolgendo invece le masse
popolari nello sforzo, anche militare, antifascista. La linea del Congresso di Bari, che
ribadiva la pregiudiziale antimonarchica e propugnava il rovesciamento di Badoglio e
la sostituzione del suo governo con un governo del CLN, si stava rivelando
impraticabile e paralizzante.
E’ opportuno riportare quanto scrive a questo proposito Pietro Secchia: «Se
non ci fosse stata la guerra e la necessità di vincerla per schiacciare il nazismo, noi
avremmo potuto e saputo risolvere rapidamente la situazione con un’azione
rivoluzionaria delle masse. Ma appunto perché c’è la guerra, che è malgrado tutto la
nostra guerra, dobbiamo tutti evitare che le masse, giustamente esasperate da una
situazione che non è più tollerabile, tentino di risolvere spontaneamente la situazione
in forme che potrebbero essere una limitazione dello sforzo di guerra.» [P. Secchia, Il
Partito comunista italiano e la guerra di Liberazione, Feltrinelli, Milano, 1975 ]; e, più
oltre: «Il Consiglio nazionale del PCI iniziò i suoi lavori a Napoli il 30 marzo con un
rapporto di Velio Spano sulla situazione del paese e del partito, dal quale emergevano
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l’imbarazzo di chi era ormai convinto dell’impossibilità di risolvere la situazione
restando sulle posizioni tattiche del congresso dei CLN di Bari e la logica della
vecchia impostazione: “costituendo un governo democratico, che è il nostro obiettivo,
noi faremo fare un passo decisivo in avanti alla situazione italiana e ci metteremo
contemporaneamente in condizione di dare un maggiore contributo allo sforzo di
guerra”. Togliatti nel suo intervento, sempre sulla base di un’analisi della situazione
italiana ed internazionale, impostò la questione in questo modo: “Nessuna libertà
potrà essere garantita al popolo italiano fino a che i nazisti non saranno stati cacciati
dal territorio nazionale. Bisogna quindi intensificare lo sforzo di guerra per liberare
il paese. Costituiamo dunque un governo di unità nazionale e in tal modo faremo fare
anche un passo notevole alla situazione.” Dimostrò che bisognava uscire da una
situazione caratterizzata dall’esistenza, da una parte, di un governo investito del
potere ma privo di autorità perché privo dell’adesione dei partiti di massa, dall’altra
parte di un movimento di massa autorevole, ma escluso dal potere. “Tale situazione,
mentre alimentava confusione e disordine, stancava e deludeva le masse “creando un
ambiente favorevole agli intrighi reazionari”. Il Consiglio nazionale approvava
l’indicazione e l’iniziativa presa dal compagno Togliatti di costituire un governo di
un’unità nazionale.» [P. Secchia, Il Partito comunista italiano e la guerra di
Liberazione, Feltrinelli, Milano, 1975 ].
Anche a seguito dell’avvenuto riconoscimento del governo Badoglio da parte
dell’URSS, ai fini di ottimizzare e massimizzare lo sforzo bellico, l’idea di sviluppare,
in quel momento, un fronte di lotta e di alleanze, sociali e politiche, il più ampio
possibile contro un nemico fortissimo e mostruoso, rinviando ad un secondo momento
la questione istituzionale, era di per sé valida e imposta dalle condizioni oggettive (lo
stesso Secchia virgoletta sempre il termine “svolta”).
Si tratta di capire, invece, perché e come questo “compromesso temporaneo”
abbia perso il suo carattere di temporaneità, finendo per oscurare gli obiettivi
rivoluzionari in riferimento alla questione, centralissima per i comunisti, dello stato e
del potere. Assolutamente da respingere la tesi, secondo la quale ciò fu una
conseguenza della Conferenza di Yalta. A Yalta, Stalin, Roosevelt e Churchill non
divisero il mondo in sfere d’influenza talmente definite da segnare per sempre le sorti
dell’Italia in modo netto ed irrevocabile con quella “spartizione”. Infatti nelle
Conferenze di Teheran (1943), della stessa Yalta (febbraio 1945), e Postdam (luglio
1945) si decise in primo luogo del problema tedesco e si definirono ipotesi di assetto
provvisorio delle nazioni europee, in attesa di poter realizzare il principio
dell’autodeterminazione dei popoli, con la conseguente scelta del sistema sociale.
Crediamo, piuttosto, che le deviazioni dal percorso rivoluzionario originino da errori
di valutazione della situazione e delle prospettive da parte di Togliatti e di parte del
gruppo dirigente del PCI.
L’insegnamento della Terza Internazionale fu fondamentale nella vittoria sul
nazifascismo, consentendo di acquisire stima, fiducia e simpatia da parte delle masse
popolari. Nel corso della Resistenza nei vari paesi europei, i partiti comunisti che ne
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avevano fatto parte, piccoli e clandestini, raccolsero gli elementi migliori espressi
dalla lotta antifascista e crebbero enormemente perché seppero unire al compito della
lotta alla barbarie nazifascista l’obiettivo dell’emancipazione delle classi oppresse. E’
ciò che fece anche il PCI, che crebbe molto, diventando, per numero di aderenti, il
primo partito popolare. Sempre l’eredità delle linee direttive della Terza Internazionale
imponeva di non delegare la liberazione dei popoli agli eserciti alleati, né che la
Resistenza al nazifascismo si manifestasse come fatto spontaneo e disorganizzato
senza riferimenti politici, né ancora che il crollo delle forze dell’Asse comportasse il
ritorno alle forme statuali prebelliche.
Quindi, una volta sconfitto lo Stato fascista, si pensava di sostituirlo con uno
stato di tipo nuovo che non fosse la semplice riedizione del vecchio stato liberale.
Quali dovevano essere le sue caratteristiche? La teoria comunista dello Stato prevede
che, una volta rovesciato il dominio borghese con la rivoluzione, non sia sufficiente
semplicemente sostituirsi alla borghesia alla guida dello stato, ma sia necessario
distruggere la “macchina” dello stato borghese per crearne un’altra, espressione della
nuovo potere proletario. Quale forma concreta doveva assumere il nuovo Stato, su
quale tipo di istituzioni doveva basarsi? Questo problema aveva trovato risposte
sempre più precise con la diffusione delle sollevazioni rivoluzionarie, dalla Comune di
Parigi fino all’Ottobre Sovietico. Gli stati usciti dalla guerra e dalla Resistenza
avevano, invece, forme non ancora definite; il potere non era saldamente e
definitivamente in mano a nessuna delle classi, al relativo potere di una classe faceva
da contrappeso il contro-potere della classe antagonista (dualismo di potere), con
rapporti di forza variabili in base a diversi fattori, tra cui non ultimi i rapporti di forza
internazionali, ma la battaglia per gli assetti istituzionali in Italia non era così definita.
I Comitati di Liberazione Nazionale avrebbero potuto costituire il modello di una
nuova macchina statale, in senso marxista-leninista e in un’accezione estensiva di
fronte popolare, con cui sostituire la vecchia macchina statale, distrutta, nel nuovo
Stato post-resistenziale. Molti Paesi dell’Europa Orientale, sconfitte le componenti
borghesi anche per via parlamentare, diventarono infatti democrazie popolari,
utilizzando quelle forme di coalizione politica e organizzazione statuale che si erano
affermate nella fase resistenziale e risolvendo il dualismo di potere a favore del
proletariato.
Una corretta analisi marxista-leninista dimostra che in Italia, dal 1944 al
1947, si è verificata appunto una tipica situazione di dualismo di potere, dove al potere
“legalmente costituito” della monarchia, della grande borghesia e dei governi che ne
furono espressione, faceva da contraltare il contro-potere di un proletariato che poteva
contare su un’avanguardia, anche armata, di 2.500.000 uomini, inquadrati nelle fila del
PCI, in forte analogia con il dualismo di potere tra governo provvisorio e soviet che si
manifestò nella seconda fase della Rivoluzione Russa. Mentre in Russia il dualismo si
risolverà nel modo che tutti conosciamo, in Italia darà vita al governo di unità
nazionale, del quale faranno parte i partiti antifascisti, compreso il PCI, fino al 1947.
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Gli errori tattici e di valutazione di Togliatti e della maggioranza del gruppo dirigente
del PCI di quegli anni risultano comprensibili come tali – e non semplicisticamente
liquidabili come tradimento -, solo alla luce di questa analisi.
Un primo errore è costituito dall’accettazione dei meccanismi e delle forme
della democrazia borghese a priori. Fermo restando il rinvio della questione
istituzionale a liberazione avvenuta e guerra terminata, sarebbe stato indubbiamente
più coerente agli insegnamenti del marxismo-leninismo non abbracciare tout court la
soluzione dell’assemblea costituente eletta a suffragio universale (in un paese
disabituato all’esercizio dei diritti democratici, largamente analfabeta e manipolato dai
preti!), ma rimandare a quelle forme di coalizione e organizzazione del potere che
stavano concretamente scaturendo dalla Resistenza. Connesso a questo, il secondo
errore: l’assolutizzazione graduale di un compromesso che sarebbe dovuto essere
temporaneo e limitato al periodo di belligeranza, fino all’accettazione definitiva della
democrazia e delle istituzioni borghesi come unico terreno di lotta. Crediamo che le
cause di queste due deviazioni debbano essere individuate, da un lato, nella
sopravvalutazione delle capacità del Partito di risolvere a favore del proletariato il
dualismo di potere in atto agendo principalmente sul terreno scivoloso della
democrazia parlamentare borghese e, dall’altro lato, dalla sottovalutazione della forza
del Partito e della sua capacità di resistenza e dissuasione di eventuali tentazioni
reazionarie sul terreno a lui più consono, quello dello sviluppo delle lotte di massa,
mai venute meno, neanche durante la clandestinità e la lotta armata. La prima
considerazione ci insegna come non sia scontato che una grande forza organizzativa e
militante si traduca automaticamente in un analogo peso elettorale. Pensiamo al
risultato risicato del referendum monarchia-repubblica o all’insuccesso elettorale del
Fronte Popolare nel 1948. La seconda considerazione spiega il timore, esagerato, delle
possibili reazioni, interne e internazionali, di fronte a qualsiasi radicalizzazione dello
scontro di classe. Pensiamo all’inerzia con cui viene accettata l’esclusione del PCI dal
governo del Paese nel 1947, ma anche all’inserimento dei Patti Lateranensi e del
Concordato nell’art. 7 del progetto di Costituzione per paura di una guerra di religione,
minacciata da Pio XII. La valutazione sbagliata circa la durata e la tenuta dell’unità
antifascista, considerate ormai come scontate, darà origine a provvedimenti quali
l’amnistia ai fascisti e sfocerà poi nell’imprevista espulsione dei comunisti dal
governo. Questa espulsione risolverà definitivamente il dualismo di potere a favore
della borghesia. Infatti, l’analisi storica marxista-leninista ci insegna che le situazioni
di dualismo non sono eterne, ma storicamente determinate e limitate nel tempo, in
quanto vengono risolte, a favore di una classe o dell’altra, dalla dialettica della lotta di
classe in un insieme di condizioni oggettive e soggettive, un fatto che era sfuggito
totalmente alla maggioranza dei dirigenti del PCI di allora.
Lo stato italiano di oggi non ha nulla a che spartire con lo stato nato dalla
Resistenza, in quanto conclamatamente borghese per via della soluzione che il
dualismo trovò nel 1947. Non riconoscendo il dualismo che caratterizzò lo Stato
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italiano nato dalla Resistenza dal 1944 al 1947, i revisionisti e gli opportunisti
identificano lo Stato italiano di oggi con lo Stato post-resistenziale, in una visione
aclassista della storia. Specularmente, tutte le ricostruzioni storiche da parte delle
formazioni estremistiche di ultrasinistra presentano lo Stato italiano dell’immediato
dopoguerra come uno Stato borghese puro e semplice, fin dalla sua nascita,
negando anch’esse il dualismo di potere e la lotta di classe che si svolgeva al suo
interno. Si tratta di una rappresentazione appunto contraria ma simmetrica a quella che
danno i revisionisti.
Il Comitato di Liberazione per l’Alta Italia (CLNAI) aveva nelle brigate
partigiane e nei GAP le massime espressioni organizzative di lotta armata contro il
potere nazifascista. A differenza di quanto avveniva nei CLN delle zone “liberate”
dagli alleati, dove la passività delle masse era pressoché totale, il CLNAI, su spinta
del PCI, si preoccupò costantemente del loro coinvolgimento nella guerra di
liberazione, a partire dall’organizzazione dei grandi scioperi del 1943. Il CLNAI e il
PCI al suo interno avevano ben presente l’indispensabile collegamento tra lotta
partigiana e lotta politica e sociale di massa, magari innescata anche da semplici
rivendicazioni economiche. Queste particolari condizioni fecero maturare vere e
proprie esperienze di governo popolare, guidato dal CLNAI, in forme che avrebbero
potuto essere adottate per la futura organizzazione statuale dell’Italia liberata. Nelle
fabbriche, ad esempio, vennero istituiti i Consigli di Gestione, un embrione di
democrazia consigliare simile a quello sovietico. Le diverse condizioni oggettive nelle
zone occupate dagli angloamericani, la debolezza del PCI in quelle regioni e la
conseguente mancanza di esperienze soggettive analoghe a quelle maturate al Nord,
spiegano il relativo predominio delle “alchimie istituzionali” nel CLN
centrale. Mentre in Alta Italia, liberazione dal nazifascismo ed emancipazione sociale
formano un unico, inscindibile obiettivo, a livello centrale questa unicità viene a
mancare, per cui non solo la battaglia sull’assetto istituzionale, sulla forma, viene
rimandata a tempi successivi, – cosa ammissibile, come già detto -, ma anche la
battaglia sul contenuto sociale del nuovo stato, sulla sua sostanza di classe, sfuma in
una prospettiva temporale indefinita, sacrificata alle sole esigenze dello sforzo bellico.
Fu questo, probabilmente, il più grave errore di valutazione di Togliatti e della
maggioranza del gruppo dirigente del PCI. La “svolta”, comunque, passò a
maggioranza, ma venne interpretata e attuata in modo diverso al Nord, rispetto al
Centro e al Sud. Per Pietro Secchia e il gruppo dirigente del Nord, l’apertura a nuove
forze e componenti sociali, il loro coinvolgimento attivo nella lotta di liberazione non
doveva offuscare gli obiettivi di giustizia e emancipazione, ma favorire la lotta contro
gli elementi antinazionali: attendisti, industriali antifascisti a parole, ma
collaborazionisti nei fatti, alti ufficiali che aiutavano fascisti e tedeschi nella caccia ai
partigiani, doppiogiochisti e così via. A livello centrale, però, si invitava alla cautela e
alla moderazione, per non turbare le componenti più borghesi della coalizione
antifascista. Con il feticcio dell’unità a tutti i costi e della salvaguardia degli equilibri
iniziava, in quegli anni, ad incistarsi nel corpo del partito quel virus del “cretinismo
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parlamentare” che lo avrebbe infettato per tutti gli anni a venire, fino alla sua
dissoluzione.
Nel CNL si manifestarono da subito divergenze sul modo di condurre la lotta
e sulla funzione dei CLN stessi a liberazione avvenuta. La Democrazia Cristiana ed il
Partito Liberale li volevano organi transitori. Per comunisti, azionisti e socialisti,
questi organismi dovevano invece trasformarsi in strumenti di un nuovo ordinamento
politico-sociale.
Il comunista Eugenio Curiel, giovanissimo scienziato e studioso di
marxismo-leninismo, ucciso a Milano dai fascisti pochi giorni prima della Liberazione
a soli 33 anni, teorizzò una forma statuale che indicò come “democrazia progressiva”,
caratterizzandone così la funzione: “ garantire le condizioni politiche e sociali
migliori all’opera della ricostruzione, senza assegnare per questo un confine
precostituito tra problemi della ricostruzione e problemi dell’edificazione della
società socialista…dobbiamo lottare perché la democrazia progressiva si realizzi
superando i limiti e gli ostacoli che le vorranno frapporre le forze reazionarie,
dobbiamo lottare perché la rottura si operi nelle condizioni a noi più favorevoli,
quindi in condizioni tali che la rottura venga ad essere la meno costosa possibile per
la classe operaia e per tutta la nazione”.
La formulazione della democrazia progressiva fu fatta propria dal PCI al suo
V Congresso. Essa era intesa, nell’accezione di Curiel, come trasformazione
rivoluzionaria dello Stato, che avrebbe dovuto basarsi appunto sui CNL. Va rilevato
come in Curiel siano ben presenti sia il nesso tra liberazione e costruzione del
socialismo, sia l’ineluttabilità della rottura con la borghesia, cioè la temporaneità del
compromesso con questa. Uno Stato di tale genere avrebbe determinato condizioni
massimamente favorevoli per la rottura rivoluzionaria e per la conquista dell’egemonia
da parte dei comunisti. Nel rapporto alla Direzione del PCI del marzo 1945, Pietro
Secchia affermò: “Prima, durante e dopo l’insurrezione, dovremo riuscire a coprire
le nostre città e le nostre campagne di una rete di migliaia e migliaia di Comitati di
liberazione, di fabbricato, di villaggio, di officina. Saranno questi gli organismi
popolari su cui poggia il movimento insurrezionale, sui quali poggerà il governo
democratico in Italia. Senza questi organismi, base del potere popolare, è vano
parlare di democrazia progressiva”.
Purtroppo, è difficile trovare una citazione di Togliatti che si riveli in sintonia
con Curiel e Secchia a proposito dei CLN e della democrazia progressiva. “Noi
desideriamo – disse in un discorso a Napoli nel 1944 -, che al popolo italiano venga
garantito nel modo più solenne che, liberato il paese, un’Assemblea nazionale
costituente, eletta a suffragio universale libero, diretto e segreto, da tutti i cittadini,
decida delle sorti del paese e della forma delle istituzioni…Questa posizione è
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democraticamente la più corretta… Ponendo alla base del nostro programma politico
immediato la convocazione di un’Assemblea costituente dopo la guerra, ci troviamo
in compagnia degli uomini migliori del nostro Risorgimento, in compagnia di Carlo
Cattaneo, di Giuseppe Mazzini e di Giuseppe Garibaldi, e in questa compagnia ci
stiamo bene”.
Togliatti non si richiama evidentemente alla storia e al patrimonio ideale del
proletariato Al già citato errore, la scelta aprioristica delle forme della democrazia
borghese a scapito delle forme che scaturivano direttamente dalla lotta partigiana e
popolare e alla dubbia scelta delle compagnie, almeno per quanto riguarda Cattaneo e
Mazzini, somma qui un altro, esiziale errore: la concezione della Resistenza come
questione di indipendenza nazionale a prescindere dai suoi contenuti e motivazioni
sociali, come continuazione ideale del Risorgimento. Gramsci definì il Risorgimento
come “rivoluzione incompiuta”, mettendo in luce la debolezza e lo spirito
compromissorio della borghesia italiana, incapace di costruire fino in fondo il proprio
stato nazionale senza un compromesso di classe con l’ancien régime. Stalin, nel saluto
alle delegazioni estere, presenti al XIX Congresso del PCUS, sottolineò come fosse
compito dei comunisti “raccogliere le bandiere che la borghesia lascia cadere” nella
corsa alla massimizzazione del profitto, perseguita calpestando i principi stessi delle
rivoluzioni borghesi. Tuttavia, per Gramsci come per Stalin, il compimento della
rivoluzione borghese, inteso come realizzazione effettiva dei proclamati principi di
libertà e eguaglianza, può avvenire compiutamente solo “dopo” la rivoluzione
socialista, non “invece” di questa. E’ evidente come, con queste premesse, la
democrazia progressiva venga svuotata di ogni contenuto rivoluzionario, per diventare
una chimera all’insegna di un gradualismo che nulla ha a che vedere con
l’insegnamento marxista-leninista. L’idea che fosse possibile “superare” il capitalismo
attraverso la sola via parlamentare e con graduali riforme che introducessero
“elementi di socialismo” era e rimane infondata e antiscientifica.
In merito alla mancanza delle condizioni oggettive per una rivoluzione proletaria,
Pietro Secchia, allora responsabile dell’organizzazione del PCI, fece saggiamente
notare (per quei tempi una precisazione del genere suonava come una critica
serratissima) che “..tra il fare l’insurrezione e non far nulla ce ne passa..” ed è chiaro
che il riferimento era diretto alla politica togliattiana, che scelse la via istituzionale
come strategica sin dal 1944, quando l’esperienza di governo popolare dei CLN
avrebbe potuto porre altre prospettive. La cacciata dei comunisti dal governo nel 1947
segnò il punto di non ritorno di tale strategia: quell’evento così significativo non ebbe
alcuna reazione, neanche uno sciopero generale politico, al massimo qualche strillo
sull’Unità.
Si può, quindi, affermare che il PCI, dopo la Liberazione, abbia perso “a
tavolino” la battaglia per la conquista del potere, senza aver mai tentato neppure di
ingaggiarla. In tutti i momenti decisivi ha prevalso la linea togliattiana della difesa
dello “Stato democratico, nato dalla Resistenza”.
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Dopo quanto detto finora, non si può passare sotto silenzio la politica dei
quadri condotta da Togliatti, con la quale nel PCI di fatto veniva esautorato il gruppo
dirigente proveniente dalla Resistenza, sostituendolo con funzionari certamente di
qualità ma di estrazione borghese, privi dell’esperienza della clandestinità e della
resistenza armata.
Togliatti costruì la svolta dell’VIII Congresso in modo, per quanto possibile,
indolore. Fu indetta la IV Conferenza Nazionale in preparazione del congresso, la
quale decise la sostituzione di ben il 30% dei dirigenti del partito con nuovi
funzionari e quadri politici. “Riguardo all’anzianità del partito, fra i delegati alla IV
Conferenza Nazionale, rispetto al VII Congresso, vi fu un’accresciuta partecipazione
di elementi entrati nel partito dopo il 25 aprile 1945”.
Le conclusioni della Conferenza, di fatto, anticiparono l’VIII Congresso
(1956): fu appunto allontanata dai vertici una gran parte dei dirigenti formatisi nel
fuoco della lotta partigiana, sostituiti da giovani quadri, entrati nel partito dopo il 25
aprile. A quattro giorni dalla chiusura della Conferenza venne formata una nuova
segreteria, dalla quale fu escluso uno dei più prestigiosi rappresentanti della
generazione che aveva combattuto in Spagna e poi in Italia, nella clandestinità e nella
Resistenza: Pietro Secchia. Dall’VIII Congresso in poi, lo stato borghese italiano verrà
identificato con lo “Stato uscito dalla Resistenza”, la cui salvaguardia acritica
diventerà il punto centrale del programma del PCI fino al suo scioglimento. Quel
Congresso sanzionò ufficialmente e irreversibilmente la svolta revisionista-
khruscioviana del PCI. Non a caso Togliatti disse: “Noi comunisti italiani siamo stati
quel settore che ha dato un maggior contributo alla progressiva elaborazione di
queste posizioni nuove (XX Congresso del PCUS)…”. “Il XX Congresso ha constatato
che oggi il socialismo non è più limitato ad uno Stato, ma è diventato un sistema
mondiale di Stati… Da queste constatazioni sono derivate parecchie conseguenze che
riguardano il nostro orientamento politico generale, la nostra strategia, la nostra
tattica. Prima grande conseguenza è la evitabilità della guerra … Il XX Congresso
ha ricavato anche la conseguenza che la marcia verso il socialismo prende aspetti
diversi da quelli che ha avuto nel passato: non è più indispensabile…la via
dell’insurrezione come si dovette fare in Russia nel 1917; è possibile giungere ad
attuazioni socialiste seguendo l’utilizzazione del Parlamento”.
Con queste parole, pronunciate all’VIII Congresso del PCI, Togliatti assume a
bagaglio ideologico del partito gran parte delle deviazioni revisioniste di Khrusciov,
dalla teoria della coesistenza pacifica e dell’evitabilità della guerra, al parlamentarismo
come percorso per giungere al socialismo. Ci si può chiedere se lo fece convintamente
o sulla base della considerazione della necessità di sostenere comunque l’Unione
Sovietica, soprattutto dopo i fatti di Ungheria. Resta il fatto che quelle scelte
avvieranno definitivamente il PCI sulla strada del revisionismo.
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La storia degli anni successivi dimostra che la borghesia italiana, diventata
nel 1947 detentrice assoluta del potere statale, lo usa con lo scopo manifesto di
piegare la classe operaia e di scompaginare e mettere all’angolo il Partito Comunista.
Gli episodi di repressione e provocazioni negli anni bui del governo Scelba ne sono la
riprova. In questa situazione la politica il PCI si limitò alla difesa del proprio diritto
all’esistenza e alla difesa della legalità “democratica”, incapace di contrattaccare in
modo incisivo. Con il passare degli anni, il feticcio dell’unità interna ha sempre
viziato il dibattito su linea e programma, facendo sì che le divergenze apparissero in
forme attutite, nascoste, ovattate, tali da non rivelarsi mai come contrasti di principio,
in un’errata applicazione del centralismo democratico, tesa solo alla perpetuazione del
gruppo dirigente in carica. Le migliaia di militanti, che avevano dedicato la loro vita
alla passione comunista, ebbero difficoltà sempre più serie ad orientarsi e, tanto più, a
schierarsi.
Per contro, è innegabile il ruolo fondamentale che il PCI ha svolto nel
dopoguerra per l’affermazione dei diritti dei lavoratori, per il miglioramento delle loro
condizioni di vita e di lavoro, ottenendo conquiste significative, ma non irreversibili,
sul piano sociale ed economico. Da qui la nostra difesa del suo ruolo, che
rivendichiamo come parte della nostra storia, tanto dagli attacchi di destra e
reazionari, quanto da quelli dell’estremismo parolaio e avventuristico. Un conto è la
‘nostra’ critica, da comunisti, a Togliatti, che tra l’altro analizzò strutturalmente la
dittatura italiana nelle celebri “lezioni sul fascismo”, un altro è togliere il suo nome
dalla toponomastica delle città, come vorrebbero Alemanno e Volonté, o definirlo un
traditore del proletariato, come fanno alcuni cripto-estremisti: a questo ci opporremo
sempre.
Nel dopoguerra esistevano consistenti margini, economici e politici, che
rendevano possibile un disegno riformista, anche grazie agli equilibri e ai rapporti di
forza internazionali tra paesi socialisti e paesi imperialisti. Il PCI seppe utilizzarli con
successo a vantaggio della classe operaia e dei lavoratori, ma non fu capace di
collegare, o non volle collegare, queste conquiste e le contraddizioni che esse aprivano
con l’obiettivo politico della conquista del potere. Si comportò come un buon partito
socialdemocratico, ma altra cosa deve essere un partito rivoluzionario, un partito
realmente comunista che, tenendo sempre conto dei rapporti di forza esistenti,
mantenga inalterata la spinta verso l’obiettivo finale. Certamente, il PCI accumulò, in
quel lungo periodo, un immenso e qualificato patrimonio, fatto di militanza, passione
e onesti rapporti umani, che ne ha costituito l’eredità più preziosa, purtroppo tradita e
dissipata dopo, anche dai gruppi dirigenti succedutisi alla guida del tentativo
“rifondativo”, che dicevano una cosa, ma ne avevano in testa un’altra, nettamente
diversa.
L’VIII Congresso sancì anche la definitiva adozione del concetto di ‘via
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nazionale al socialismo’. Al di là delle originali intenzioni di Togliatti, vere o
presunte, questa non divenne una creativa tattica per raggiungere il nobile scopo
tenendo nella dovuta considerazione le particolari condizioni e caratteristiche
dell’Italia, ma si trasformò in una teoria che negava la validità delle leggi generali
dello sviluppo capitalistico, economico, sociale e politico-statuale, che agiscono in
modo sostanzialmente uguale in tutti i paesi, indipendentemente dalle loro peculiarità
storiche e culturali, in nome di una indimostrata prevalenza del particolare sul
generale. Il suo naturale evolversi fu un continuo e progressivo allontanamento dai
principi scientifici del marxismo-leninismo, fino ad approdare alle aberrazioni,
teoriche e pratiche, dell’eurocomunismo.
Queste considerazioni ci consentono di comprendere l’ultima parte della
storia del PCI, da Berlinguer alla Bolognina. Sia chiaro che quanto affermiamo lo
facciamo col massimo rispetto per tutti quei compagni che in quel periodo hanno dato
gli anni migliori della loro vita alla militanza e che anche oggi possono dare un aiuto
formidabile alla nostra difficilissima opera.
Fatta salva la statura morale di Berlinguer, assolutamente imparagonabile alle
miserie dei politici attuali, occorre riconoscere che il livello della cultura politica di
tutti i protagonisti di quel periodo era incommensurabile rispetto agli odierni peones
che infestano le istituzioni. Vogliamo paragonare la pochezza dei Berlusconi, dei
Grillo, dei Renzi, dei Bersani di oggi con la statura e la capacità dei Nenni, dei Moro,
dei Fanfani, persino degli Andreotti e dei Craxi di ieri? Personalità discutibili,
avversari e nemici, ma tutti politici veri, non inetti corifei di un teatrino che ormai
disgusta tutti.
La politica dei quadri, è rivelatrice delle linee politiche che si vogliono
imprimere al partito e della sua composizione di classe; Berlinguer promosse, come
eredi del gruppo dirigente allora in carica, gli Occhetto, i D’Alema, i Veltroni, i
Fassino, i Bersani, ecc., così come nel successivo tentativo rifondativo furono scelti i
Garavini, i Bertinotti, i Giordano, i Diliberto ed i Ferrero. In entrambi i casi, anziché
quadri proletari, furono scelti professionisti in carriera della politica o del
sindacalismo post-EUR.
L’approfondimento delle note potrà darci decisamente ragione nell’affermare
che, se Togliatti mantenne almeno un legame, forse più formale che sostanziale, con il
marxismo-leninismo e riconobbe sempre il grande contributo dell’Unione Sovietica
alla causa della liberazione del lavoro e dei popoli, Berlinguer abbandonò decisamente
qualsiasi riferimento ad esso come teoria rivoluzionaria. Al XIV Congresso del PCI,
nel 1975, Berlinguer propose e fece passare la modifica dello Statuto del partito,
eliminando i riferimenti all’ideologia marxista-leninista per affermarne la “laicità”.
Ciò stava a significare che il partito rinunciava ad avere una propria e definita visione
del mondo, aprendosi a quell’eclettismo ideologico che lo renderà privo di autonomia
e preda della cultura dominante. Una scelta certamente provocata dall’affanno di dare
sempre nuove e maggiori garanzie di “affidabilità” al nemico di classe e agli avversari
politici che ne erano espressione, dimenticando che il potere non si elemosina, ma si
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conquista e che entrare al governo non significa prendere il potere. Era il tentativo di
dimostrare che il PCI non doveva più spaventare la classe dominante, in quanto, a
parte le “mani pulite”, era come tutti gli altri partiti, avendo finalmente reciso ogni
cordone ombelicale con la teoria e gli obiettivi rivoluzionari, tutt’al più un buono e
onesto amministratore e gestore di un capitalismo dal volto umano. Questo
snaturamento si rese possibile anche grazie alla decisione, presa al XIII Congresso del
1972, di accorpare le cellule di lavoro alle sezioni territoriali, privandole
dell’autonomo potere di delega ai successivi congressi. In questo modo, l’elemento
proletario, veniva stemperato su un territorio dove prevaleva l’elemento piccolo-
borghese, che otteneva la possibilità di esprimere un numero maggiore di delegati al
congresso. La componente piccolo-borghese acquisì in tal modo un peso
preponderante nelle maggioranze congressuali e, conseguentemente, nelle scelte
tattiche e strategiche del partito. Fu proprio quel congresso a eleggere Berlinguer
formalmente vice-segretario, di fatto segretario, a causa della malattia che invalidava
Luigi Longo.
Nel pensiero di Berlinguer spiccano, tra tutti, alcuni punti cardinali: il
compromesso storico, la democrazia come valore universale, l’eurocomunismo,
l’accettazione dell’ombrello della Nato, l’adesione alla UE ed infine le considerazioni
sull’esaurimento della spinta propulsiva della Rivoluzione Sovietica.
Le riflessioni di Berlinguer sull’austerità e sulla questione morale non hanno la stessa
forza, né possono in qualche modo controbilanciarne l’effetto devastante. Del resto, se
si accetta alla fine il capitalismo come orizzonte, non ci si può stupire che esistano
clientele e corruzione: se unico valore è il profitto, queste ne sono le naturali
conseguenze. Obiettivamente non si può negare che Berlinguer si sia anche trovato
‘schiacciato’ da un corpo politico del partito in cui i cosidetti ‘miglioristi’ (da
Amendola a Cervetti) avevano in mano i gangli vitali, anche economici (il mondo
della cooperazione ad es.) del Partito, da qui l’aggancio fortemente voluto dall’attuale
Presidente Napolitano con Craxi e col sistema di potere che rappresentava e la stessa
‘solitaria’ presenza di Berlinguer ai cancelli della Fiat nel 1980 e nella giusta lotta in
difesa della “scala mobile”. Sono episodi significativi che risultano però essere
ininfluenti su un quadro dirigente ed un corpo largo di partito in cui la “mutazione
genetica” era già avvenuta.
Partiamo dal compromesso storico, cioè da tre scritti di Berlinguer, pubblicati
su Rinascita tra il 28 settembre ed il 12 ottobre 1973 all’indomani della eroica morte
del Presidente del Cile Salvador Allende per mano dei golpisti di Pinochet prezzolati
dagli Usa. Invece di constatare semplicemente che la democrazia borghese esiste solo
se la borghesia è saldamente al potere, ma se questo vacilla, – come nel Cile di
Allende – e il popolo riesce in qualche modo ad emanciparsi per via istituzionale e
democratica, allora la borghesia rinnega le sue stesse regole formali, passando a
metodi violenti e terroristici, Berlinguer scrive: “noi abbiamo sempre pensato – e oggi
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l’esperienza cilena ci rafforza in questa persuasione – che l’unità dei partiti dei
lavoratori e delle forze di sinistra non è condizione sufficiente per garantire la difesa
ed il progresso della democrazia…” A parte il leitmotiv della “difesa della
democrazia”, che non spiega mai di quale democrazia si stia parlando, prescindendo
dal suo carattere di classe, Berlinguer confonde le intese politiche con le alleanze
sociali tra la classe operaia e gli strati popolari di piccola borghesia, stravolgendo il
pensiero di Gramsci. Gramsci sottolineava come il motore della rivoluzione proletaria
in Italia dovesse essere un nuovo blocco sociale, egemonizzato dalla classe operaia,
che raggruppasse il proletariato e anche elementi di piccola borghesia, suoi alleati. Il
compromesso storico di Berlinguer, invece, non è un’alleanza sociale della classe
operaia, antagonista al blocco sociale della borghesia, ma un’alleanza politica tra i
maggiori partiti in quel momento, il PCI, il PSI e la DC, quest’ultima, per altro,
espressione politica della grande borghesia, privata e di stato.
L’analisi di Berlinguer sul golpe in Cile del 1973 non ha nulla a che vedere
col marxismo-leninismo, anzi perviene a conclusioni diametralmente opposte. Da un
punto di vista leninista, l’errore di Allende è consistito proprio nel non avere neppure
cercato di “spezzare la macchina dello stato borghese”, ma di averla accettata,
confidando in una maggioranza parlamentare e nella lealtà dei vertici dell’apparato
statale. Sarebbe stato necessario sviluppare forti movimenti di massa a sostegno del
nuovo governo, creare una milizia operaia armata, cambiare i meccanismi
istituzionali, passando a organi eletti non su base delle circoscrizioni elettorali
territoriali, ma dei luoghi di lavoro, sospendere l’attività dei partiti che non si
riconoscevano nel programma del nuovo governo, decapitare i vertici e modificare le
strutture dell’esercito, della polizia, dei servizi di sicurezza, dei ministeri economici,
con la massiccia introduzione di fidati elementi proletari. Sarebbe stato necessario,
insomma, instaurare la dittatura proletaria. Allende non lo fece e il popolo cileno pagò
a caro prezzo questo errore. Berlinguer, come sappiamo, ignorò queste considerazioni.
L’eurocomunismo, come teoria e prassi compiutamente revisioniste e
opportuniste, origina dall’incontro di Bruxelles del 26 gennaio 1974 tra Berlinguer e i
revisionisti spagnolo e francese, Santiago Carrillo e Georges Marchais, segretari dei
rispettivi Partiti Comunisti che sposarono le tesi sul valore della democrazia, da
Berlinguer così formulate: …”questa larga convergenza di opinioni riguarda
anzitutto il fondamentale problema del rapporto tra democrazia e socialismo come
sviluppo coerente ed attuazione piena della democrazia. Essa comprende il
riconoscimento del valore delle libertà personali e della loro garanzia, i principi di
laicità dello Stato e della sua articolazione democratica, della pluralità dei partiti,
dell’autonomia del sindacato, delle libertà religiose e di culto, della libertà di ricerca
e delle attività culturali, artistiche e scientifiche…”
Il nome stesso, termine coniato dai giornalisti, ma subito fatto proprio dai revisionisti,
marcava già di per sé un netto distacco, addirittura una forte contrapposizione alle
esperienze di socialismo storicamente realizzate. Il passo citato evidenzia con
chiarezza come Berlinguer avesse fatto proprie categorie tipiche del pensiero
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borghese, assolutizzandole al di fuori e al di là di qualsiasi contesto storico e sostanza
di classe. La visione del socialismo che ne scaturisce per specularità è quella di una
cupa tirannide dove questi nobili principi sarebbero negati. Una rappresentazione falsa
e del tutto subalterna alla propaganda borghese.
Resta il fatto che le teorie di Berlinguer hanno prodotto il disarmo teorico ed
organizzativo di ogni resistenza operaia e popolare in Italia e spianato la strada alle
forze più retrive del capitalismo monopolistico, che stanno dissanguando l’Italia e il
suo popolo.
L’intervista a Giampaolo Pansa (proprio lui!) sul Corriere della Sera del 15
giugno 1976 sancisce l’accettazione definitiva dell’Occidente capitalistico e della sua
micidiale alleanza militare, la NATO, portando a compimento la rottura con il campo
socialista che, anche se infettato dal germe del revisionismo khruscioviano, rimaneva
pur sempre il più formidabile baluardo di contenimento dell’imperialismo. «Pansa:
“…insomma, il Patto Atlantico può esser anche uno scudo utile per costruire il
socialismo nella libertà…” Berlinguer: “Io voglio che l’Italia non esca dal Patto
Atlantico anche per questo, e non solo perché la nostra uscita sconvolgerebbe
l’equilibrio internazionale. Mi sento più sicuro stando di qua….”».
Ed infine, sempre su questo filone, c’è la famosa frase con cui, nel 1981, viene
definitivamente reciso il ‘cordone ombelicale’, anche ideale, con la storia del
movimento operaio e comunista: “…si è esaurita la spinta propulsiva della
Rivoluzione d’Ottobre…”.
Assolutamente rilevante è poi la scelta strategica con cui Berlinguer ‘sposa’
il processo di unità europea e capitalistica mentre esistono ancora l’URSS ed il campo
socialista. Nella famosa intervista con Eugenio Scalfari, uno dei distruttori del PCI,
sul giornale La Repubblica del 2 agosto 1978: «“…Scalfari: “Il 1979 sarà l’anno
dell’Europa. E lei ha detto nell’ultima riunione del Comitato Centrale che il PCI ha
fatto una scelta europea definitiva. Lo conferma?”. Berlinguer: “Lo confermo.
Sappiamo che il processo d’integrazione europea viene condotto, almeno per ora,
prevalentemente da forze e da interessi ancora profondamente legati a strutture
capitalistiche che noi vogliamo trasformare. Sappiamo che l’integrazione
sopranazionale, condotta e guidata da quelle forze, pone vincoli al processo di
trasformazione nazionale… Ma noi riteniamo che comunque bisogna spingere verso
l’Europa e la sua unità e che la sfida che questo obiettivo comporta vada accettata,
portando la lotta di classe, democratica e rinnovatrice, a livello europeo e a
coscienza europea…”».
Una rapida considerazione del pauroso peggioramento, sotto tutti gli aspetti,
della condizione dei lavoratori e dello stesso ceto medio in conseguenza della dittatura
dell’Unione Europea può certo darci la disastrosa portata degli errori teorici e delle
deviazioni pratiche di questo segretario del PCI.
Infine, alcune considerazioni sulla Costituzione italiana, che poteva essere
considerata, non a torto, la più avanzata dell’Occidente capitalistico, frutto appunto
dei rapporti di forza e della grande, ma non risolutiva, influenza dei comunisti
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nell’immediato dopoguerra. Mentre le costituzioni sovietiche succedutesi negli anni
erano di tipo statico, cioè sancivano, in modo quasi fotografico, l’ordinamento statuale
realizzato fino a quel momento e il livello dei diritti già realmente acquisiti, al di sotto
del quale non si poteva scendere, ma a partire dal quale si doveva progredire, la
costituzione italiana fu concepita come programmatica. Ordinamento e diritti, lungi
dall’essere acquisiti, costituivano l’obiettivo programmatico a cui lo Stato avrebbe
dovuto tendere. Nonostante la rigidità della procedura di modifica, è proprio questa la
sua più grande debolezza: per vanificarla è sufficiente non attuarne gli obiettivi.
Inoltre, le modifiche, apportate negli ultimi vent’anni alla sua parte attuativa ne hanno
di fatto paralizzato quella programmatica. Disattesa, quindi, stravolta ripetutamente, è
di fatto ormai sostituita da una ‘costituzione materiale’ che certifica i rapporti di forza
a favore del capitale. Oggi, con l’inserimento del ‘pareggio di bilancio’ voluto dalla
BCE e dalla UE, viene definitivamente violentata. “La stalla è aperta da tempo ed i
buoi sono scappati”. Non è un caso che, proprio in questo contesto, in quella che si
autodefinisce sinistra, si sentano flebili e contraddittorie voci a sua difesa. Tra i suoi
attuali difensori notiamo personaggi come Rodotà, il primo presidente del PDS di
Occhetto, Giulietti ed altri ancora che nel passato hanno fatto a gara nel mettere sul
banco degli imputati le posizioni ideologiche, politiche e rivendicative più avanzate
del movimento operaio. Della compagnia fa parte anche il contraddittorio Landini che
solo poche settimane fa siglava, insieme alla Camusso e alla CGIL, il più vergognoso
e anticostituzionale protocollo d’intesa con Confindustria per stroncare il sindacalismo
di base e oggi firma a favore della difesa della Carta costituzionale…
Se, da un lato, i comunisti devono essere in prima fila per evitarne ulteriori modifiche
peggiorative e restrittive, è fuori da ogni ragionevole dubbio che la Costituzione oggi
vigente non è più la Costituzione del 1948, frutto dell’unità antifascista e della
Resistenza. Soprattutto dopo l’inserimento dell’obbligo di pareggio del bilancio, che
avrà incalcolabili conseguenze negative sul piano sociale.
Un periodo di soli settant’anni separa l’oggi da quando, grazie alla solida
organizzazione del PCI clandestino, si formarono le prime ‘bande’ partigiane che si
batterono contro il nazi-fascismo. Oggi, quegli uomini si rivolterebbero nelle tombe
se scoprissero quale immonda torsione è stata fatta ai principi che stavano alla base
del loro sacrificio. E’ anche per questo che, con immensa modestia ma con ferma
convinzione, vogliamo riprendere il loro cammino e ricostruire il soggetto
rivoluzionario, il Partito Comunista, evitando tanto le deviazioni parlamentariste,
quanto l’errore di una scolastica ortodossia slegata dai processi reali della società.
Queste note non esauriscono certamente il complesso problema dell’analisi
della storia, della mutazione degenerativa e della scomparsa del più forte Partito
Comunista dell’Europa Occidentale, ma devono servire come prima traccia per una
ulteriore, imprescindibile elaborazione analitica collettiva da parte di tutto il partito
che stiamo costruendo.
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PARTE SECONDA
5) Il no comunista al golpe europeo.
Le cause della crisi che sta attanagliando l’Europa sono individuabili solo
attraverso una corretta analisi marxista-leninista della realtà. La crisi che stiamo
vivendo e che correttamente definiamo “crisi generale del capitalismo” ha la sua vera
origine nella maturazione della contraddizione fondamentale del capitalismo tra
carattere sociale della produzione e appropriazione privata del prodotto e si manifesta
come crisi di sovrapproduzione e sovraccumulazione, in conseguenza delle quali si
accentua la tendenza alla caduta del saggio di profitto, già endemica del modo di
produzione capitalistico.
Per cercare di arrestare la flessione del saggio di profitto, il capitalismo in
primo luogo intensifica lo sfruttamento della forza-lavoro e l’estrazione di plusvalore,
comprimendo il salario diretto, indiretto (servizi sociali), differito (pensione e Tfr)
allungando il tempo di lavoro in termini di orario e di età pensionabile. Un’altra via
che il capitalismo cerca di seguire a questo scopo è la delocalizzazione della
produzione in quei Paesi dove i costi di produzione, in particolare del lavoro, sono
inferiori. In terzo luogo, il capitale cerca rimedio alla caduta del saggio di profitto
anche spostandosi dalla produzione di beni e servizi al settore finanziario, generando
effetti speculativi e accentuando il proprio carattere parassitario.
In quarto luogo, utilizza parassitariamente la spesa pubblica, finanziata dalla
fiscalità sostenuta in gran parte dal lavoro dipendente, mutandone la composizione a
proprio favore attraverso un insieme di provvedimenti di politica economica a
sostegno delle imprese private, di settori di imprese, di aree geografiche specifiche in
cui le imprese operano, di progetti speciali di “sviluppo”, di realizzazione di grandi
opere, ecc.. Si va dalle agevolazioni creditizie, alla defiscalizzazione e alla
decontribuzione, fino alla concessione di finanziamenti a fondo perduto. I costi
connessi a queste misure determinano un incremento del deficit dello Stato e del suo
indebitamento per finanziarlo. Il tutto ricade, come detto, sulle spalle dei lavoratori
contribuenti.
Infine, ricorre alla guerra. Marx e Lenin hanno analizzato e descritto i periodi
di crisi come caratterizzati non solo da licenziamenti e creazione di un esercito
salariato di riserva, cioè di disoccupati, ma anche dalle guerre tra stati imperialisti,
finalizzate sia al controllo e alla spartizione delle risorse e dei mercati, sia alla
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distruzione di parte della massa di capitale sovraccumulato nel tentativo di
compensare la caduta del saggio di profitto.
In tutti i casi, il capitale affronta la propria crisi cercando di scaricarne il peso
sui lavoratori, sia all’interno che all’esterno del proprio Paese. Nonostante questi
approcci, tuttavia, il capitalismo monopolistico non riesce più a riavviare
positivamente il ciclo di riproduzione e accumulazione, come aveva fatto con relativo
successo in passato, poiché la contraddizione fondamentale di questo modo di
produzione è giunta a maturazione e può essere risolta solo attraverso il mutamento
rivoluzionario del modo di produzione stesso. Il prolungamento dell’agonia del
capitalismo moribondo può verificarsi solo a prezzo di un insostenibile e inaccettabile
immiserimento dei popoli.
La natura stessa della concorrenza interimperialistica determina la
formazione di conglomerati imperialisti transnazionali, cioè di blocchi di stati,
disomogenei quantitativamente per livello di sviluppo industriale e per grado di
accumulazione, ma omogenei qualitativamente per il carattere monopolistico del
capitale e della proprietà dei mezzi di produzione. L’elemento unificante che li tiene
insieme è una relativa comunanza di interessi delle classi dominanti dei paesi che ne
fanno parte, comunque in competizione tra loro: la necessità di creare un mercato
interno più vasto di quello strettamente nazionale, tramite forme di unione doganale,
monetaria e bancaria; l’esigenza di acquisire maggior peso nell’ambito della generale
concorrenza interimperialistica per il controllo delle risorse, dei mercati e delle vie di
comunicazione; la volontà di attuare a livello di ciascun paese forme di sfruttamento
del lavoro più pesanti, mascherandole come misure “oggettivamente necessarie” o
“imposte” da un’insindacabile volontà esterna e superiore; l’intenzione di comporre il
conflitto tra gli “appetiti” delle diverse borghesie nazionali in modo incruento, senza
ricorrere all’uso delle armi, come accadeva nel passato.
L’Unione Europea è, appunto, uno di questi conglomerati imperialisti, per il
quale valgono tutte le considerazioni esposte sopra. Gli Stati imperialisti europei che
ne fanno parte, spesso in aspra competizione anche tra loro, cercano di far pagare il
costo della crisi e della concorrenza mondiale con gli USA e i BRICS innanzitutto ai
propri lavoratori e ai popoli dei paesi terzi, ma si cannibalizzano anche fra di loro,
approfittando delle debolezze politiche ed economiche del vicino. Dall’introduzione
della moneta unica, le politiche economiche che l’Unione Europea, cioè il capitale
monopolistico industriale e finanziario europeo, impone ai popoli dei paesi aderenti
ruotano sostanzialmente sui seguenti cardini:
– rigore di bilancio, abbattimento del rapporto deficit/PIL e rientro del debito
pubblico;
– contenimento dell’inflazione;
– fiducia nella presunta capacità di autoregolazione del mercato.
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Alla base di queste politiche vi è il tentativo di mantenere una relativa stabilità
dell’euro, rendendolo capace di guadagnare la fiducia dei mercati e di strappare al
dollaro il ruolo di mezzo universale dei pagamenti internazionali, in una visione
monetarista in cui il denaro viene considerato il regolatore supremo dell’economia. Gli
interventi di immissione o ritiro di moneta circolante da parte delle banche centrali,
secondo i monetaristi, consentirebbero di influenzare e regolare, almeno sul lungo
periodo, tutte le altre variabili, produzione e domanda di beni e servizi, importazioni
ed esportazioni, livello occupazionale, ecc.., determinandone la tendenza al
raggiungimento di posizioni di equilibrio sistemico. I marxisti sanno bene che il primo
mobile di qualsiasi economia è la produzione. Se non vi fosse produzione di merci,
non vi sarebbe scambio e, quindi, non vi sarebbe esigenza del denaro come
equivalente generale di scambio delle merci. La quantità d’equilibrio di moneta
circolante è quindi funzione della quantità di merci prodotte, non viceversa, tant’è vero
che le crisi di sovrapproduzione, quando l’offerta di beni supera la domanda,
generalmente rischiano di innescare pericolosi fenomeni deflattivi, cioè di
deprezzamento delle merci rispetto al denaro. Lo squilibrio è determinato non dalla
carente offerta di moneta, ma dall’eccessiva offerta di merci. Pertanto, in condizioni di
mercato capitalistico, qualsiasi intervento delle autorità monetarie teso ad aumentare
la massa di moneta circolante non è in grado di ripristinare l’equilibrio, in quanto non
agisce sulla produzione. L’equilibrio può essere raggiunto solo al di fuori del modo di
produzione capitalistico, del profitto e del mercato che lo caratterizzano, da
un’economia socialista centralmente pianificata.
Se analizziamo i cardini delle politiche economiche dell’UE, non possiamo non
rilevarne il segno di classe che le marca. Per come l’euro, i requisiti per far parte
dell’Eurozona e i vincoli di stabilità valutaria sono stati concepiti dai Trattati di
Maastricht, la sua stessa introduzione ha determinato un consistente trasferimento di
quote di reddito nazionale dal lavoro al capitale. Questo fenomeno ha interessato tutti i
paesi aderenti, anche se in misura differente per via delle diverse parità delle valute
nazionali con l’euro, provocando una relativa omogeneizzazione verso l’alto dei prezzi
in tutta la zona interessata. In Italia l’adozione dell’euro è stata particolarmente pesante
per i lavoratori. Mentre i prezzi venivano convertiti con un rapporto di 1:1, salari,
stipendi e pensioni subivano l’adeguamento al tasso di cambio 1:1937,26: ad un
raddoppio dei prezzi ha corrisposto un dimezzamento delle retribuzioni! La rapina,
evidente fin dall’inizio, tuttavia, non si è fermata a questo.
Le politiche di riduzione del rapporto deficit/PIL e di rientro dal debito pubblico,
imposte dall’UE, agiscono principalmente sulla spesa pubblica e sulla fiscalità. In fase
di recessione economica, quando il PIL decresce, l’unica via per ridurre il rapporto
deficit/PIL, non essendo possibile agire sul denominatore, rimane l’abbattimento del
deficit, cioè la riduzione della spesa e l’aumento delle entrate. La riduzione della spesa
pubblica si traduce, di fatto, in tagli drastici al finanziamento di servizi essenziali,
quali istruzione, sanità, trasporto pubblico, ricerca scientifica, infrastrutture necessarie
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allo sviluppo, assistenza e previdenza, mentre non vengono minimamente toccate le
voci di spesa riguardanti i trasferimenti, a vario titolo, dallo Stato alle grandi imprese e
alle banche private, o le missioni di guerra, o l’acquisto di nuove armi, o le grandi
opere inutili. Le defiscalizzazioni e le decontribuzioni, tra l’altro, avvantaggiano le
grandi imprese, ma contribuiscono a peggiorare i conti pubblici sul lato delle entrate,
il cui aumento è ormai affidato a dismissioni e privatizzazioni del patrimonio pubblico
del popolo e ad un insostenibile aumento della pressione fiscale, che sta strangolando
lavoratori e ceto medio produttivo. Si tratta di misure che deprimono ulteriormente la
domanda, amplificando gli effetti della crisi, ma consentono la sopravvivenza,
parassitaria e assistita, dei monopoli e delle banche private, scaricando il fardello del
loro mantenimento sulle spalle dei lavoratori e dei popoli, costretti a pagare un debito
di cui non sono minimamente responsabili.
Con l’introduzione dell’euro, il debito pubblico è diventato il vero e proprio
cappio al collo del popolo, determinato dall’uso di classe della leva fiscale e della
spesa pubblica per sostenere il tasso di profitto del capitale monopolistico, industriale
e finanziario. In Italia, il debito ha raggiunto quota 132% sul PIL. Strutturalmente, è
composto per l’83% da titoli del debito pubblico, detenuti per l’87% da banche d’affari,
fondi d’investimento, compagnie d’assicurazione, grandi imprese capitalistiche e, per il
52,4%, è posseduto da grandi investitori privati e fondi sovrani esteri. E’ evidente che
il piccolo risparmio diffuso costituisce la minima parte, marginale e ininfluente, dei
detentori di titoli del debito pubblico. Inoltre, stante il vigente meccanismo delle aste
per il collocamento dei titoli del debito pubblico, è altrettanto evidente che l’accesso
all’acquisto da parte dei piccoli risparmiatori può avvenire solo attraverso
l’intermediazione di banche e brokers finanziari, che ovviamente lucrano
sull’operazione. Queste considerazioni ci aiutano a capire la portata dell’operazione
attuata facendo leva sul terrorismo mediatico scatenato sulla questione dello “spread”,
cioè del differenziale tra il tasso di rendimento dei titoli pubblici nazionali in rapporto
al bund, il titolo pubblico tedesco. Il mercato mobiliare è controllato e dominato da
grandi gruppi concentrati di capitale finanziario, in grado di influenzarne l’andamento,
mentre il piccolo risparmio è del tutto ininfluente e subisce soltanto le tendenze
imposte da questi. Mentre il risparmiatore acquista il titolo in base al rendimento
nominale della somma investita e si orienta su un arco temporale di breve periodo, il
grande investitore punta a lucrare sulle differenze certe tra prezzi d’acquisto e valori
nominali dei titoli e su quelle, aleatorie ma maggiori, tra prezzi d’acquisto e aspettative
di prezzi di vendita futuri, realizzabili probabilisticamente su un arco temporale più
lungo. Data l’inversa proporzionalità, a parità di valore nominale, tra prezzo e
rendimento dei titoli, è solo questa aspettativa di lucro a spingere al rialzo i tassi di
interesse sul debito e, quindi, ad aumentare lo spread. Considerando il carattere
transnazionale del capitale finanziario e l’enorme massa di denaro di cui dispone, non
è difficile comprendere come riesca a spostare l’attacco speculativo da un paese
all’altro, da un titolo sovrano all’altro. Che le oscillazioni dello spread non siano
motivate da considerazioni diverse dalla massimizzazione del profitto, quali la
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“fiducia nella solidità dell’economia” del dato paese e altre fandonie simili, lo
dimostrano i fatti. Il calo immediato dello spread nei casi in cui i ministeri economici
di un paese annunciano una nuova ondata di dismissioni e privatizzazioni è dovuto
alla creazione di occasioni alternative d’investimento, convenienti e appetibili per il
capitale in cerca di impiego, che quindi si sposta dal mobiliare ad altri settori
d’impiego. La “fiducia” non c’entra nulla. C’entra solo l’opportunità di saccheggiare il
patrimonio reale di un paese.
D’altro lato, l’operazione sullo spread ha coinciso con la concessione di prestiti
da parte della BCE al sistema bancario privato al tasso agevolato dell’1%, fornendogli
i mezzi per acquistare titoli del debito pubblico, lucrando la differenza tra il tasso
passivo del prestito e i tassi nominali dei titoli di alcuni paesi, tra cui l’Italia, schizzati
verso l’alto per la pressione speculativa di quegli stessi intermediari finanziari, con la
complicità delle colluse agenzie internazionali di rating. Le banche private si sono
arricchite ancora di più grazie all’intervento della BCE e il conto continua ad essere
pagato dai lavoratori attraverso il prelievo fiscale con cui ciascun paese finanzia la
BCE. La maggior parte dei debiti sovrani, compreso quello tedesco, è detenuta dalle
banche private. L’eventuale insolvenza di uno Stato comprometterebbe i sistemi
bancari e creditizi degli altri Stati, impossibilitati a far fronte alla crisi di liquidità con
l’emissione di moneta, non consentita dalla BCE, facendo così sprofondare nella
recessione i rispettivi sistemi produttivi. Per questa ragione, scegliendo di non
finanziare gli stati, l’Unione Europea e la BCE hanno regalato alle banche private,
negli ultimi quattro anni, 4.500 miliardi di euro, l’equivalente della somma del debito
di Portogallo, Spagna, Italia e Grecia, per ricapitalizzarle a spese dei popoli europei,
senza alcuna garanzia in termini di effettivo risanamento degli assets in portafoglio, di
trasparenza e veridicità dei bilanci e di reale abbandono delle azzardate pratiche
speculative che avevano determinato il disastro, né, tantomeno, di risarcimento ai
milioni di piccoli risparmiatori, pensionati e pensionandi, fraudolentemente derubati
dei loro modesti averi con la bufala dei derivati.
Più recentemente, la BCE e la Commissione Europea hanno creato il MES
(Meccanismo di Stabilità Europea), anche chiamato “fondo salva stati”, al fine di
immettere liquidità sui mercati e prevenire eventuali bancarotte o default, ma il prezzo
che dovrebbero pagare i popoli degli Stati che facessero richiesta al MES di un
intervento di sostegno sarebbe enorme in termini di privatizzazioni di beni pubblici, di
pezzi di territorio, di tagli ai servizi essenziali, ai salari ed alle pensioni. Inoltre, il
finanziamento pro-quota del MES è a carico della fiscalità generale degli Stati
aderenti e non fa che peggiorarne la situazione debitoria e di ingiustizia distributiva.
Alla depressione della domanda conducono anche le politiche attuate dalla UE
per contenere l’inflazione. La stabilità dei prezzi interni dovrebbe contribuire a fare
acquisire competitività al sistema in un ambiente di generalizzata concorrenza
internazionale e in condizioni di impossibilità di utilizzare lo strumento della
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svalutazione, ma in realtà viene perseguita colpendo e comprimendo i salari e le
retribuzioni dei lavoratori allo scopo di trasferire maggiori quote di reddito dal lavoro
al capitale. Una svalutazione competitiva dell’euro non viene neppure presa in
considerazione perché contraria agli interessi della lobby finanziaria, politicamente
predominante all’interno della borghesia monopolistica europea.
Il martellante battage messo in atto dall’apparato di propaganda di Bruxelles, le
“raccomandazioni” della BCE a firma Mario Draghi, ogni esternazione degli
euronotabili, le insistenti richieste dei rappresentanti del grande capitale, concorrono a
imporre la riduzione del costo del lavoro, nelle sue componenti salariale e fiscale-
contributiva, quale unica via percorribile per controllare l’inflazione e aumentare la
competitività, come se il costo del lavoro fosse l’unica componente determinante nella
formazione dei prezzi e come se il prezzo fosse l’unica variabile che influisce sulla
competitività. Questa non si basa esclusivamente sul dato quantitativo, ma anche e
molto più efficacemente su quello qualitativo, a determinare il quale concorrono
fattori come il grado di infrastrutturazione, il livello della ricerca scientifica,
l’introduzione di innovazioni di prodotto e di processo, l’organizzazione del lavoro e
delle risorse umane, la rete di distribuzione, l’assistenza al cliente, la capacità di
credito, ecc.. Il potenziamento di questi fattori a scopo competitivo è impedito in parte
dalle stesse politiche di rigore di bilancio, imposte dall’UE, ma, dall’altra parte, da un
grande capitale, monopolistico e cartellizzato, che concepisce la concorrenza
internazionale solo come guerra dei prezzi, restio a destinare risorse, soprattutto in
fase di sovrapproduzione, all’innovazione e alla ricerca. Ricondurre il problema della
competitività al solo costo del lavoro, quindi, è un approccio riduttivo e in mala fede.
Certo, il costo del lavoro influisce sul livello dei prezzi, ma anche il profitto, nelle
condizioni del mercato capitalistico, contribuisce a determinarlo. Mentre i lacchè del
capitale si affannano a presentare la compressione dei salari e degli oneri sociali,
quindi delle pensioni future, come unica via per la “ripresa”, nessuno osa mettere in
discussione il profitto, diventato oggi una vera e propria “variabile indipendente”,
intangibile e indiscutibile, neppure i sindacati, privi ormai di un orientamento di
classe, imprigionati tra il corporativismo di categoria e la concertazione al ribasso.
La crisi ha rivelato l’inconsistenza dell’illusione circa la capacità di
autoregolazione del mercato. Il mercato che l’UE ha idealizzato a fini propagandistici,
dove merci e capitali circolerebbero liberamente, mossi dal meccanismo benefico di
una libera concorrenza puntiforme, esiste solo nelle elucubrazioni degli economisti
borghesi. Il mercato europeo è in realtà dominato da pochi gruppi monopolistici,
altamente concentrati e cartellizzati tra loro, che impongono i propri interessi e la
propria volontà, oltre che le proprie merci, ai popoli d’Europa; nessuna “libera
concorrenza”, quindi. L’illusione è tale per il pubblico, non per gli attori. Alla
deregolamentazione proclamata a parole fa riscontro nella realtà un’estrema e
dettagliata regolamentazione dei sistemi economici nazionali e dei rapporti tra questi.
Dal contingentamento delle produzioni attraverso la fissazione centralizzata di quote,
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ai criteri di stabilità finanziaria, fino all’inserimento nelle costituzioni dell’obbligo di
pareggio del bilancio dello Stato, qualsiasi aspetto della vita economica è
dettagliatamente disciplinato dalle fonti normative dell’UE, originanti principalmente
da organismi non elettivi, quali la BCE, la Commissione Europea, l’Ecofin, ecc., che
riflettono e attuano la volontà del capitale monopolistico transnazionale.
I Comunisti non possono che combattere con la massima fermezza l’Unione
Europea per questo suo carattere di braccio politico-amministrativo delle borghesie
europee, ma devono farlo con un’estrema chiarezza di impostazione teorica e pratica
della lotta.
Occorre che sia ben chiaro che, in questo gioco al massacro dei lavoratori, non
esiste una borghesia nazionale più o meno colpevole delle altre. La borghesia di
ciascun paese aderente all’UE è ugualmente responsabile delle politiche di rapina ai
danni del lavoro, anche se partecipa alla spartizione delle spoglie in proporzione al suo
peso specifico e alla sua posizione nella piramide imperialista. In qualsiasi banda di
rapinatori, gli accoliti hanno diverse categorie di peso. Dobbiamo quindi sgombrare il
campo da qualsiasi tentazione di condurre una battaglia, ad esempio, antitedesca, dove
la Merkel fa la parte del cattivo e i vari Marchionne, Colaninno, De Benedetti,
Squinzi, Marcegaglia, rappresentati dai vari Berlusconi, Monti e Letta, fanno la parte
dei buoni e vengono assolti. Il grande capitale italiano è perfettamente inserito in
queste logiche di competizione e di redistribuzione della ricchezza e riesce a trarne
notevoli profitti, mentre il proletariato ed i ceti popolari italiani subiscono una doppia
oppressione ed un doppio sfruttamento, quello da parte della propria borghesia
nazionale e quello attuato dalle borghesie dei paesi collocati più in alto nella piramide
dell’imperialismo europeo.
Bisogna abbandonare un uso improprio e fuorviante di termini come
“colonialismo” e “sovranità nazionale”, applicati alle vicende interne dell’Unione
Europea. Non dobbiamo dimenticare che proprio “questa” Europa è stata voluta dalle
classi dominanti di ciascun paese aderente. Quando era ancora possibile rifiutare
l’inserimento in costituzione del pareggio del bilancio, è stata la nomenclatura politica,
espressione della borghesia nazionale, ad approvarlo con maggioranza quasi assoluta.
Parlare di un presunto disegno coloniale significa negare ogni responsabilità della
borghesia nazionale. Allo stesso modo, affermare che “occorre ripristinare la sovranità
nazionale”, significa non rendersi conto che la borghesia non l’ha mai persa, ma ha
deciso sovranamente, in quanto detentrice del potere, non di “rinunciare a quote di
sovranità”, bensì di centralizzare alcune funzioni, concentrandole nell’UE; se non si
capisce questo, si finisce per accettare per buono l’alibi che la borghesia stessa
propone. Peggio ancora se si parla di “sovranità popolare”: non si può ripristinare ciò
che non è mai esistito.
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L’irriducibile opposizione dei Comunisti all’Unione Europea e alla NATO, che
sempre più si caratterizza come il suo braccio militare, assieme ad una strenua difesa
degli interessi immediati della classe operaia e degli strati popolari produttivi, deve
porsi in modo realistico gli obiettivi dell’uscita da entrambi questi organismi
imperialisti e dal sistema dell’euro, del loro smantellamento e dell’azzeramento
unilaterale del debito pubblico, della nazionalizzazione di banche e monopoli.
La constatazione dell’irriformabilità del capitalismo in generale, quindi anche
di quello europeo, segna il punto di rottura irrevocabile tra i Comunisti e gli
opportunisti del Partito della Sinistra Europea. Non si può pensare che sia possibile
ristabilire semplicemente lo status quo precedente, che la borghesia stessa ha scelto di
abbandonare, né che vi siano ancora spazi per un riformismo che non ha più mezzi
materiali per attutire il conflitto di classe. L’unica via percorribile per cambiare
l’Europa ed evitare povertà di massa e barbarie è il rovesciamento rivoluzionario del
capitalismo e l’instaurazione del potere proletario.
Questo obiettivo non può che essere perseguito attraverso uno stretto
coordinamento, politico e operativo, dei Partiti Comunisti e Operai dell’area, che ne
rafforzi l’unità ideologica e politica con un intenso lavoro di analisi delle
problematiche europee, di studio e di elaborazione di adeguate tattiche e forme di lotta
praticabili nelle date condizioni, che sfocino in incisive azioni comuni e congiunte
delle avanguardie proletarie di ogni paese.
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6) La questione meridionale, il paradigma italiano da Gramsci ai tempi nostri.
“È noto quale ideologia sia stata diffusa in forma capillare dai
propagandisti della borghesia nelle masse del Settentrione: il Mezzogiorno è la palla
di piombo che impedisce più rapidi progressi allo sviluppo civile d’Italia; i
meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari
completi per destino naturale; se il Mezzogiorno è arretrato la colpa non è del
sistema capitalistico o di qualche altra causa storica, ma della natura che ha fatto i
meridionali poltroni, incapaci, criminali, barbari, temperando questa sorte matrigna
con la esplosione puramente individuale di grandi geni, che sono come le solitarie
palme in un arido e sterile deserto. Il partito socialista fu in gran parte il veicolo di
questa ideologia borghese nel proletariato settentrionale.”
Antonio Gramsci
Gramsci ha dato uno specifico contributo al movimento operaio mondiale,
facendo un’analisi di classe (ossia pienamente marxista) dell’Unità d’Italia.
Quell’unità fu il risultato dell’alleanza tra gli industriali del Nord e gli agrari del Sud,
sotto l’egida della Corona britannica. Non che non ci fossero altre classi coinvolte,
come gli agrari del Nord, gli industriali del Sud e gli intellettuali; ma quelle due
furono le classi trainanti, “egemoniche”. Questa egemonia fu profondamente
antidemocratica, perché – contrariamente per esempio a quanto accadde nella
Rivoluzione francese – non risolse, ma anzi aggravò il problema contadino, creando
inoltre il problema territoriale che fu chiamato la “questione meridionale”. La
necessità impellente di risolvere i problemi finanziari del virtualmente fallito Regno
sabaudo si fusero con i giochi geostrategici europei: un’Inghilterra gelosa
dell’attivismo mercantile e navale dello Stato borbonico, un oscuramento
dell’influenza della protezione asburgica, una inconcludenza della diplomazia
francese. Tutto ciò rese vulnerabile dall’esterno la monarchia napoletana. Inoltre la
nascente borghesia meridionale, emergente all’ombra della monarchia, si proiettava
sulla scena internazionale commercialmente ma non militarmente (al contrario dello
sfrenato attivismo cavouriano) e ciò rese lo stato duo siciliano vulnerabile anche
dall’interno.
Fu quindi possibile per gli agrari del Sud stringere il patto infame, attratti dai
facili guadagni della promessa “privatizzazione” ante litteram della mano morta delle
terre demaniali e della Chiesa. Naturalmente ciò doveva passare dalla negazione più
radicale e violenta delle istanze di riscatto dei contadini poveri. Chi ne fece subito le
spese, oltre a questi, fu la nascente industria meridionale, condannata a un percorso di
sottosviluppo insieme a tutto l’intero territorio meridionale. Quella classe degli agrari
del Sud ha avuto nei decenni la possibilità di governare attraverso la mafia intere
regioni e di accumulare enormi profitti, riciclandosi infine anche come classe sociale,
ma sempre all’ombra del grande capitale finanziario, fino a ieri nazionale, oggi
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europeo.
Dopo l’Unità non solo il latifondo non fu distrutto, ma le terre espropriate al
demanio e alla Chiesa furono appannaggio di pochi affaristi. Alle promesse inevase ai
contadini si rispose con il terrore militare. Da lì cominciò una lunga storia di
emigrazione. Il fascismo non fece che aggravare il divario Nord-Sud sia in termini di
infrastrutture che di produzione. Solo nel secondo dopo-guerra la questione
meridionale venne al centro di un’azione politica nazionale e per alcuni anni
l’ampliamento del divario cessò, invertendone il senso. Fu il forte fronte popolare a
saldare gli interessi delle classi che avevano perso la battaglia dell’Unità nazionale,
ma che ora si battevano insieme: “Nord-Sud uniti nella lotta”.
La stagione durò poco. Essa coincise con il tempo dei grandi movimenti di lotte
operarie, e i due movimenti, sincroni nella loro azione progressiva, arretrarono anche
di pari passo negli anni 80. Altrettanto importante ricordare è che il tramonto di quella
stagione viene ben prima del crollo dell’URSS, e che quindi le ragioni vanno cercate
nell’abbandono del partiti popolari della loro collocazione di classe e della loro
prospettiva rivoluzionaria.
Ma che convenienza ha avuto il Nord a tenere un terzo abbondante della
propria popolazione in condizioni di sottosviluppo per 150 anni? Non avrebbe avuto
grande vantaggio ad avere una parte del Paese forte, produttivo e ricco dove poter
esportare i propri prodotti? Certo non si può spiegare tutto con quell’atto di pirateria
che fu il furto dell’oro meridionale, né con l’abbattimento delle barriere doganali che
sbaragliarono la debole industria meridionale. In realtà il Sud è stato tenuto in
condizione di subalternità, ma non tutto, ci sono state classi sociali estremamente forti
che hanno imposto i loro interessi a Roma; improduttivo, nel senso che non ha fatto
concorrenza all’industria manifatturiera del Nord, ma si è caricato la parte più
inquinante della produzione; povero, ma certo non tutto, presentando sacche di
ricchezza testimoniate da una concentrazione di sportelli bancari ineguagliata in
Europa. Quindi una divisione dei ruoli tra pezzi del capitalismo italiano, in cui però è
stato il popolo meridionale a pagare il prezzo più elevato. Quindi non è vero che
lasciare intere regioni al sottosviluppo e al degrado sia un cattivo affare per il
capitalismo, anzi è stata la cifra del “miracolo” italiano.
È interessante anche vedere come sono evoluti i rapporti di forza tra i vari
settori del capitalismo nazionale. Dopo la stagione caratterizzata da un flusso di
investimenti pubblici nel Sud degli anni ’70 (appena paragonabile a quello
settentrionale), si è assistito a una politica sempre più Nord-centrica. Gli aspetti
eclatanti sono rappresentati dall’assorbimento nei grandi Istituti bancari del Nord dei
due colossi meridionali (Banco di Napoli e Banco di Sicilia, con le relative banche che
avevano precedentemente annesso). Il tessuto bancario meridionale si è trasformato
sempre più in una rete per la raccolta dei risparmi e non per la erogazione del credito.
Testimonianza di ciò sta nelle differenze insopportabili tra i tassi di interesse praticati
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al Nord e quelli praticati al Sud. La recente restrizione di accesso al credito (credit
crunch) lamentata da settimane dai giornali padronali nel Sud c’è sempre stata e ora si
è più ancora aggravata. Si notino due cose essenziali.
Primo, analoghe restrizioni sono ben tamponate dal sistema bancario pubblico e
privato in Francia e Germania. È singolare che le banche prevalentemente speculative
del Nord Europa, rimpinzate di titoli spazzatura, abbiano una valutazione migliore
delle banche italiane, prevalentemente votate al prestito alle famiglie e alle aziende,
tanto che si è temuto la possibile “scalata” da parte dei grandi colossi finanziari. Per
ora la partita è ferma, ma è solo rimandata.
Secondo, difficoltà di accesso al credito – o addirittura taglio improvviso dei
fidi e esazione impietosa dei debiti attraverso Equitalia – nel meridione vuol dire
gettare il malcapitato nelle braccia della mafia, con buona pace dell’antimafia di
facciata dello Stato capitalista. Non si può non scorgere in questa situazione una regia
che tende all’ulteriore compressione dell’Italia, e del Sud in particolare,
incrementando i flussi finanziari dalla periferia al centro. Il capitalismo internazionale,
sappiamo, ha da tempo trasformato la propria vocazione di esportatore di capitali dei
tempi di Lenin a quello di importatore per sostenere le proprie bolle speculative.
Terzo, l’irrealisticamente elevato cambio dell’euro penalizza le economie più deboli,
come quelle del Sud Europa e tra queste maggiormente quelle del Sud Italia, mentre
favorisce le industrie tecnologicamente più avanzate, come quelle tedesche. Se
bisogna sfoltire la concorrenza si comincia dalle industrie dei Paesi politicamente più
deboli. Questa è la collocazione internazionale che è stata riservata al nostro Paese, e
al Meridione in particolare, dalla dittatura della UE.
Quante volte ci hanno turlupinato con la favola che il Sud doveva diventare il
ponte con i Paesi dell’altra costa del Mediterraneo? Quante volte si è parlato di
“piattaforme logistiche” in cui trasformare l’intera Sicilia? Ebbene erano chiacchiere
buone solo per andare da un’elezione all’altra. (Le piattaforme logistiche che invece
sono state realizzate sono rappresentate dal porto di Gioia Tauro, del tutto avulso dal
resto del territorio e che a esso non porta alcun beneficio).
Abbiamo visto l’Europa cosa intende per cooperazione nel Mediterraneo. La
Sicilia è servita come base operativa per aggredire un popolo indomito come quello
libico, e ci son voluti sette mesi di incessanti bombardamenti della più vasta
coalizione dai tempi di Desert Storm, per ridurre a ceneri fumanti un’intera Nazione.
La Sicilia è sede di decine e decine di basi americane, tra le quali la più vasta
d’Europa, Sigonella, e ora si prevede l’istallazione di un sistema radar a raggio
intercontinentale, il MUOS, che costituisce un pericolo incombente alla salute delle
popolazioni esposte, che viene a sommarsi alle 46 antenne del sistema NRTF già
presenti a Niscemi da oltre vent’anni.
Un altro fenomeno che investirà nel prossimo futuro soprattutto le
amministrazioni locali è l’enorme peso del debito che esse hanno contratto al d fuori
di ogni controllo. Se oggi i Comuni più indebitati sono Torino e Milano, abbiamo
invece già assistito a vere “bancarotte” come quelle del comune di Brindisi e fra poco
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si prepara il grosso botto del Comune di Palermo gravato da un debito che non sarà
mai più ripianabile e che peserà a vita.
L’ingresso nell’Unione Europea ha avuto per l’agricoltura meridionale lo
stesso effetto che ebbe l’Unità d’Italia: protezionismo per il Nord e liberismo per il
Sud. I contributi elargiti nel tempo sono serviti a distruggere le coltivazioni di pregio a
favore di produzioni di scarsa qualità e comunque non competitive col Nord. Si è
pensato sempre come sostenere e far passare leggi in sede comunitaria a favore dei
grandi gruppi industriali (vedi vicenda delle sementi), che hanno stravolto la
trasformazione dei cibi (lo zuccheraggio dei vini, l’aranciata non più fatta con le
arance, oli de-acidificati) e delle aziende agricole del Nord Europa (vedi le quote
latte). Il calo dei prezzi, imposto dalla grande distribuzione porta all’erosione dei
margini, ha comportato il calo della qualità e lo sfruttamento selvaggio della
manodopera. Chi crede che i problemi dell’agricoltura sono da attribuirsi alla
concorrenza dei prodotti provenienti dal resto del mondo, si sbaglia. Le ragioni sono
da cercare nella speculazione privata e nel liberismo selvaggio. Le produzioni di
qualità (vino, ortofrutta) spesso si collocano su mercati di nicchia, che poco o niente
incidono sui livelli occupazionali. Dietro a ogni prodotto acquistato a basso costo c’è
sfruttamento. Nardò con le angurie, Rosarno con gli agrumi e nella zona di Foggia e di
Pachino con i pomodori, rappresentano uno spaccato di una realtà diffusa. Il fenomeno
del caporalato è parte integrante dello sfruttamento capitalistico e non un accidente
locale, è la modalità dello sfruttamento schiavistico proprio delle regioni periferiche
dell’imperialismo. Ne è prova che mai nessun governo ha voluto – non potuto –
contrastare questo fenomeno, né con legislazioni efficaci, né con azioni di repressione.
Né più né meno ciò che accade per gli incidenti sul lavoro.
Stesso discorso si può fare per il comparto della pesca. La fine
dell’assistenzialismo, l’incremento abnorme dei costi, lo strangolamento della
distribuzione e l’iper-sfruttamento del mare da parte delle multinazionali a cui nessun
governo si è occupato di opporsi. A fare il mercato ovviamente è la grande
distribuzione, spesso in mano o a capitali “oscuri” o a grandi multinazionali.
In Sicilia e in Sardegna abbiamo assistito a un fenomeno di ribellione che ha
saldato classi e interessi eterogenei: i pastori sardi, i contadini, i pescatori e gli
autotrasportatori siciliani. Occorre riconoscere che solo i primi si sono saldati
stabilmente alle lotte operaie in difesa del posto di lavoro e hanno davvero avuto la
unanime solidarietà del popolo sardo. Invece più variegato è il panorama in Sicilia. Il
nostro Partito ha espresso una chiara posizione, respingendo le accuse di “mafiosità”
indiscriminata di cui i rappresentanti dei capitalisti hanno bollato queste lotte. Se
all’interno del movimento dei forconi ci sono parole d’ordine che – pur nella
limitatezza dello spontaneismo – hanno dato voce alle istanze dei braccianti agricoli e
giuste accuse e meritate ingiurie indirizzate ai rappresentanti politici locali e nazionali,
dall’altro lato occorre ricordare che questi strati sociali fino a ieri godevano della
mediazione politica delle destre. In realtà è proprio questa mediazione politica che è
saltata col governo Monti, un governo che, contrariamente al precedente, è
completamente impermeabile alle istanze del ceto medio. Il crollo della mediazione
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politica può aprire notevoli spazi di manovra per i comunisti, solo se essi sapranno
esprimere una voce di opposizione di classe che leghi innanzitutto gli sfruttati contro
il sistema capitalistico e quindi realizzi le giuste alleanze con gli altri ceti produttivi.
Se il comparto primario subisce forti penalizzazioni, la situazione nel
comparto industriale è allo stremo. Lo smantellamento della potenza manifatturiera
italiana, che tanta concorrenza fa al sistema mittel-europeo, comincia da qui. La
metalmeccanica siciliana è scomparsa o sta per chiudere, non solo la FIAT e con essa
l’indotto, ma anche tante piccole e medie realtà, come i Cantieri Navali di Trapani e
Palermo, la chimica sarda, le industrie di trasformazione. Anche alcuni punti di
eccellenza, come l’Etna Valley, sono in difficoltà. A parte alcune, restano i pezzi più
inquinanti e devastanti: il petrolchimico (in Sicilia si raffina oltre la metà del petrolio
italiano), i previsti rigassificatori e le trivellazioni. In queste condizioni il destino del
Sud è segnato. Pensare che l’occupazione possa venire da produzioni di nicchia, o da
un turismo d’élite è ridicolo. Restano invece i grandi affari legati agli appalti pubblici,
di cui la mafia gode i benefici. Tuttavia è da sottolineare che anche qui le aziende
locali svolgono per di più un ruolo di supporto sul territorio che consente di fare il
lavoro sporco a basso prezzo, mentre le grandi commesse vengono aggiudicate da
grandi multinazionali. È questo il caso, per esempio, della costruzione degli
inceneritori o del Ponte di Messina. Le grandi ditte del Nord si aggiudicano gli appalti
grazie a ribassi, che possono garantire da un lato con un sistema di subappalti che le
rende invulnerabili rispetto alle numerose infrazioni sulla normativa del lavoro, o
all’iniezione anche qui di capitali di origine illegale. Il tutto sotto l’egida della
criminalità organizzata che, lungi dal creare un ostacolo all’impresa capitalistica,
garantisce la pace sociale e sindacale.
Il comparto sanitario sta sempre più diventando una delle principali voci
utilizzate dalla criminalità organizzata sia come forma di riciclaggio del denaro
illecito, sia come fonte di reddito “pulito”, legale. Ma le mani sul business non sono
solo quelle mafiose; prendiamo ad esempio il caso delle “sette sorelle della sanità
privata”; in cui si annoverano banchieri e immobiliaristi con forti interessi
nell’editoria. Le loro holding svettano per il numero di posti letto sparsi in cliniche,
centri di riabilitazione, case di riposo per lo più accreditati, attraverso le Regioni, al
Sistema sanitario nazionale, dunque a carico delle casse pubbliche in base a tariffe
predeterminate. Oltre alle Sette sorelle c’è la Grande madre, cioè la Chiesa, che del
business della sanità privata rappresenta una fetta importante, ma difficile da
quantificare. La proprietà delle strutture è frammentata tra fondazioni, ordini religiosi,
diocesi, tutti enti che non sono tenuti a rendere pubblici i propri bilanci. Esiste anche
l’ottava sorella rappresentata dalla Compagnia delle Opere, braccio economico di
Comunione e Liberazione: chiunque voglia fare affari deve entrare nei meccanismi
ciellini; ogni settore ha una sua associazione, ognuna di queste associazioni fa capo a
propri partner. Il sistema capitalistico è ben oliato e funziona a pieno regime
soprattutto al Sud. Uno dei centri più potenti di organizzazione del consenso è proprio
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la rete clientelare dei medici. Ulteriore scandalo è la commistione pubblico-privato
che non si vuole estirpare, un sistema che garantisce un continuo travaso di soldi e
potere pubblici verso i potentati locali che finora sono stati la cinghia di trasmissione
del potere capitalistico-mafioso-clientelare.
Negli ultimi decenni abbiamo assistito in Italia al processo di smantellamento
di vari settori pubblici, ma quello che ha subito gli attacchi più grossi è stato quello
dell’istruzione, attraverso l’azione convergente dei governi sia di centro-destra che di
centro-sinistra. Dai ministri della pubblica istruzione Luigi Berlinguer alla Gelmini,
tra riduzione dei fondi di finanziamento alle “riforme” che hanno espulso decine e
decine di migliaia di lavoratori precari sia la scuola che l’università statali italiane
hanno subito continue penalizzazioni: niente tempo pieno che meglio agiva sul
contrasto alle disuguaglianze sociali, introduzione del maestro unico, aumento
inaccettabile del numero minimo di studenti per classi e contestuale riduzione del
personale scolastico. Anche il ruolo svolto dagli enti locali, cui compete fornire le
dotazioni infrastrutturali, contribuisce ad aumentare il divario, infatti nel Mezzogiorno
il volume di spesa è più basso che altrove e col federalismo fiscale la situazione non
migliorerà.
Notevole è il divario in percentuale tra i diplomati e laureati nel Centro Nord
e nel Mezzogiorno con una forbice che si può calcolare dai 3 ai 7 punti percentuali o
più nei vari ordini scolastici. Lo SVIMEZ ci avverte che nel Sud, e particolarmente in
Sicilia, oggi si registrano i minori tassi di passaggio dalla scuola superiore
all’università, mentre nel 2001-2002 questo differenziale si era sostanzialmente
annullato. Questo avviene in un Paese che presenta il minor numero di laureati
d’Europa e il più alto numero di laureati disoccupati. Ciò è testimonianza dello stato
di arretratezza culturale del tessuto economico italiano in genere. Questa caratteristica
è anche abbinata col fatto che in Italia si spende per ricerca e sviluppo circa la metà
dei paesi nostri diretti concorrenti; ma la parte drammaticamente carente è soprattutto
quella privata.
Nella scuola l’espulsione dei lavoratori precari è stata particolarmente
massiccia nel Sud rispetto al Nord, ricordiamo che solo in Sicilia si sono persi finora
ben 20mila posti. Inoltre la realizzazione dei test INVALSI hanno dato dei risultati
dall’effetto comico. Laddove i risultati davano punteggi superiori alle scuole del
meridione, si sono manomessi a posteriori i criteri di valutazione statistici, al solo
scopo di ottenere ciò che era già stato scritto: gli italiani meridionali sono più ciucci
di quelli del nord.
Stesso furore si è messo nell’università statale. Dopo la rottura dell’unità
amministrativa attraverso le “autonomie” degli Atenei e la “liberalizzazione” dei piani
di studio, i fondi per gli Atenei meridionali sono andati progressivamente
prosciugandosi molto più di quanto non sia avvenuto per quelli del Nord. Attacco
finale al diritto allo studio verrà con la prevista eliminazione del valore legale del
titolo di studio. Inoltre già si è creata una rete di Atenei sedicenti “eccellenti” che si
trovano tutti nel centro-nord.
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A cosa mirano queste azioni che non possono essere classificate come “errori” o
“disattenzioni”? Allo smantellamento del sistema pubblico e statale dell’istruzione.
Ciò porterà a due risultati convergenti. Il primo, più scontato, aprire le praterie della
privatizzazione alle scuole private che presentano costi almeno tripli rispetto a quelle
pubbliche. Ma anche le università statali (?) del nord avranno il loro beneficio,
posizionandosi come poli di attrazione privilegiati per i figli delle classi dirigenti di
tutta Italia. Quindi penalizzazione per il Sud e doppia penalizzazione per i suoi figli
delle classi non abbienti. Il secondo risultato, più perverso, è un generale decadimento
della linfa vitale culturale della società italiana, che nei prossimi decenni non potrà
che portare a una progressiva espulsione del nostro Paese da quelli avanzati.
Il fenomeno mafioso in Sicilia si manifesta prima dell’Unità d’Italia. Essa si
può considerare uno strumento di oppressione ideato dai rappresentanti del grande
capitale agrario del sud (latifondisti ed aristocratici) per bloccare le rivolte scoppiate
nel Regno delle Due Sicilie tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo. Il
fenomeno mafioso muta nel tempo e acquisisce sempre maggiore forza in Sicilia fino
a rendersi sempre più indipendente dal grande capitale agricolo alla fine del XIX
secolo. La mafia in quel periodo stringe una forte alleanza con il grande capitale
finanziario del Nord, ampiamente rappresentato a Roma in tutti i governi nazionali
che si succedono dal 1861 fino all’inizio del ventennio fascista. Questa prima
mutazione genetica avviene in concomitanza con la perdita di potere del grande
capitale agricolo meridionale che soccombe progressivamente dinanzi alle esigenze
espansionistiche del capitalismo agricolo ed industriale del nord. Il legame tra il
grande capitale e la mafia rimane intatto durante il ventennio fascista e nel 1943 la
mafia ha un importante ruolo nello sbarco alleato a Gela ed è decisiva nell’immediato
dopoguerra quando il governo nazionale dovrà fronteggiare le spinte autonomistiche
della Sicilia, reprimendole nel sangue (strage di Portella della Ginestra del 1° Maggio
1947), per bloccare le rivolte contadine e l’avanzata delle forze socialiste e comuniste.
Il connubio tra i partiti di governo (in particolare la DC) e la mafia rimane saldo e anzi
si estende anche alle altre mafie meridionali durante il periodo che va dal 1945 al
1992 (vicenda Ciro Cirillo). Le organizzazioni mafiose meridionali non hanno più
come fonte di entrata solo il “pizzo”, lo sfruttamento della prostituzione, il traffico di
droga e di armi, ma si arricchiscono soprattutto con gli appalti pubblici. Infatti una
parte consistente dei 280000 miliardi di lire erogate dalla Cassa del Mezzogiorno tra il
1951 ed il 1992 per lo sviluppo delle regioni meridionali è intercettato dalla mafia,
mentre la maggior parte degli appalti va spesso a società ed aziende del Nord Italia.
Molti sono stati, negli ultimi 30 anni, i casi segnalati dalla magistratura inquirente di
infiltrazioni criminali negli appalti delle grandi infrastrutture meridionali che vedono
protagoniste grandi gruppi imprenditoriali del Nord colluse (ed a volte controllate)
dalla mafia. La mafia infatti diventa sempre più un soggetto capitalista che mantiene
inalterato il suo potere criminale. La mafia imprenditrice non si manifesta solamente
in Sicilia ma anche nel Nord Italia. Quanto avviene in Sicilia sarà decisivo nella
formazione dei nuovi equilibri tra il sistema politico, le organizzazioni criminali e la
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grande imprenditoria del Nord, che stabilizzeranno dopo il 1992. La mafia siciliana
dopo la stagione delle stragi cercherà da quel momento in poi di rendersi meno
visibile e penserà solo a fare affari con la nuova classe dirigente.
Uno degli affari più grandi su cui la mafia ha cercato di sfruttare è quello del Piano
Regionale dei Rifiuti redatto alla fine del 2001 dalla Regione Siciliana governata da
Totò Cuffaro, condannato nel Gennaio del 2011 per mafia. Il piano dei rifiuti
prevedeva la costruzione di quattro megainceneritori del gruppo Falck,
sovradimensionati e progettati secondo criteri obsoleti che li rendevano ancora più
pericolosi. Inoltre il piano istituiva la formazione di 27 Ambiti Territoriali Ottimali,
tramite i quali i comuni avrebbero gestito il trasporto e il conferimento dei rifiuti, con
criteri di gare di appalto che avrebbero favorito le aziende di trasporto riconducibili a
“Cosa Nostra”.
Ma l’affare del secolo rimane per la mafia e la ndrangheta il Ponte sullo
Stretto. Un opera pubblica, inutile e dannosa, da oltre 6 miliardi di euro, di cui 1,1
miliardi già spesi solo per la progettazione. Un’opera da molti ritenuta irrealizzabile,
dall’impatto ambientale devastante, su cui le due organizzazioni criminali avevano
allungato i tentacoli. In conclusione esso era un affare solo per il grande capitale
nazionale ed internazionale, oltre che per la criminalità organizzata.
Queste vicende dimostrano che la mafia diventa nei secoli imprenditrice, non
solo perché ha sempre gestito una grande quantità di denaro, ma perché riesce anche a
gestire il consenso politico-amministrativo-elettorale. La sua natura è quindi di essere
la specifica declinazione che il capitalismo assume nelle regioni meridionali e non un
“cancro” estraneo asportabile. Ecco il motivo per cui dove c’è capitalismo c’è la mafia
e ci sono comportamenti di tipo mafioso, e dove c’è la mafia c’è il capitalismo con i
suoi interessi.
Negli ultimi cinquant’anni ogni giorno 75 ettari di terra vengono trasformati
in asfalto, 600 mila ettari di suolo vengono sommersi da colate di cemento, altrettanti
rischiano di fare la stessa fine nei prossimi venti. In Sardegna è stato urbanizzato il
suolo addirittura del 1.154% rispetto agli anni 50. Persino in quei comuni che si sono
svuotati per ogni abitante perso abbiano guadagnato in media 800 metri quadri di
cementificazione a causa dell’abusivismo e l’attività di cava ad opera delle lobby del
cemento, favorite, negli ultimi 16 anni da ben tre condoni edilizi. Nel solo 2006 le
cave hanno mutilato il territorio scavando 375 milioni di tonnellate di inerti e 320
milioni di tonnellate di argilla, calcare, gessi e pietre ornamentali. Ne risulta un
territorio fragile, in equilibrio precario, soggetto a frane, smottamenti, alluvioni,
esondazioni, a forte rischio desertificazione, come mai prima d’ora. Ne sono
l’emblema Sicilia, Calabria, Campania, Metapontino. Gli interventi per via della
intempestività, occasionalità, non programmazione, infiltrazioni malavitose, gestione
non oculata o speculativa risultano oltremodo onerosi e spesso inutili. I costi sulla
società, soprattutto in termini di vite umane e danneggiamenti, sono esorbitanti. Tutto
ciò è l’effetto di un capitalismo predatorio che non si arresta davanti a nulla.
Oggi è impossibile pensare di poter ritornare all’interno del sistema
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capitalistico alla tradizionale gestione del territorio. Questo perché la lentezza che
contraddistingueva le società tradizionali non risponde alla logica del massimo
profitto.
Il cemento armato si è sostituito alle tecniche e ai materiali locali,
l’approvvigionamento idrico attuale sta prosciugando le falde e i bacini idrici naturali,
i fertilizzanti chimici e i pesticidi si sono sostituiti ai concimi naturali a scapito della
qualità dei cibi, le monocolture intensive alla rotazione agraria con conseguente
inaridimento del suolo. Alle economie locali, fondate sull’agricoltura, l’allevamento,
l’artigianato, gestite secondo metodi e modelli tradizionali si sono sostituiti sistemi e
modelli finalizzati alla grande distribuzione, attraverso lo sfruttamento e l’uso
intensivo dei suoli per aumentare la produttività e ottenere tutto ciò che la natura non
riesce a fornire secondo i suoi cicli. Se continueremo a reiterare gli attuali
comportamenti, entro i primi anni del 2030 avremo bisogno di due Pianeti per
soddisfare il fabbisogno dell’umanità di beni e servizi.
La globalizzazione dell’economia e degli scambi ha fortemente indebolito la
funzione degli Stati nazionali sotto diversi aspetti, nella capacità di contrattare con la
grande impresa multinazionale che, sotto l’imperativo della flessibilità, distribuisce
investimenti in settori e regioni in modo quasi capillare, e mal sopporta le esigenze di
stabilità e continuità del paese ospite. Inoltre, al naturale indebolimento della base
geopolitica di riferimento delle aree di influenza, una volta fondate sulla disponibilità
di risorse e materie prime, vie d’acqua navigabili, porti e accessibilità, ora esse cedono
il passo a fattori come la copertura dei satelliti televisivi, di segnali radio, etc.
Sul piano strettamente teorico, una posizione da ecologismo borghese – che
non si manifesta solo nei salotti-benpensanti, ma pure in larghi settori di movimento, o
di falso-movimento – è assolutamente fuorviante proprio perché nega la
contraddizione capitale-lavoro come principale, soprattutto nell’analisi della finitezza
dello sviluppo materiale e della qualità dei modelli di un possibile, futuro sviluppo.
Nefasto è pure il non considerare come il famigerato ciclo dei rifiuti nel Mezzogiorno
d’Italia sia figlio legittimo ed oggi fratello stretto del ciclo delle cave e del ciclo del
calcestruzzo, significa non solo non comprendere le sue radici materiali ed i suoi modi
di produzione, in termini di logistica, impiantistica, tempi, distribuzione, ma anche
derubricare la presenza strategica delle mafie in tale settore produttivo a semplice
incidente, occasione casuale, e non invece elemento strutturale, tutto interno ad aspetti
di un preteso sviluppo capitalistico che, lungi dall’essere definibile come arretrato, ne
rappresenta invece una punta avanzata, anticipatrice di diffusioni addirittura
planetarie.
Del resto la stessa prevalenza in tale ciclo industriale della specialistica del
ciclo dei rifiuti nocivi industriali mette in risalto la natura di classe degli enormi danni,
soprattutto alla salute pubblica, che da essa sono derivati e tuttora derivano
massicciamente, ben al di là dei dati ufficiali.
Anche qui declassare la questione ad una querelle tra un nefasto Nord
industriale e un Sud buono e bucolico è non solo puro esercizio di fantasia, ma
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sostanzialmente un tentativo disperato di deviare le gravissime responsabilità, anche
morali, del sistema capitalistico nel suo insieme.
Le proposte dei comunisti di breve-medio periodo devono anche tenere conto
del livello del dibattito politico che si è realizzato oggi in Italia tra i “movimenti”,
facendo sedimentare le novità e i contributi interessanti che ne son venuti e
contrastando le derive piccolo-borghesi che oscurano la contraddizione capitale-lavoro
come fondamentale nella nostra società.
La contraddizione che questi movimenti hanno affrontato è quella tra una gestione dei
beni collettivi (acqua, trasporti, …) di tipo privatistico, che è stata rigettata anche nelle
forme di Società di capitali a intera o prevalente partecipazione pubblica, perché
portatrice di interessi antisociali e non certo garanzia di efficienza, e una gestione
pubblica che nelle esperienze passate si è spesso rivelata un baraccone parassitario del
potere economico ed elettorale del sottobosco politico.
La ricetta alla quale quei movimenti hanno messo capo è “pubblico e partecipato”,
ossia Società di gestione che abbiano una natura pubblicistica, ma che siano sottoposte
a un costante e puntuale controllo della collettività, che si esprimerebbe per il tramite
organizzativo di associazioni costruite dal basso.
Naturalmente sappiamo che tali soluzioni non possono essere definite come soluzioni
ottimali, perché esse cercano di perseguire una impossibile compatibilità col sistema
capitalistico.
Aumento della produttività significa solo abbattimento dei costi da parte del
padrone ed espulsione di manodopera, modernizzazione e globalizzazione significa
solo importare in Italia le condizioni di lavoro del cosiddetto terzo mondo. Solo una
produzione “sociale” e non per il mercato, pianificata e controllata dalla classe
operaia, può liberare le straordinarie energie produttive odierne e aumentare il
benessere di tutti i cittadini. Questo è particolarmente vero nel Mezzogiorno d’Italia,
dove si accumulano tutte le più stridenti contraddizioni del capitalismo moderno:
mafia, devastazione del territorio, disoccupazione e precarizzazione del lavoro
dipendente (ma oggi anche quello autonomo), bassissima spesa sociale utile e sprechi
per sanità, infrastrutture, istruzione e ricerca.
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7) Internazionalismo ed antimperialismo.
Il Partito Comunista che stiamo costruendo ha nell’antimperialismo e
nell’internazionalismo proletario due ragioni fondanti. E’ indispensabile che tutto il
corpo del Partito assimili pienamente e definitivamente i contenuti dell’analisi che, da
tre anni a questa parte, il Partito ha compiuto in merito alla cosiddetta
“globalizzazione” capitalistica, che altro non è se non il recupero del dominio
mondiale incontrastato, salvo rare e limitate eccezioni, da parte del capitale
monopolistico dopo la scomparsa del blocco socialista.
Questa analisi deve partire da una corretta definizione e comprensione
dell’imperialismo, troppo spesso erroneamente identificato con la sua fenomenologia,
cioè con la guerra, l’espansionismo, le politiche neo-coloniali. Queste sono le forme
con cui si manifesta, ma è la concentrazione monopolistica del capitale che ne
costituisce la sostanza. La concentrazione del capitale e la concentrazione della
proprietà, che ne è la proiezione giuridica, la loro trasformazione in capitale
monopolistico e in proprietà monopolistica dei mezzi di produzione al fine della
massimizzazione del profitto sono una legge oggettiva generale dello sviluppo
capitalistico nella sua fase imperialista, una legge che oggi opera allo stesso modo
tanto negli Stati Uniti, quanto in Europa e, al di fuori di essa, in Asia, in America
Latina e persino in Africa, sia pure con intensità diverse.
Non è quindi accettabile, perché falsa e sbagliata, la teoria del
“superimperialismo” statunitense egemone che imporrebbe la propria volontà ai
“subimperialismi” degli altri paesi industrializzati all’interno di un blocco omogeneo.
Nella realtà esistono diversi disomogenei poli imperialisti, in aspra competizione tra
loro per il controllo delle rotte commerciali, delle vie di comunicazione e
telecomunicazione, dell’informazione e per la spartizione delle risorse del pianeta,
dalle fonti d’energia, alle materie prime, all’acqua fino alle risorse umane, immense
masse di diseredati che costituiscono l’esercito di riserva dei nuovi schiavi della
produzione capitalistica. Anche quando apparentemente si manifestano coincidenze
d’interessi, la competizione interimperialistica non cessa di operare, rimandando
semplicemente la contrapposizione aperta ad un momento successivo. E’ appunto il
tentativo di comporre la concorrenza interimperialistica, o di acquisire massa critica al
suo interno, che spinge gruppi di paesi capitalistici alla creazione di conglomerati
imperialisti quali l’Unione Europea.
La teoria del “superimperialismo” conduce direttamente ad un’ulteriore e
pericolosa degenerazione. E’ sufficiente che la contraddizione interimperialista si
manifesti come contrapposizione di un qualsiasi imperialismo all’imperialismo USA
per generare, soprattutto in certa “sinistra”, l’illusoria idea della dicotomia tra
“imperialismo buono”, nei cui confronti scattano pulsioni di simpatia e “imperialismo
cattivo”. Non è forse anche questo il senso dell’insistere del Partito della Sinistra
61
Europea sulla necessità di creare un Esercito Europeo e di potenziare la Polizia
Europea? E non deriva forse tutto questo dall’incapacità o dal rifiuto di comprendere
la vera sostanza di qualsiasi imperialismo?
Solo queste considerazioni, basate su una definizione scientifica
dell’imperialismo, possono farci comprendere il ruolo reale dei BRICS, la cui vera
natura sfugge, per le ragioni che citavamo più sopra, alla maggior parte della
cosiddetta “sinistra”.
Riportiamo una recente dichiarazione del generale in congedo Vladimir
Dvorkin, esperto dell’Istituto dell’Economia Mondiale e delle Relazioni Internazionali
presso l’Accademia delle Scienze di Russia, una fotografia precisa su questo aspetto
delle attuali relazioni internazionali “… L’Occidente è infatti preoccupato per
l’eventuale formazione dell’alleanza russo-cinese. Questa alleanza, che in precedenza
era meramente economica, si sta trasformando adesso in politico-militare. Da una
parte, ci sono le alte tecnologie russe nella sfera dell’aviazione e della
navalmeccanica, le armi missilistiche e il potenziale nucleare russo, nonché le risorse
russe. Dall’altra parte, la laboriosità, la numerosa popolazione e l’espansione
demografica della Cina. È una tremenda forza. Ovviamente, l’Occidente è molto
preoccupato da questo vettore di sviluppo dei rapporti russo-cinesi. Ciò, in sostanza,
mette in forse il dominio dell’Occidente nel mondo.” Affermazione importante e piena
di buon senso. Il problema è che non si può essere così ingenui da pensare che oggi i
BRICS possano svolgere il ruolo che ieri svolgevano i paesi socialisti. La maturità del
loro capitalismo, data dal livello di alta concentrazione del capitale industriale e
finanziario in forme monopolistiche, ne certifica l’entrata nella fase imperialista. Il
grado di accumulazione di capitale di questi paesi non è ancora ai livelli di USA e UE,
anche se si sta rapidamente adeguando, così come è diverso il loro modus operandi
nelle relazioni internazionali, possono apparire “più simpatici” ma la loro natura
economica è sostanzialmente la stessa.
I BRICS sono quindi certamente in grado di mettere in discussione il
predominio dell’Occidente, ma da una posizione imperialista e attraverso i ben noti
meccanismi della concorrenza interimperialistica. Non si capirebbe altrimenti la
differenza di comportamento tra la vicenda libica e quella siriana. Un loro eventuale
successo comporterebbe solo lo spostamento del baricentro del dominio imperialistico
da un polo all’altro. Per quanto detto, è evidente che i BRICS sono entrati in rotta di
collisione con gli imperialismi tradizionali. La collisione, per ora, si manifesta
soprattutto con l’erezione di dazi e altre limitazioni commerciali contro le merci, intese
in senso lato, provenienti dai BRICS, ma il fatto stesso che sia questi, sia i poli
imperialisti tradizionali siano legati al WTO, non consente un uso estensivo di queste
restrizioni protezionistiche.
La necessità di assicurarsi il controllo delle risorse strategiche e dei mercati di
sbocco, comune sia ai BRICS, sia agli imperialismi tradizionali sfocerà prima o poi in
un confronto militare. Questo confronto in realtà già esiste, sia pure in modo indiretto
62
e si manifesta nella moltiplicazione dei conflitti militari locali, cioè combattuti in casa
d’altri. Afghanistan, Iraq, Jugoslavia, Libia, Siria sono la conferma più eclatante della
competizione interimperialista, condotta a spese dei popoli di paesi terzi
I comunisti e il movimento operaio non hanno oggi che un’arma da contrapporre a
questi processi: la solidarietà proletaria internazionalista. Fin dalla sua fondazione, il
nostro Partito sta infatti lavorando per costruire una solida rete di rapporti bilaterali
con altri partiti comunisti e operai, a livello europeo e mondiale, ponendosi l’obiettivo
di un coordinamento, anche organizzativo, sempre più stretto tra essi, sulla base di una
teoria e prassi marxiste-leniniste coerenti e rigorose.
Per quanto riguarda le questioni europee, abbiamo da tempo stabilito e pratichiamo
una linea di netta contrarietà e rottura con l’Unione Europea e la NATO, per l’uscita
dell’Italia da entrambe.
Abbiamo svelato e il ‘feticcio’ delle alleanze politiche e del parlamentarismo,
dimostrando come non esistano, nella fase attuale, partner o interlocutori plausibili per
un partito comunista. Il Partito Socialista Europeo, a cui aderisce il PD, condivide con
il Partito Popolare Europeo la rappresentanza del grande capitale industriale e
finanziario, in un rapporto di alternanza di governo che, al di là di differenze
marginali, in sostanza garantisce la continuità del potere della borghesia monopolista.
Gli opportunisti del Partito della Sinistra Europea del quale fa parte, a vario titolo, la
cosiddetta “sinistra radicale” italiana, predicano l’alternativa ma hanno comunque un
rapporto subalterno e funzionale alla UE, ingannando le masse con l’illusione della
riformabilità del capitalismo e il miraggio della possibilità di una sua umanizzazione.
Sanno perfettamente che, nel quadro di questo sistema e di queste istituzioni, l’Europa
dei popoli non esiste né mai esisterà, ma continuano a svolgere il ruolo ideologico di
stampella sinistra dei palazzi di Bruxelles. I nomi dell’opportunismo sono simili in
ogni paese, – Bloque de Esquerra, Izquierda Unida, Die Linke, Front de Gauche,
Siryza ecc – ma ovunque mascherano la gabbia riformista entro cui vorrebbe confinare
e neutralizzare la conflittualità di classe.
Per questo riteniamo che non vi siano oggi le condizioni per alleanze politiche
dei comunisti con altri partiti. Crediamo invece che sia necessario lavorare per
costruire le alleanze sociali della classe operaia con gli altri ceti popolari,
promuovendo il coordinamento delle lotte anche a livello europeo. Anche in questo
senso vediamo nell’internazionalismo proletario una delle leve strategiche della
rivoluzione in Europa e nel mondo. La coerenza delle nostre posizioni e lo scambio di
analisi ha portato il Partito all’instaurazione di rapporti fraterni, non solo formali ma
fattivi, con importanti organizzazioni del movimento comunista internazionale che
consideriamo partiti fratelli. Le sezioni nazionali della nostra Federazione Estera
operano in stretto contatto e collaborazione con i partiti fratelli, ad un livello che va
oltre la semplice condivisione di analisi e documenti per arrivare all’organizzazione di
manifestazioni e azioni politiche congiunte e, fatto inedito fino ad ora, alla militanza
degli emigrati di un partito nei ranghi del partito fratello del paese ospitante.
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Insieme a trenta partiti comunisti e operai europei, aderiamo e partecipiamo
attivamente all’Internazionale “’Iniziativa dei Partiti Comunisti e Operai d’Europa”, il
primo organismo di coordinamento dei comunisti per dare maggiore efficacia alla
lotta contro l’UE e gli opportunisti del Partito della Sinistra Europea.
Consolidiamo costantemente i rapporti di solidarietà internazionalista col
Partito Comunista Siriano e come quello del Messico, con Cuba socialista e il PCC,
con la Repubblica Bolivariana di Venezuela, il PCV e il PSUV, mantenendo viva
l’attenzione verso qualsiasi movimento rivoluzionario nel continente latinoamericano,
cercando di contribuire a rafforzarne l’orientamento verso uno sviluppo socialista.
Quando parliamo di Cuba, il nostro pensiero va ai Cinque Eroi, di cui quattro ancora
illegittimamente incarcerati e trattenuti negli Stati Uniti. Anche in queste sede
esprimiamo la nostra solidarietà militante a loro, alle loro famiglie e al popolo cubano
tutto, impegnandoci ad esigerne con sempre maggior insistenza la restituzione alla
patria. Manteniamo viva la solidarietà con la Repubblica Democratica Popolare di
Korea e con il Partito del Lavoro di Korea
Condividendo il principio dell’autodeterminazione dei popoli, il loro diritto a
scegliere il proprio futuro senza l’intervento dell’imperialismo, esprimiamo solidarietà
piena al popolo e al Partito Comunista di Palestina, contro l’occupazione sionista
sostenuta dall’imperialismo statunitense ed europeo, per la liberazione di quelle terre,
la liberazione dei detenuti politici palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, il ritiro
di Israele entro i confini del 1967, lo smantellamento degli insediamenti illegittimi dei
coloni israeliani e l’immediata cessazione dell’embargo contro la popolazione
palestinese di Gaza. La nostra solidarietà va anche ai popoli e ai legittimi governi di
quei paesi che oggi sono minacciati o aggrediti dall’imperialismo perché non ne
vogliono accettare il rapinoso diktat. Come abbiamo fatto ieri con la Libia di
Gheddafi, così facciamo oggi con la Siria di Assad e domani, se necessario, con l’Iran.
Paesi che hanno sistemi politici diversi tra loro, nei confronti dei quali esprimiamo
criticità anche forte, ma che meritano la nostra totale solidarietà “senza se e senza ma”
quando subiscono l’aggressione imperialista. In questa nostra unicità nel panorama
politico italiano, siamo lontani dalla finta sinistra, anche radicale, tanto “politicamente
corretta” quanto totalmente subordinata al pensiero unico del capitalismo, la quale si
limita tutt’al più a qualche generico appello pacifista, nel quale non distingue mai tra
vittime e aggressori.
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8) Natura della crisi; un programma di trasformazione socialista.
Il capitalismo è giunto oggi ad una devastante crisi di sovrapproduzione e
sovraccumulazione dalla quale non riesce ad uscire, né applicando ricette fondate
sull’intervento pubblico a sostegno della domanda (keynesismo), né con il più sfrenato
monetarismo fondato sul disequilibrio fra domanda ed offerta. Così, non riesce più a
riavviare un duraturo ciclo di riproduzione allargata e di accumulazione. Quale la
causa di tale situazione ?
Nel mercato capitalistico, le nuove tecnologie permettono la riduzione della
forza- lavoro impiegata nei processi produttivi, generando disoccupazione, con
relativa diminuzione del costo del lavoro nel breve periodo. Tuttavia, il conseguente
aumento della composizione organica del capitale – cioè il rapporto tra capitale
costante (edifici, terreni, macchine, impianti etc.) chiamato così perché il suo valore
rimane invariato al termine di ogni ciclo produttivo, e capitale variabile (forza-lavoro)
che, invece, è l’unica a trasferire un valore aggiunto al prodotto, con la diminuzione
dell’impiego delle quantità di quest’ultima – provoca, inevitabilmente, una
diminuzione del saggio di profitto, come scientificamente dimostrato da Marx.
La caduta tendenziale del saggio di profitto, da un lato obbliga il capitale a
distruggere una parte di se stesso, cioè quella invenduta ed accumulata in quota
maggiore rispetto alla domanda del mercato, da cui i licenziamenti ed i
disinvestimenti; d’altro lato, lo obbliga ad intensificare lo sfruttamento della forza-
lavoro con l’incremento dell’estrazione di plusvalore attraverso l’estensione
dell’orario di lavoro, l’allungamento dell’età pensionabile, la riduzione del salario
nominale e la sua deindicizzazione dal costo della vita, i tagli ai servizi sociali ed alla
entità delle pensioni erogate.
L’indebitamento pubblico è, oggi, da molti indicato come causa principale
della crisi. In realtà, esso è stato uno degli strumenti principali con cui, nelle fasi di
sviluppo, il capitale ha sostenuto il tasso di profitto attraverso politiche di sgravi
fiscali e contributivi alle imprese, di agevolazioni creditizie, di finanziamenti ai vari
settori industriali. Basti pensare, poi, che nella crisi in corso, tra il 2007 ed il 2009, il
deficit di bilancio della media dei paesi dell’Unione Europea è cresciuto di 10 volte,
dallo 0,7 al 7% del PIL, non a causa dell’aumento delle spese sociali, ma in seguito
alla crisi delle banche che ha pesato sui bilanci pubblici dell’Unione Europea, dal
2008 ad oggi, per un ammontare di 3500 miliardi di euro, equivalente alla somma dei
debiti pubblici di Spagna, Portogallo, Italia e Grecia.
E’ vero, invece, che i costi di questi interventi di spesa, come l’ultimo
concordato a Bruxelles e denominato scudo anti-spread – che altro non è che un
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intervento di acquisto di titoli sottoposti a vendita speculativa sui mercati, finanziato
dal Fondo salva stati, cioè con i soldi di tutti noi – vengono oggi scaricati sulla classe
operaia, sui lavoratori e sui popoli.
La crisi attuale, quindi, non è dovuta all’indebitamento pubblico, il quale è
stato creato in conseguenza dell’incapacità del capitale a riavviare il ciclo di
riproduzione ed accumulazione, ma, nel suo stesso aspetto finanziario, è dovuta al
fatto che, in seguito alla sovrapproduzione e tendenziale caduta del saggio di profitto,
una parte del capitale ha cercato remunerazione al di fuori della produzione,
trasformandosi da industriale in finanziario. Si pensi, a questo proposito, che nel 1980,
gli attivi finanziari formati da azioni, obbligazioni, titoli di credito e di debito ed il PIL
del mondo si equivalevano, ammontando entrambi a 27 trilioni di dollari, mentre nel
2008 gli attivi finanziari, avendo superato i 240 trilioni, valevano più di quattro volte
del PIL mondiale che valeva 60 trilioni.
La crisi, quindi, è strutturale e sistemica a causa della contraddizione
fondamentale ed insanabile del modo di produzione capitalistico tra il carattere sociale
della produzione e la appropriazione privata del prodotto.
Infatti l’imperialismo, cioè l’attuale fase di sviluppo del capitalismo, è
caratterizzato dalla concentrazione monopolistica del capitale e della proprietà privata
che provoca il controllo pressoché totale delle risorse mondiali da parte di una
piccolissima parte della popolazione e di un ristrettissimo gruppo di paesi e
l’imposizione del proprio volere alla stragrande maggioranza della popolazione
mondiale; i dati dell’ONU ci dicono infatti che oggi nel mondo 12 milioni di individui
(lo 0,2% della popolazione mondiale) detengono la metà del patrimonio finanziario
dell’umanità, mentre 3 miliardi di persone ne detengono solo il 4,2%. Sempre secondo
l’ONU, oggi, il reddito del mondo supera ormai i 65mila miliardi di dollari e con soli
100 miliardi di dollari si potrebbe sradicare la povertà più estrema e la fame dei 2,6
miliardi di poveri che vivono con 2 dollari al giorno, ma nulla di tutto ciò è avvenuto
negli ultimi anni. Anzi, si è assistito ad una gigantesca redistribuzione del reddito dai
poveri a favore dei ricchi. Nel periodo 1976-2006, in tutti i paesi dell’OCSE,
l’incidenza della quota salari del PIL (comprensivo anche del lavoro autonomo) è
diminuita mediamente di 10 punti percentuali passando dal 68% al 58%. In Italia il
calo è stato di 15 punti a favore delle rendite e dei profitti. Negli USA ed in Italia oggi
un decimo della popolazione percepisce la metà del reddito nazionale.
L’Unione Europea, è lo strumento con il quale il capitalismo monopolistico
europeo persegue i propri interessi. Per reperire le risorse necessarie a contendere agli
USA l’egemonia mondiale ed a competere da una posizione di forza con i BRICS
(Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), l’UE e la BCE impongono ai popoli
d’Europa sacrifici insostenibili ed un vero e proprio massacro sociale ai danni del
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lavoro salariato, di ampi settori di lavoro autonomo e di piccola borghesia in via di
proletarizzazione, a favore del capitale.
L’adesione al Trattato di Maastricht ed all’Unione Monetaria Europea ha
privato la borghesia italiana dell’arma della svalutazione competitiva, ma le ha fornito
gli strumenti per portare più a fondo l’attacco alle posizioni della classe operaia ed ai
diritti dei lavoratori.
Oggi l’Italia è il Paese d’Europa a maggiore “flessibilità“ del lavoro, dove i
lavoratori hanno meno tutele, dove il salario medio di un operaio metalmeccanico con
32 anni di anzianità può non superare i 1.200 euro al mese (se non c’è cassa-
integrazione), dove un giovane è costretto a lavorare con contratti trimestrali a 400
euro al mese, dove si muore sul lavoro per una paga oraria di 3,90 euro senza
contributi, dove si va a lavorare malati pur di conservare il posto, dove i padroni
possono licenziare liberamente, dove il resoconto degli incidenti sul lavoro è un vero e
proprio bollettino di guerra che registra 4 morti al giorno.
Mentre si spremono salari e pensioni, privando del presente e del futuro
giovani e donne, si reperiscono fondi per il sostegno alle banche ed ai monopoli, per le
guerre imperialiste e per mantenere il Vaticano, mentre la sanità e l’assistenza, le
scuole e l’università, la scienza ed il mondo della cultura, l’ambiente ed il territorio
sprofondano nel più rovinoso degrado. È una stridente realtà quella che vede, nel
mondo, la ricchezza accumulata crescere sempre più, assieme alla povertà dei popoli,
perchè concentrata in una elite sempre più ristretta.
Secondo uno studio recente del Politecnico di Zurigo, 147 multinazionali, tutte
strettamente connesse fra di loro, di cui la maggioranza banche, rappresentano la rete
capitalista che domina l’intera economia mondiale.
I loro nomi sono JP Morgan, Mehrril Lynch, Barcloys, Goldman Sachs, Bank
of America, UBS, Deutsche Bank, Credite Suisse, BNPParibas e Unicredit. Esse
fanno capo a 737 maggiori azionisti che, attraverso una rete fittissima di relazioni e
proprietà intrecciate si sostengono a vicenda.
In un recente studio di James Henry, ex capo economista della Mc Kinsey, è
stato calcolato che 21 mila miliardi di dollari di denaro cash depositato dai super
ricchi del mondo in conti correnti ed in strutture finanziarie segrete nascoste nei
paradisi fiscali – che, raggiungono i 32 mila miliardi se si aggiungono beni come
yacht, ville e simili -appartengono a circa 10 milioni di persone, di cui solo 91mila di
esse posseggono la metà di tale cifra. Inoltre, l’ammontare del valore nominale dei
prodotti derivati è attualmente di 600mila miliardi di dollari, sette volte l’intera
ricchezza prodotta a livello globale. Nel corso del 2012 i principali fondi speculativi
hanno spostato, infine, sulla Europa in crisi ben 100 miliardi di dollari destinati ad
acquistare, a prezzi stracciati, banche, imprese e qualsiasi altra cosa che i governi
europei stretti dalla crisi decideranno di mettere in vendita, per far fronte ai debiti.
L’Europa, infatti, che aveva investito inseguendo il modello americano, ne seguì le
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sorti.
Ma, mentre gli americani nascondevano i loro problemi sotto il tappeto sul
piano internazionale con il dollaro la cui domanda continuava a sostenere i consumi
ed a finanziare il deficit commerciale, e sul piano monetario, con la politica dei bassi
saggi d’interesse che dava l’opportunità di consumare ed investire in case a credito,
stimolando la domanda aggregata e sostenendo la crescita del PIL; in Europa,
nonostante dal 2002 la moneta unica avesse reso il credito più abbondante ed a buon
mercato, i vantaggi commerciali conseguenti non si manifestarono perchè gli scambi
intraeuropei ridussero il loro peso rispetto alla crescita degli scambi extraeuropei,
cosicché, trasferendo in Asia la manifattura dei beni standardizzati di largo consumo,
l’industria europea cominciò ad accumulare, in Europa, capacità produttiva
inutilizzata.
La ricchezza privata in Italia, costituita da denaro contante, case, azioni e
titoli, veleggia nel 2012 verso la cifra di 9000 miliardi di euro netti, cioè più di quattro
volte il debito pubblico che ha raggiunto e superato a fine anno i 2000 miliardi di
euro. Ma il debito pubblico è di tutti, mentre la ricchezza è di pochi. Infatti, il debito
pubblico viene spalmato su 60 milioni di cittadini per una quota di circa 32.000 euro
ciascuno, mentre per la ricchezza nazionale, la metà di essa, cioè oltre 4mila miliardi
di euro, appartiene al 10% della popolazione, cioè a 6 milioni di persone che vivono
nell’assoluto benessere, mentre il restante 90% dei cittadini, cioè 54 milioni di
persone, si divide l’altra metà.
La ricchezza di tutte le famiglie del mondo ammonta a 150mila miliardi di
dollari, le famiglie italiane ne possiedono il 6%, benchè l’Italia rappresenti solo l’1%
della popolazione del pianeta ed il suo PIL sia il 3,4% di quello mondiale. Perciò, è
giusto dire che l’Italia è un Paese ricco abitato da poveri.
Al vertice della ricchezza, nel nostro Paese, secondo i dati dell’indagine
biennale della Banca d’Italia sui redditi degli italiani (2012), troviamo 240mila
famiglie (circa 600mila persone), che possiedono un patrimonio di circa 5 milioni di
euro a testa. Di essi, i primi dieci sommati valgono 50 miliardi e, da soli, possiedono
quanto 3 milioni di loro concittadini di modesta condizione. Al primo posto c’è la
famiglia Ferrero, con 19 miliardi di dollari di patrimonio personale. Al secondo posto,
Leonardo del Vecchio (Luxottica), con 11 miliardi di dollari. Al terzo posto, Giorgio
Armani, con 7,2 miliardi, al quarto Miuccia Prada con 6,8 miliardi. Al quinto posto, i
fratelli Rocca proprietari del gruppo Techint con 6 miliardi ed al sesto posto, Silvio
Berlusconi, proprietario di Fininvest e Mediaset con 5,9 miliardi. E questi sono solo i
redditi dichiarati.
Dopo i super ricchi, troviamo il secondo livello, 2,5 milioni di famiglie
(6.250.000 persone) che hanno ciascuna un patrimonio pari a 1,7 milioni di euro. Sono
imprenditori, professionisti e commercianti di successo.
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Al terzo livello troviamo 9,6 milioni di famiglie (circa 24 milioni di persone)
con un patrimonio di poco più di 400mila euro a testa.
Al quarto livello, vi sono i 12 milioni di famiglie più povere, con un
patrimonio medio di 72mila euro ciascuno: sono impiegati, insegnanti, dipendenti
pubblici, precari, depositari del solo stipendio con cui cercano di vivere.
Al quinto livello, troviamo i poverissimi e cioè 3,2 milioni di famiglie (8
milioni di persone) che non posseggono nemmeno la cifra minima ritenuta
indispensabile per la sopravvivenza, cioè 1011 euro al mese.
Infine, troviamo 1,4 milioni di famiglie (3,5 milioni di persone) che non arrivano a
500 euro al mese e vivono la miseria nera. Dal 2007 al 2011, questi sono aumentati
del 14%, al Sud del 74%.
Se i 9000 miliardi di ricchezza privata nazionale fossero divisi equamente tra
i 24 milioni di famiglie che compongono il popolo italiano, ciascuno avrebbe un
patrimonio di 360mila euro. Invece, le famiglie superricche, che rappresentano appena
l’1% della popolazione, hanno un patrimonio 65 volte superiore alla media e, da sole,
si spartiscono il 13% del reddito pari a 1120 miliardi di euro.
La ricchezza nazionale, è composta per metà da case in proprietà che
accomuna l’80% della popolazione italiana. Il patrimonio immobiliare complessivo
vale 5mila miliardi ma, il 25% di esso è concentrato nelle mani del 5% dei proprietari.
I restanti 4mila miliardi, sono in parte in denaro depositato sui conti correnti delle
banche od alle poste (1000 miliardi). Altri 1.500 miliardi sono investimenti finanziari:
il 90% degli italiani ha messo i suoi risparmi in azioni, obbligazioni e titoli di Stato.
Lo stipendio medio dei lavoratori italiani è di 1286 euro mensili netti, mentre,
secondo Eurostat, la soglia della povertà relativa per una famiglia composta da due
persone è di 1011 euro mensili.
La distanza tra il superstipendio del manager che dirige l’azienda e quello di
un dipendente è, in media, di 400 volte ma può arrivare, in alcuni casi, a mille volte.
I salari medi italiani sono i più bassi d’Europa: in una classifica di 31 nazioni stilata
dall’OCSE, gli italiani risultano al 23° posto.
Il lavoro dipendente ed i pensionati, circa il 68% dei contribuenti, si
accollano il 93% di tutto il gettito Irpef che entra, ogni anno, nelle casse dello Stato.
Negli ultimi 10 anni, una quota di circa 15 punti percentuali di ricchezza si è spostata
dal lavoro alle rendite ed ai profitti.
Sui quasi 17 milioni di pensionati, la metà prende meno di 1000 euro al mese,
3 milioni meno di 500 euro e 2 milioni più di 2000 euro. Ma quello che è più grave è
che, con le recenti modifiche al sistema pensionistico, in futuro le pensioni medie si
aggireranno attorno ai 600 euro e precari e lavoratori in nero potranno aspirare, al
massimo, alla pensione sociale di 460 euro.
In questo contesto, di per sé desolante, l’Italia, obbligata dalla Unione
Europea, ha approvato una norma capestro, il cosiddetto fiscal compact, che obbliga il
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nostro Paese al pareggio di bilancio ed alla riduzione forzata del debito pubblico. Ciò
significherà tagli per 45 miliardi l’anno per venti anni, a partire dal 2014.
Il carattere strutturale della crisi è dato, quindi, anche nel nostro Paese dal fatto che:
– Il bilancio pubblico deve conseguire un avanzo primario, sottraendo alla
spesa finale almeno 3 punti di PIL all’anno.
– L’economia in fase depressiva ha bisogno del formarsi di un nuovo
risparmio.
– Il calo generalizzato della domanda riduce i fatturati delle imprese.
La gente, lentamente, sta prendendo coscienza dei meccanismi che muovono
l’economia mondiale e che determinano la divisione in ricchi e poveri.
La classe operaia è costretta ad abbandonare qualunque illusione di emancipazione
all’interno di questo sistema. Il ceto medio è arrivato al culmine della sopportazione,
essendo risospinto indietro dai processi di proletarizzazione.
La borghesia si stringe a difesa dei suoi privilegi continuando la sua politica
di rapina del popolo e l’enorme blocco sociale di poveri e disoccupati che sta
crescendo, prima o poi, chiederà il conto. Un recente sondaggio commissionato dalle
Acli (Associazione cattolica lavoratori italiani), ha dato risultati sorprendenti:
– Il 75% del campione ritiene che la crisi la debbono pagare i ricchi.
– Il 37% è convinto che da questa situazione si esca solo attraverso una
rivoluzione.
Nell’analisi delle cause e delle dinamiche della crisi in Italia, si cerca sempre di
nascondere, da parte della cultura dominante, che, ricordiamo, è espressione degli
interessi delle classi dominanti, le principali voci che hanno contribuito a determinare
l’enorme debito pubblico del nostro Paese, attribuendone, in genere la responsabilità
alle varie voci della spesa sociale. Vogliamo smentire tali menzogne con alcuni dati di
cui non si parla mai.
Secondo l’analisi della società Ricerche e Studi presentata il 10 ottobre 2000 alla
Commissione Bilancio della Camera dei Deputati, le uscite dello Stato verso IRI,
ENEL, ENI, ed EFIM dalla loro fondazione fino al 2000, ammontavano a 139.700
miliardi di lire, il cui rendimento è valutabile, nello stesso periodo, in 33.900 miliardi
di lire di dividendi incassati, e 70.800 miliardi di lire di introiti netti delle vendite di
titoli. Se si aggiunge a tali cifre il valore delle attività residuali che tuttora possiede lo
Stato, dopo le privatizzazioni degli anni ’90, si calcola in circa 80mila miliardi il saldo
attivo. A tale risultato, concorrono soprattutto ENI ed ENEL, mentre il bilancio finale
dell’IRI manifatturiero presenta un saldo negativo di 47.600 miliardi di lire. A
distruggere ricchezza, inoltre, hanno grandemente contribuito i grandi gruppi
dell’industria privata e cioè la FIAT bruciando 27.457 miliardi di lire, la Olivetti
14mila, Montedison 9mila e Italcementi più di mille.
70
Anche per questo, è particolarmente ingiusto il peso di sofferenze che viene
scaricato dai gruppi dominanti sul popolo con la motivazione del rientro dai livelli del
debito pubblico accumulato.
Dal 2008 ad oggi il PIL italiano è diminuito dell’8% (230 mld secondo la Corte dei
Conti), la produzione industriale è diminuita del 20%, gli investimenti del 17% ed un
deposito clandestino di 150mld di capitali italiani giace nei forzieri delle banche
svizzere, mentre il tasso di disoccupazione in Italia è praticamente raddoppiato. Prima
che il 2013 sia terminato è prevista, da varie fonti, un’ulteriore diminuzione del PIL
dell’1,7% e dei consumi del 2,4%.
Una particolare attenzione, infine, contrariamente a quanto solitamente
accade, merita la composizione sociale del popolo italiano composto, ormai da 60
milioni di persone. Di essi, 8 milioni sono operai, 15 milioni lavoratori dipendenti a
tempo indeterminato, 2,3 milioni lavoratori dipendenti a tempo determinato, 3,2
milioni lavoratori dipendenti del settore pubblico, 5,2 milioni lavoratori autonomi di
cui 3,2 senza dipendenti, 530mila lavoratori cassintegrati, 433mila collaboratori
atipici, 1,8 milioni di studenti universitari, 4 milioni di imprenditori di cui il 97% con
meno di 50 dipendenti e 16,7 milioni di pensionati, 3 milioni di disoccupati ufficiali,
ma in realtà 6 milioni di persone in età da lavoro privi di qualsivoglia attività
lavorativa. (Fonte: ultimo censimento)
È alla luce di questa situazione che bisogna chiedersi quale programma
politico sia necessario per cambiarla a favore dei lavoratori e delle masse popolari.
Noi comunisti indichiamo punti programmatici molto chiari e netti come base di una
vera svolta politica per avviare l’edificazione del nuovo ordinamento sociale.
Politica internazionale
Uscita dell’Italia dalla NATO con disimpegno del nostro Paese da tutte le
missioni di guerra all’estero e la conseguente chiusura di tutte le basi militari straniere.
Adozione di una politica estera orientata in senso antimperialista e limitazione delle
spese di bilancio militare alle sole esigenze di difesa del popolo e del territorio
italiano, in ottemperanza all’art. 11 della Costituzione.
Uscita dell’Italia dall’Unione Europea e dalla Unione Monetaria Europea
(sistema dell’euro) e ripristino della sua sovranità politica ed economica al fine di
sviluppare tutte le potenzialità di sviluppo del nostro Paese, per non sprofondare
ulteriormente nell’indebitamento e nella recessione.
Azzeramento unilaterale della parte del debito detenuto da banche ed
istituzioni finanziarie, monopoli e fondi speculativi italiani ed esteri, difendendo i
fondi dei piccoli risparmiatori. Divieto di qualsiasi attività e pubblicità delle agenzie
di rating sul territorio italiano e sottoposizione delle agenzie stesse e dei loro dirigenti
a procedimento penale per associazione a delinquere con finalità eversive, in base alle
leggi italiane.
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Politica del lavoro
Abrogazione di tutte le leggi che legittimano la precarietà del lavoro e che
discriminano i lavoratori per genere ed età e messa fuori legge e perseguibilità penale
del caporalato sotto qualsiasi forma. Ripristino della piena validità e preminenza del
Contratto Nazionale Collettivo di Lavoro e di chiari e rigidi limiti di legge per il
licenziamento dei lavoratori e la possibilità di riassunzione del lavoratore su
indicazione del giudice. Superamento di tutte le forme di false cooperative. Istituzione
del salario minimo garantito per legge dallo Stato, per un’esistenza dignitosa alle
lavoratrici ed ai lavoratori, di un’indennità di disoccupazione a tempo indeterminato
fino alla proposta di nuova assunzione non inferiore all’90% dell’ultimo salario
percepito, di un’indennità a tempo indeterminato fino alla proposta di assunzione pari
al 60% del salario medio per i giovani in cerca di prima occupazione al termine
dell’istruzione obbligatoria.Riduzione dell’orario lavorativo a parità di salario e
contributi e ripristino dell’indicizzazione dei salari al costo della vita (scala mobile),
accompagnato da una politica di controllo popolare alla fonte dei prezzi dei generi di
prima necessità e di largo consumo con l’abolizione delle imposte indirette (IVA)
sugli stessi. Controllo dei lavoratori sulle condizioni di sicurezza e salute sul lavoro e
politiche di prevenzione degli incidenti e delle malattie professionali con inasprimento
delle pene per chi le disattende. Politiche di sostegno alla ricerca applicata ed
all’innovazione, di prodotto e di processo, per le piccole imprese, favorendone la
concentrazione e l’integrazione in forme associate consortili o cooperative, in modo di
consentire loro di acquisire economie di scala.
La questione fiscale
Oggi, nel nostro Paese, fra le tante e gravi questioni che determinano il
malessere sociale dei lavoratori e del popolo italiano, vi è la questione fiscale. La
pressione fiscale ha raggiunto, ormai, in Italia, il 55% ( rapporto fra entrate fiscali e
Pil ), colpendo sia i lavoratori dipendenti ed i pensionati ( che pagano il 93% dell’Irpef
totale), ma anche i lavoratori autonomi e le piccole imprese. Da dove nasce, negli Stati
ad economia capitalistica, l’esigenza di un prelievo fiscale così intenso? Nel
capitalismo monopolistico, lo Stato è impegnato ad erogare una forte spesa pubblica,
per riprodurre i propri apparati burocratico-militari, per garantire un minimo di servizi
sociali, ma, soprattutto, per sostenere in varie forme ( contributi a fondo perduto,
incentivi ed agevolazioni fiscali ecc. ) la produzione e l’attività finanziaria dei grandi
gruppi industriali e bancari.Tanto più lo Stato, non è proprietario di attività produttive
di beni e servizi e di banche, che garantiscano introiti economici, tanto più il fisco è
l’unica fonte di sostegno alla spesa pubblica.
72
In Italia, lo abbiamo constatato chiaramente: quando il sistema economico era a
carattere misto, con la proprietà privata ma anche pubblica delle attività produttive
fondamentali del Paese, la pressione fiscale era più bassa, dopo le privatizzazioni degli
anni ’90 e successivi, essa è svettata a livelli insopportabili.Qui sta il nodo della
questione fiscale: lo Stato preleva le risorse di cui ha bisogno, principalmente per
sostenere l’attività dei grandi gruppi industriali e finanziari, dal reddito dei lavoratori,
dei pensionati e delle piccole imprese. Non esiste paese ad economia capitalistica che
non sia strutturato in tal modo, pur con qualche differenza fra di loro.
I comunisti propongono come obbiettivo programmatico principale ed
iniziale del loro progetto politico l’esproprio, la nazionalizzazione ed il controllo
operaio e popolare dei principali gruppi produttivi e bancari come base per un livello
inizialmente significativo di socializzazione dell’economia nazionale. Ciò ha come
conseguenza, sul piano fiscale, che lo Stato, nel nuovo ordinamento socialista, è in
grado, in quanto detentore e pianificatore dell’utilizzo della ricchezza prodotta dai
lavoratori nelle imprese socializzate, di allentare, fin da subito, consistentemente la
pressione fiscale, fino alla sua riduzione ai minimi termini e alla sua eliminazione
nelle fasi più avanzate della transizione socialista-comunista, come testimoniato dalla
storia dell’Urss e degli altri Stati socialisti. Per questo, il socialismo, con la
socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio, è il sistema che è in grado di
liberare i lavoratori dal giogo dell’oppressione fiscale lasciando il reddito da essi
guadagnato a loro disposizione.
Questa è la nostra proposta di “ riforma fiscale “, dopo decenni di prelievo statale sui
redditi di lavoratori e pensionati e di menzogne delle forze politiche e sociali
dominanti sulla possibilità di ridurre il carico fiscale in un ordinamento socio-
economico capitalistico.
Politica di tutela ambientale
Dato lo stato del sistema industriale italiano, è urgente una politica di
riconversione produttiva delle aziende inquinanti, in grado di rilanciare l’occupazione
lavorativa attraverso la riqualificazione ambientale degli impianti stessi, procedendo
in un processo di collettivizzazione delle grandi proprietà. L’applicazione e la
diffusione di tecnologie non inquinanti che consentano il risparmio energetico assieme
all’introduzione di un serio sistema sanzionatorio per le aziende che ancora inquinano
sono i primi fondamentali elementi in grado di imporre una svolta nella direzione
della necessaria modernizzazione e riqualificazione del nostro apparato produttivo per
garantire nello stesso tempo nuova occupazione qualificata e tutela dell’ambiente e
della salute dei lavoratori e dei cittadini.
A questi fini è urgente lo studio e l’applicazione sempre più diffusa delle
tecnologie fondate sull’utilizzo delle fonti rinnovabili ed alternative di energia, in
contrasto con le politiche degli inceneritori, un’educazione di massa ai consumi
fondati sul risparmio energetico e dei materiali e la sottrazione della raccolta,
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smaltimento e riciclo dei rifiuti al business criminale attraverso la completa
nazionalizzazione del ciclo.
Politica dei servizi sociali
Il diritto alla salute, alla casa, all’istruzione, alla cultura ed allo sport sono
oggi duramente messi in discussione dalle politiche dei vari governi borghesi.
I comunisti pensano che la salute possa essere difesa e seriamente tutelata solo
rilanciando il carattere universalistico della prestazione sanitaria, abolendo qualsiasi
tipo di ticket sanitari, nella prospettiva di garantire l’assistenza sanitaria gratuita, a
partire dai farmaci salvavita. Per raggiungere tale obbiettivo è necessario il blocco
delle privatizzazioni in corso e dei tagli di bilancio nel sistema della sanità, in
particolare per i servizi di assistenza ai disabili ed agli anziani, garantendone anzi il
loro miglioramento, potenziamento ed espansione. A tali fini è necessario un crescente
intervento statale nel settore farmaceutico e nella sanità, nella prospettiva di una sua
totale pubblicizzazione. Volevano far credere che la salute andava gestita in termini
manageriali: il sistema sarebbe migliorato e si sarebbero annullate le perdite
economiche, abbiamo visto come è andata a finire: i servizi sono notevolmente
peggiorati ed i conti sono sempre più in rosso. Gli ospedali devono tornare in mano
pubblica, sotto la gestione del popolo e di chi ci lavora. La stessa cosa vale per
l’industria farmaceutica, così come la rete delle farmacie deve diventare al servizio del
cittadino per garantirne la salute.
L’istruzione deve effettivamente essere gratuita ed obbligatoria fino al
compimento dei 18 anni, cessando di finanziare, col denaro pubblico, scuole ed
università private e destinando le ingenti risorse così liberate al potenziamento del
sistema formativo statale a tutti i livelli, allo sviluppo della libera ricerca scientifica ed
alla creazione di condizioni di accesso all’istruzione ed alla cultura per tutti, in tutti i
suoi aspetti, senza barriere di classe, per uno sviluppo armonico della personalità
umana.
L’abitazione è un diritto fondamentale della persona e dovrà essere garantito
a tutti attraverso grandi politiche di riqualificazione dell’edilizia popolare pubblica,
affitti commisurati al salario percepito e la requisizione dei grandi patrimoni
immobiliari sfitti.
Una profonda riforma istituzionale
Innanzitutto, è necessario applicare un capillare controllo popolare sul
sistema dell’informazione che deve restare preminentemente pubblico, vietando
qualunque ingerenza del capitale in questo campo per impedire la manipolazione
dell’informazione e delle coscienze.
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Devono ugualmente essere profondamente riformate le istituzioni che
garantiscono la difesa, la sicurezza e la giustizia, ricordando che l’arma della ‘legalità’
viene usata dalla borghesia per combattere la lotta di classe. Polizia, Carabinieri,
Guardia di Finanza, Forze Armate e Magistratura debbono essere riportate sotto il
controllo popolare, integrandone gli organici, a partire dai massimi gradi, con quadri
di provenienza proletaria, eliminando qualunque rischio di casta separata, favorendone
lo stretto rapporto col popolo, estendendo in questi settori le garanzie ed i diritti
sindacali per tutti a partire dalla ricostruzione di un esercito fondato principalmente
sulla leva popolare.
Nell’ambito delle istituzioni, transitoriamente all’istituzione del potere
popolare, servono una legge elettorale proporzionale, senza sbarramenti, secondo il
principio “una testa un voto“ ; un Parlamento monocamerale per semplificare e
velocizzare l’iter legislativo e consentire anche un notevole risparmio di spesa, nella
prospettiva di un parlamento dei lavoratori; l’equiparazione delle indennità
parlamentari alla retribuzione media di un lavoratore in trasferta; l’istituzione del
vincolo di mandato, per evitare che il deputato tradisca i propri elettori; la revocabilità
del mandato parlamentare da parte degli elettori.
Infine, deve essere sancita una netta separazione della Chiesa dallo Stato e
l’affermazione della laicità di quest’ultimo, nel rispetto paritario di tutte le confessioni
religiose e dell’ateismo.
Le risorse per le riforme
Le risorse per attuare queste riforme devono essere trovate attraverso le
seguenti misure di politica economica:
La nazionalizzazione, senza indennizzo, delle banche, delle società finanziarie, dei
fondi speculativi, delle assicurazioni, delle grandi aziende e dei settori strategici di
rilevanza nazionale, delle aziende che hanno de localizzato produzioni all’estero.
La competenza statale sul commercio estero, al fine di salvaguardare gli interessi
nazionali sulla base di reciproci vantaggi, cooperazione, equità e parità di rapporti nei
confronti dei nostri partner internazionali.
La lotta alla rendita parassitaria, attraverso la tassazione dei grandi patrimoni
e delle transazioni finanziarie.
La lotta all’evasione fiscale, prevedendo il carcere e la confisca dell’intero patrimonio
per i casi più gravi.
La lotta alla corruzione nell’apparato statale e nella pubblica
amministrazione, con la confisca del patrimonio tanto per il corrotto che per il
corruttore, nonché nei casi di concussione.
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L’abolizione di tutti i privilegi fiscali della Chiesa cattolica e delle altre
confessioni religiose, delle politiche di agevolazione e dei trasferimenti statali in loro
favore.
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9) Il Fronte unitario dei lavoratori (FUL) per la ricostruzione del sindacalismo di
classe in Italia
Il nostro progetto politico
La debolezza politica e la frammentazione che oggi affliggono la classe
operaia ed i lavoratori italiani richiedono che il Partito Comunista operi,
immediatamente e con la massima energia, per ricomporre l’unità della classe operaia,
con l’obbiettivo di creare, attorno ad essa, un vasto blocco sociale che raggruppi
lavoratori della città e della campagna, giovani e donne del mondo del precariato,
lavoratori della cultura e della scienza, strati di piccola borghesia, piccoli imprenditori,
piccoli commercianti ed artigiani, auto-impiegati, oppressi dal capitale monopolistico
e proletarizzati dalla crisi.
Il Partito ha individuato nel Fronte Unitario dei Lavoratori l’organizzazione di
massa, in grado di costruire, sulla base dell’egemonia operaia, questo blocco sociale
che dovrà divenire, sotto la guida del Partito Comunista, il pilastro della rivoluzione
proletaria in Italia, con la finalità di strappare il potere politico alla borghesia,
abbattere il capitalismo, instaurare la dittatura proletaria come la più alta ed estesa
forma di democrazia, sulla base della quale avviare la costruzione del socialismo-
comunismo. Il Fronte Unitario dei Lavoratori dovrà essere strutturalmente organizzato
per categoria di lavoratori, che esprimeranno i propri delegati nei Consigli dei diversi
livelli, da quelli di base sul luogo di lavoro, a quelli di categoria, fino a quelli centrali,
che devono costituire il momento supremo di sintesi dell’organizzazione, fornendo
così l’embrione ed il modello del futuro potere statuale.
Il Fronte Unitario dei Lavoratori non si deve identificare con il Partito. Il
FUL è un’organizzazione di massa, mentre il Partito è un’organizzazione di quadri e,
quindi, non deve essere inteso come presenza organizzata dei comunisti sui luoghi di
lavoro. Per questa funzione esistono le sezioni e le cellule del partito, coordinate dalla
Conferenza Nazionale dei Lavoratori Comunisti. I criteri di adesione devono essere
meno rigidi, rispetto a quelli che adottiamo nel Partito: può far parte del FUL
qualsiasi lavoratore, indipendentemente dalla propria appartenenza sindacale o
partitica, dalla propria ideologia o religione, purché ne riconosca la piattaforma
politica e rivendicativa e l’orientamento di classe. Anche il requisito della militanza,
irrinunciabile nel Partito, nel FUL diventa meno vincolante: è sufficiente la
partecipazione agli scioperi e alle mobilitazioni indette dal FUL, non è necessaria la
condivisione di tutto il lavoro di elaborazione e organizzazione che vi sta dietro.
Permane, ovviamente, l’impegno a sostenerne finanziariamente l’attività con un
contributo proporzionale al livello del salario percepito.
Fatte salve queste distinzioni, il legame tra il Partito e il FUL deve essere il
più possibile ombelicale, affinché quest’ultimo diventi davvero la “cinghia di
trasmissione”, grazie alla quale il Partito riceve la sollecitazione proveniente dalla
classe operaia, la astrae dal semplice conflitto tra padroni e operai, generalizzandola
77
nei termini della teoria rivoluzionaria e, quindi, la restituisce alla classe stessa come
indirizzo pratico di lotta.
Pur non essendo un sindacato, il FUL non può che partire dallo stesso
terreno, quello delle rivendicazioni immediate, economiche e non, con la differenza
che queste devono essere collegate ad obiettivi generali, dichiaratamente politici, che
abbiano un marcato connotato di classe. Occorrerà, allora, partire dalle lotte per gli
aumenti salariali, per il salario minimo garantito, per la stabilità del posto, per la
sicurezza sul lavoro, per il ripristino delle garanzie contrattuali nazionali collettive,
per i diritti del lavoro e sul lavoro, per la riduzione dei ritmi e dei tempi di lavoro, per
le pensioni e per l’assistenza, per i servizi e il diritto all’abitazione, spiegando ai
lavoratori che tutto ciò crea contraddizioni che un modo di produzione in cui il
profitto è diventato variabile indipendente non può a lungo tollerare. Occorrerà
convincere che la soluzione del problema immediato non può essere slegata
dall’abbattimento di questo sistema, che la classe operaia può e deve essere classe
dirigente e dominante, che questo è l’unico modo rendere definitive le conquiste. La
resistenza sociale non basta, occorre al FUL una piattaforma politica di classe.
Per ricostruire l’unità di classe occorre saper convincere che il
corporativismo, il localismo e le altre gravi forme di frammentazione, alimentate da
sindacati concertativi fino al collaborazionismo, sono perdenti nel breve periodo e
esiziali nel lungo. La difesa individualista e corporativa, limitata al “proprio” posto di
lavoro, alla “propria” fabbrica, al “proprio” settore produttivo, è impotente e porta
all’isolamento e alla sconfitta. Questa tendenza è il riflesso nella coscienza dei
lavoratori della pratica, imposta dai padroni e accettata dai sindacati, di neutralizzare
la contrattazione di primo livello a favore di quella di secondo livello, dove i
lavoratori sono più frammentati, isolati e ricattabili. Il FUL si batterà per ripristinare
la sostanza collettiva delle lotte, della contrattazione, dei diritti come elemento
fondante dell’unità di classe. Questo dovrà diventare il senso della parola d’ordine
“uniti si vince”. Non l’unità delle sigle sindacali, ma l’unità della classe operaia!
Al collettivismo della sostanza deve corrispondere il collettivismo delle forme di lotta,
ripristinando i legami di solidarietà tra categorie e settori diversi, ridando efficacia alle
agitazioni e agli scioperi. Il FUL dovrà fare ricorso a tutta la fantasia e creatività della
classe operaia per inventare forme di lotta in grado di ottenere il massimo risultato col
minimo costo per i lavoratori.
A questo scopo, il FUL dovrà coordinarsi strettamente con analoghe
organizzazioni già esistenti in altri paesi, come il PAME in Grecia e i CUO (Comitati
di Unità Operaia) in Spagna, anche per pervenire a forme di agitazione comuni e
congiunte.
Estremamente importante è il lavoro che il FUL dovrà svolgere nei confronti
delle categorie di lavoratori non operaie e non proletarie. Il FUL e i Comunisti al suo
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interno dovranno essere in grado di convincere questi strati popolari sostanzialmente
piccolo-borghesi, diffidenti nei confronti dei Comunisti e degli operai, che oggi i loro
interessi e la loro stessa sopravvivenza possono essere garantiti solo da un’alleanza di
blocco con la classe operaia. In alternativa, ciò che li aspetta non è la cooptazione
nella classe dominante, ma un tragico immiserimento.
A proposito di quanto qui detto, compiti immediati del Partito, subito dopo il
Congresso, dovranno essere, in successione:
– convocazione di una Conferenza Nazionale dei Lavoratori Comunisti, che
censisca la presenza e la collocazione dei membri del Partito per luogo di
lavoro e mansione; la Conferenza dovrà anche stabilire tempi e modalità per
la costituzione giuridica del FUL, elaborarne una bozza di statuto e di
piattaforma, da approvarsi in sede di Direzione Centrale e Comitato
Centrale;
– organizzazione, in tutti i luoghi di lavoro dove i Comunisti sono presenti, di
assemblee di presentazione del FUL e della sua piattaforma, in cui si
stabiliscano tempi e modalità di elezione dei Consigli di luogo di lavoro,
come istanza primaria e di base.
Siamo, ovviamente, all’inizio di un duro lavoro che richiede da parte di tutti noi
un grande impegno, individuale e collettivo, ma che ci consentirà di sviluppare la
militanza e la lotta nei luoghi di lavoro, un terreno fondamentale per verificare
l’efficacia della nostra azione politica. Non basta essere l’avanguardia della classe
operaia per vocazione, ma occorre che essa ci riconosca come tale, in base
all’esempio, all’impegno, alla preparazione e alla coerenza che sapremo dimostrare. Il
lavoro così prefigurato non potrà quindi essere realizzato a tavolino, ma
neppure dovrà essere immerso in quei gorghi di ingraiana memoria, che ne
farebbe perdere senso ed orientamento; lavorare quindi senza alzare
continuamente bandierine, ma pure evitando processi e rapporti indeterminati.
Indicazioni operative di lavoro
Dobbiamo avere attenzione nel corso della mobilitazione, ma anche
semplicemente nei rapporti quotidiani con i lavoratori, colleghi di lavoro, ad esporre
con chiarezza e semplicità le cause e le responsabilità della sofferenza che i lavoratori
provano sulla loro pelle, svelando i nessi di causa-effetto che legano le politiche
dell’Unione Europea e dei governi del nostro Paese agli interessi della classe
padronale nel fare pagare ai lavoratori stessi il costo della crisi.
Una particolare attenzione andrà posta, inoltre, al fatto che ogni mobilitazione, ogni
sciopero, che Lenin definiva – la scuola di guerra degli operai contro i padroni – lasci
un patrimonio di esperienza e di organizzazione consolidato fra i protagonisti della
lotta, tale da poter ripartire, per iniziative successive con un più consolidato
patrimonio di consapevolezza, di coscienza politica e capacità organizzativa.
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Se tutto ciò riusciremo a fare, allora, avremo gli elementi per creare più
stabili rapporti fra diversi settori dei lavoratori con stabili strutture organizzative per
dare ad un movimento di lotta sempre più ampie dimensioni di alleanze sociali,
ponendo così le condizioni per eleggere forme di rappresentanza e di direzione
politica quali Consigli di luogo di lavoro in grado di guidare la lotta aziendale,
settoriale verso sbocchi positivi, che consolidino e moltiplichino il livello di coscienza
popolare.
Naturalmente, queste, sono solo alcune indicazioni molto generali, che
ciascuno di noi potrà applicare con creatività e duttilità nelle varie situazioni in cui si
trova ad operare, occupandosi anche del le realtà di lavoro per loro natura
“disgregate”, quali quelle dei giovani impegnati nei call-center e nelle
telecomunicazioni, per le quali occorrerà pure, da subito, realizzare
un’inchiesta significativa e su larga scala.
Andranno anche affrontate vicende del precariato diffuso, quello
tradizionale e quello recente, sviluppatosi soprattutto a latere del Pubblico
Impiego ( grazie alle invenzioni lsu, lpu, ecc. di bertinottiana memoria ).
Un rilievo specifico, ma non meno impegnativo, va pure dato alla condizione
dei lavoratori delle cooperative, forse oggi i più sfruttati in termini economici
ed i meno tutelati in termini normativi. Quello che di positivo ha rappresentato
storicamente il movimento cooperativo , come figlio delle esperienze
mutualistiche e solidaristiche, cresciuto a fianco del movimento sindacale
operaio, si è trasformato brutalmente, negli ultimi 40 anni, in un vero cavallo
di troia, dentro cui si sono sperimentate inedite forme di asservimento e
disinvolte operazioni di riconversione finanziaria.. Da tutto ciò ne deriva, dunque,
per il Partito, il compito di saper dare ad ogni militante nel mondo del lavoro il
necessario supporto con materiale specifico di propaganda ed agitazione volto a
divulgare fra i lavoratori i contenuti delle nostre proposte di lotta e le forme di lotta
con cui sostenere le stesse, al fine di permettere ai nostri militanti di esserne
protagonisti, divenendo così, agli occhi dei propri compagni di lavoro, avanguardie
reali.
Accanto e parallelamente a tale lavoro potranno essere impostati due
interventi, tendenzialmente di massa ed a carattere generale:
– la costruzione su base nazionale di un coordinamento di legali e di
giuristi comunisti che, richiamando ma non ricalcando pedissequamente
le esperienze storiche del “soccorso rosso”, utilizzi a pieno gli spazi
aperti dall’ abrogazione dell’art. 19 dello Statuto dei Lavoratori da parte
della Corte Costituzionale, e la prevedibile non legiferazione in tempi
brevi intorno alla rappresentanza sul lavoro, ciò in esatta
contrapposizione con quanto ha rappresentato e realizzato il cosiddetto
80
Forum diritti-lavoro ( la nefanda soglia del 5% sulla rappresentanza sui
luoghi di lavoro è una loro brillante invenzione legislativa );
– l’apertura di uno spazio largo, ma specifico, dentro cui si possano
centralizzare e generalizzare le esperienze di lotta per la sicurezza e
contro le nocività sui luoghi di lavoro, seguendo la migliore tradizione
del 69’ operaio e correggendo l’impostazione che è andata assumendo
Medicina democratica, spesso ostaggio delle stucchevoli passerelle para-
istituzionali, a partire da quelle aperte dal Quirinale.
81
10) Gioventù comunista
Come la questione del lavoro, anche la condizione e l’organizzazione della
gioventù rivestono una forte importanza. La disoccupazione giovanile, secondo le
previsioni, sfonderà a breve la quota del 50%, la stragrande maggioranza dei giovani
lavoratori è assunta a tempo determinato, con forme di contratto precarie, con salari
sempre più bassi e tutele inesistenti. I vincoli europei del patto di stabilità con il
blocco delle assunzioni nel settore pubblico e l’aumento dell’età pensionabile, che ha
rallentato il ricambio generazionale hanno contribuito ulteriormente alla diminuzione
di posti di lavoro. Ogni misura governativa o legislativa degli ultimi due decenni si è
risolta in un peggioramento ulteriore delle condizioni dei lavoratori in generale, delle
nuove generazioni di lavoratori in particolare. Basti pensare ai danni prodotti dalla
recente legge Fornero.
Masse sempre maggiori di giovani di estrazione popolare sono espulse dal
sistema dell’istruzione. È il caso della diminuzione secca di 50.000 universitari tra il
2012 ed il 2013, ma anche nella scuola superiore si inizia a vedere un riemergere
dell’abbandono scolastico. La causa sono i drastici tagli ai finanziamenti, la sempre
maggiore richiesta di tasse e contributi diretti ed indiretti, che insieme al costo dei libri
di testo, degli alloggi nel caso dei fuori-sede universitari, spingono a ridurre
complessivamente il numero degli studenti e, nel caso delle scuole superiori, ad
operare scelte di indirizzo sulla base delle possibilità economiche e non partendo dalle
aspirazioni individuali del singolo studente.
Questo contesto risulta ulteriormente aggravato nelle regioni del
mezzogiorno d’Italia, dove la cronica mancanza di lavoro si somma con gli effetti
della crisi economica, con un aumento del lavoro nero e forme di nuovo caporalato,
spingendo ad una nuova ondata migratoria di giovani dal sud Italia alle regioni del
centro nord ed in generale dall’Italia all’estero. Questo flusso interessa oggi anche
giovani laureati, privi di reali sbocchi lavorativi nel nostro paese.
Le nuove generazioni subiscono tutti i limiti del sistema capitalistico e vedono ad uno
ad uno cadere i miti di sviluppo universale e di prosperità, che dal crollo dell’Unione
Sovietica sono stati propagandati a “reti unificate”.
Tuttavia questi venti anni di propaganda ideologica non sono passati in un
giorno. La propaganda anticomunista, l’idea che non esistano alternative reali a questo
sistema, insieme con il tradimento operato dai partiti opportunisti e dai sindacati
concertativi, hanno creato un mix di elementi che potranno essere superati nel tempo
solo attraverso un lavoro militante che faccia emergere concretamente la diversità
comunista rispetto ai partiti borghesi, che rinsaldi i legami di classe combattendo
l’individualismo esasperato, il prodotto peggiore della propaganda ideologica di questi
anni, che trasmetta un’idea del socialismo, come necessità e unico futuro dell’umanità,
non come esperimento sconfitto e di conseguenza non ripetibile.
82
Nella nostra analisi è d’obbligo ricordare che sebbene spesso si parli in modo
generico di “giovani”, la nostra attività deve essere rivolta ad intercettare ed
organizzare i giovani di estrazione proletaria e popolare, che provengono da famiglie
di lavoratori e disoccupati, che più drammaticamente vivono sulla propria pelle le
contraddizioni di questo sistema. I giovani non sono infatti una classe sociale. Un
conto è esser il figlio di Agnelli, un conto è esser figlio dell’operaio Pautasso. In ciò
dobbiamo sempre evitare di prestare il fianco all’idea di uno scontro generazionale,
che di volta in volta contrappone i giovani precari ai “vecchi garantiti”, i pensionati ai
giovani che non avranno una pensione, o scadere nel “giovanilismo” come visione
positiva di tutto ciò che è giovane. L’enorme capacità di questo sistema di dissimulare
le sue colpe, facendo cadere lo scontro di classe nel vortice dello scontro all’interno
della classe, è una delle caratteristiche del capitalismo, che dobbiamo combattere con
maggior forza, rinsaldando l’idea dell’unità di classe, presupposto fondamentale per
ogni avanzamento collettivo.
Per far questo è necessario un lavoro profondo che deve combinare una
puntuale analisi politica e un’appassionata campagna ideologica con la capacità di
trasmettere quest’analisi alle nuove generazioni ed al contempo lavorare per
organizzare i giovani, come leve fondamentali nella lotta contro il capitalismo, per
avvicinarli all’idea del partito, inteso nella sua forma leninista, mettendo in luce le
profonde differenze con il sistema politico borghese.
Per questo il nostro partito sostiene la costruzione del Fronte della Gioventù
Comunista, progetto al quale danno forza quotidianamente nostri militanti, quadri e
giovani dirigenti. Molti dei giovani che aderiscono oggi al Fronte della Gioventù
provengono dalle deludenti esperienze della diaspora comunista dell’ultimo ventennio,
oppure sono alla loro prima esperienza di militanza comunista. Non è possibile, in
questa fase e nelle condizioni date, costruire un’organizzazione che riesca ad
amalgamare e tenere insieme queste diverse provenienze, sulla base di una chiara
teoria e prassi marxista-leninista e del rigetto di qualsiasi forma di opportunismo,
revisionismo e riformismo, senza un’autonomia organizzativa del Fronte della
Gioventù Comunista, che faccia emergere tutto il potenziale rivoluzionario che i
giovani possono e devono esprimere. Un progetto da sostenere perché, tra l’altro,
concilia l’organizzazione della lotta dei giovani contro il capitalismo con la
ricomposizione, su una piattaforma realmente rivoluzionaria, delle divisioni che hanno
afflitto il movimento comunista in Italia in tutti questi anni, nella convinzione che le
nuove generazioni debbano tornare a dare un contributo fondamentale alla crescita del
Partito Comunista in Italia e un impulso decisivo alla rivoluzione socialista.
83
11) Differenza di genere, differenza di classe.
Nell’era della lotta mediatica non dimentichiamo quanto è stata
indispensabile, fondamentale all’emancipazione di un’intera classe, la lotta delle
donne per la conquista dei diritti sociali prima e civili poi e per l’affermazione dei
principi di autodeterminazione e parità ma ricordiamo come questa lotta sia stata vera,
autentica, densa di contributi ideali e di apporti concreti, a partire dalle fila della
Resistenza e quindi nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro.
Oggi la condizione delle donne, in tutto il mondo, arretra a vista d’occhio,
perchè la complessiva condizione della classe operaia, dei lavoratori, dei vasti ceti in
via di veloce proletarizzazione e delle grandi masse emarginate ed escluse dello
sviluppo della società capitalista, sono in difesa, aggredite dalla forza incontrollata del
capitale globalizzato, capaci, per ora, solo di una lotta di retroguardia, a difesa,
appunto, di una condizione che ormai è stata erosa ed esposta ad ogni aggressione,
non esistendo un soggetto politico (ma nemmeno sindacale) capace di rendere
protagoniste autorevolmente e senza ipocrisie, interessi, condizione, aspirazioni, ideali
della classe operaia e dei lavoratori.
La condizione della donna, migliorata, avanzata, divenuta spesso traino di
nuove conquiste e nuove dinamiche ideali e pratiche, quando la lotta popolare era
forte e rappresentata da un’entità ancora salda e comunque ancorata a principi non
compromessi, era altrettanto forte e le conquiste ottenute sono state immense.
Le otto ore, la parità di condizione dell’accesso al lavoro, lo statuto dei lavoratori, le
previdenze sociali, il nuovo diritto di famiglia, divorzio, aborto, servizi sociali
pubblici, tutto oggi che ciò è conservatore, antiriformista, ci ripetono alla nausea i
governanti di destra e della finta sinistra, che coi loro governi, in questi due decenni,
alternativamente, ne hanno fatto scempio.
Oggi quella condizione soffre maggiormente la sconfitta e paga il prezzo più
alto dell’arretratezza economica e culturale che, sia pure con facce e forme diverse, si
manifesta in modo devastante, in tutto il pianeta.
Se il lavoro manca, se grandi masse di ex lavoratori vengono espulse dalla produzione
e dal complessivo mondo del lavoro, le prime a farne le spese sono le donne: è facile
rispolverare la sottocultura (in realtà mai sopita) della donna che torna fra le mura
domestiche, dopo aver fatto l’operaia, la commessa, l’impiegata o l’assistente nei
servizi di cura per decenni. Saranno loro anche a tappare il buco della sanità pubblica
che non c’è più, ad agire in via “sussidiaria”, come piace tanto alla destra (ma pure al
PD che ha copiato il modello lombardo, esportandolo nelle Regioni che monopolizza
da anni ed affidando alla rete delle sue cooperative – ex rosse – i servizi sanitari e
sociali che sono stati pubblici: un affare dopo l’altro, terminato quello andato male
delle cooperative edili …) in quelli sociali, di cura, rivolti alla persona, che torneranno
ad essere appannaggio del lavoro (gratuito) delle donne.
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Per questo ricordiamo come solo con un movimento operaio e popolare forte
si possano far avanzare in modo altrettanto forte e duraturo le conquiste delle donne. E
per mantenerle, tali conquiste che sono di un’intera società e ne sottolineano la cifra
complessiva della civiltà, occorre che il movimento, nella sua espressione pratica e
contemporaneamente ideale ed ideologica, resti sempre forte.
Così non è avvenuto e così le conquiste ottenute, i diritti, il progresso sociale e civile
strappato con una dura lotta che molti tendono a dimenticare, sono state “riportate a
casa” dall’avversario di classe, il capitalismo, nella versione più atroce del liberismo
globalizzato.
Se nell’ex avanzato occidente la condizione della donna peggiora, a partire
dal lavoro; se la violenza maschilista si abbatte come un macigno incontrollato e dagli
aspetti umani biechi; se la sottocultura sessista, il fondamentalismo e il bigottismo
religioso imperano e si riprendono, senza che molti e molte se ne accorgano, una
egemonia culturale che la “finta sinistra” europea e italiana, in particolare, crede sia
saldamente nella testa e nel cuore della maggioranza della popolazione, nel resto del
mondo, per la donna la condizione di arretratezza significa schiavitù, violenza,
abbrutimento, ignoranza, analfabetismo, malattia.
E globalizzazione significa che simili sacche di miseria e violenza di genere
vengano esportate anche nelle (ex) civilissima Europa dove l’unico parametro di
riferimento è il denaro e il potere che esso genera.
Questa parte del mondo così brutta non lo è diventata per caso,
l’avanzamento sociale, il miglioramento della qualità della vita grazie alle lotte ed alle
aspirazioni di tante generazioni, non sono sfumate nel nulla, dalla sera alla mattina.
Il nemico di classe ci ha lavorato sodo e ce l’ha fatta, ma di fronte ha trovato un
avversario di classe sempre più arrendevole, tanto da diventare corrotto e proprio a
partire dalle politiche sul lavoro, sui diritti sociali e sulla qualità della vita: svenduti e
traditi con l’aggravante dell’uso di un’ipocrisia che si è fatta luogo comune.
La lotta delle donne, la lotta per le conquiste di un genere che oggi soffre
immensamente e più dell’altro, torneranno con la ripresa della lotta operaia, della lotta
della classe che ha come obiettivo quello di rovesciare gli attuali rapporti di forza, per
imporre la propria visione del mondo che schiaccia sfruttamento e prevaricazione.
85
12) Per la ricostruzione di un vero Partito Comunista.
La traduzione della teoria rivoluzionaria in prassi finalizzata al rovesciamento
del capitalismo richiede l’esistenza di un Partito Comunista di tipo leninista in grado
di porsi efficacemente alla guida della classe operaia e del popolo e di collegare, nel
corso delle lotte quotidiane, la difesa degli interessi immediati all’obiettivo del
rovesciamento radicale dello stato di cose presente, cioè alla rivoluzione proletaria. Il
Partito Comunista è, in altre parole, la sintesi collettiva e organizzata di teoria e prassi,
la quale sola può produrre ed esportare nella classe operaia la coscienza del proprio
essere e del destino storico che le compete in forza della propria collocazione nei
rapporti di produzione. In ogni trasformazione del modo di produzione storicamente
determinatasi, una nuova classe sostituisce quella vecchia, imponendo i nuovi rapporti
di produzione di cui è portatrice come rapporti economici dominanti. In questo tipo di
cambiamenti rivoluzionari, le classi che si sono succedute l’una all’altra come classi
dominanti erano comunque proprietarie dei mezzi di produzione. Lo sfruttamento
dell’uomo sull’uomo, connesso alla proprietà privata, continuava a permanere in forme
diverse e più raffinate.
Il proletariato, in questo senso, è la classe “finale”, in quanto è l’unica classe
che non detiene la proprietà privata dei mezzi di produzione e, pertanto, è l’unica
classe che, con la rivoluzione socialista, può porre fine a millenni di sfruttamento e
costruire una società realmente libera: il Socialismo-Comunismo. Il Partito Comunista
deve appunto fornire alla classe operaia la coscienza di questo suo ruolo storico. E’ un
compito arduo, in quanto il capitalismo è in grado oggi di condizionare la stessa classe
operaia, veicolando al suo interno ideologie, modelli comportamentali e valori etici
tipicamente borghesi.
La scuola, l’impresa, i media e le chiese scatenano la loro quotidiana
battaglia delle idee con l’obiettivo della riproduzione e conservazione dei rapporti di
produzione esistenti. Per questo il Partito deve attrezzarsi per contrastare
quotidianamente, capillarmente e radicalmente la borghesia e il capitalismo sul piano
della lotta delle idee, per scalzare la falsa universalità e svelare il carattere classista dei
principi che legittimano la società borghese (libertà, democrazia, uguaglianza, ecc.),
per fare emergere nella coscienza delle masse proletarie la necessità della società
socialista-comunista.
Il capitalismo – ci ricorda Lenin e con lui Gramsci – non può crollare da solo
a causa della sua crisi. L’attesa messianica dell’inevitabilità del crollo del capitalismo
porta solo a un attendismo sterile e alla paralisi dell’azione rivoluzionaria. Lo vediamo
tutti i giorni: l’aggravamento delle condizioni di vita delle classi subalterne, lo
scempio ambientale, i gravissimi pericoli di guerra si vanno acutizzando. Il baratro
verso cui il sistema capitalista-imperialista sta portando il pianeta intero si potrà
evitare solo se il popolo, con alla testa il proletariato guidato dal Partito Comunista,
prenderà effettivamente il potere.
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I comunisti dirigono la lotta della classe operaia non soltanto per ottenere
condizioni migliori di vendita della forza-lavoro, ma anche per abbattere quel modo di
produzione che costringe i proletari a vendere la propria forza-lavoro ai capitalisti.
Perciò, i comunisti non devono limitarsi alla lotta economica, ma devono occuparsi
attivamente dell’educazione politica della classe operaia e dello sviluppo della sua
coscienza di classe svolgendo opera di agitazione e propaganda contro ogni
manifestazione concreta della oppressione politica e sociale, considerando la lotta per
i miglioramenti economici solo come il punto di partenza della sollevazione della
masse ad una più ampia lotta per la libertà ed il socialismo.
Questo deve tornare ad essere per noi il compito principale nello sviluppo del
nostro lavoro quotidiano. Il dilagare della crisi economica, con i suoi connotati di
aumento della povertà, della disoccupazione, della precarizzazione del lavoro e
dell’ingiustizia sociale, crea una situazione drammatica e preoccupante che, però, apre
nuovi spazi di iniziativa e di lotta per un Partito Comunista che sappia collegare i più
autentici bisogni e aspirazioni delle masse popolari alla lotta per l’abbattimento del
sistema capitalistico e per il socialismo.
Partendo dall’unità della classe operaia, i comunisti devono costruirne
l’alleanza sociale col ceto medio produttivo, proletarizzato dalla crisi. Questi compiti
richiedono che il Partito sia in grado di formare militanti con una solida preparazione
culturale, ideologica e politica, i quali, anche utilizzando tutti i moderni strumenti di
comunicazione di massa, siano capaci di condurre, con disciplina e passione, la
necessaria e capillare azione di propaganda e agitazione tra le masse e ne diventino
effettivamente dirigenti politici.
Pertanto, oltre a un significativo incremento quantitativo, soprattutto di
quadri di provenienza operaia, il Partito deve puntare decisamente sulla loro crescita
qualitativa. Ogni militante comunista deve essere un dirigente del proletariato, deve
sapere in ogni momento quale linea portare nel conflitto di classe dove si trova a
operare, deve essere in grado di far capire con la sua opera di propaganda i
collegamenti esistenti tra le lotte quotidiane, la politica nazionale e internazionale,
sapendo riferirsi e ispirarsi all’esperienza del movimento operaio e comunista
internazionale. Per troppo tempo la formazione dei quadri comunisti è stata prima
sottovalutata e poi completamente smantellata dagli “eredi” del PCI, forse perché un
quadro ben attrezzato ideologicamente non è una semplice macchinetta per fare
tessere, né digerisce facilmente stravolgimenti opportunistici della linea del Partito,
finalizzati solo a creare le fortune elettorali dei “dirigenti”, cosa a cui siamo stati
abituati dal ventennale tentativo della “rifondazione”.
I presupposti di una teoria del partito si trovano già nelle opere di Marx e
Engels, quando affermano che il proletariato acquista coscienza di sé solo
organizzandosi in un partito “indipendente”. Nel “Manifesto del Partito Comunista” si
sottolinea già la diversità dei comunisti rispetto agli altri partiti proletari. I comunisti
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sono “la parte che spinge sempre più avanti” (concetto dell’avanguardia proletaria) la
quale, lottando per gli interessi degli operai “nel moto presente rappresenta in pari
tempo l’avvenire del movimento” (concetto del partito portatore di un progetto
strategico complessivo) per il fatto che collocano le lotte operaie in ogni nazione nel
quadro degli interessi internazionalistici del proletariato e, nella lotta tra borghesia e
proletariato, “rappresentano sempre l’interesse del movimento complessivo” (concetto
di partito internazionalista). Engels affermava che la classe operaia può combattere in
modo “indipendente … se il partito operaio conserverà e svilupperà le proprie
organizzazioni di fronte alle organizzazioni di partito della borghesia e tratterà con
quest’ultima come una potenza con altre potenze” (concetti di autonomia del partito e
di organizzazione come forza del partito).
Da questi concetti, maturati dall’esperienza della I Internazionale nasceranno
i partiti della II Internazionale ma, soprattutto, nascerà il partito politico moderno, con
i tratti comuni che conosciamo: programma politico omogeneo, organizzazione
diffusa e stabile, funzionamento continuativo, assunti come istituzionali dai partiti
socialisti della II Internazionale. Questo tipo di partito determinerà l’entrata di grandi
masse di lavoratori sulla scena politica e metterà definitivamente in crisi il tipo di
partito borghese tradizionale, che generalmente si riduceva ad un comitato elettorale
raggruppato intorno a questo o quel personaggio politico.
Tuttavia, la costituzione del partito politico operaio durante la II
Internazionale non si collega all’elaborazione di una teoria del partito rivoluzionario:
mancano la capacità e la volontà di affrontare il problema della conquista del potere
politico.
Sarà Lenin a porlo seriamente come questione centrale e a sviluppare,
conseguentemente, la teoria del partito rivoluzionario. Nel “Che Fare?”, Lenin
affronta il problema del rapporto tra spontaneità e coscienza politica, in drastica e
inappellabile polemica con il revisionismo di E. Bernstein, da questi teorizzato ne “Le
premesse del socialismo“ (1899) e l’economismo, che ne costituisce la versione russa.
Costoro sostenevano che il compito politico di abbattere l’autocrazia più feroce
dell’Europa e dell’Asia dovesse essere lasciato alla borghesia, mentre il partito della
classe operaia avrebbe dovuto occuparsi dell’organizzazione della lotta economica
contro padroni e governo, per ottenere un miglioramento delle condizioni e della
legislazione di lavoro. In una visione meccanicista, ritenevano che la coscienza di
classe sarebbe dovuta scaturire automaticamente dallo sviluppo naturale della lotta
economica.
Basandosi sull’analisi degli scioperi successivi al 1890, Lenin rileva come la
lotta della classe operaia non abbia saputo superare una dimensione tradunionista e
corporativa, con un forte risveglio dell’antagonismo tra operai e padroni, che, però,
restava ancora subalterno alla borghesia, in quanto mancava negli operai “la coscienza
dell’irriducibile antagonismo tra i loro interessi e tutto l’ordinamento politico e
sociale contemporaneo”.
Lenin dimostra come gli operai non possano giungere spontaneamente a
88
questa comprensione e superare la fase corporativa della lotta di classe senza una
visione critica complessiva della società, che può essere data solo dalla teoria
rivoluzionaria, intesa come scienza che assume, sviluppa, critica e supera i punti più
alti del pensiero e della cultura borghesi. Questa dunque non può che nascere
dall’esterno della classe operaia, come opera di quegli intellettuali che “sono giunti
alla comprensione teorica del movimento storico nel suo insieme” (K. Marx, “Il
Manifesto del Partito Comunista”). Ancora Lenin scrive: “la coscienza politica di
classe può essere portata all’operaio solo dall’esterno, cioè dall’esterno della lotta
economica, dall’esterno della sfera dei rapporti tra operai e padroni. Il solo campo
dal quale è possibile attingere questa coscienza è il campo dei rapporti di tutte le
classi e di tutti gli strati della popolazione con lo Stato e il governo, il campo dei
rapporti reciproci di tutte le classi” (V.I. Lenin, “Che Fare?”).
Il Partito è lo strumento che congiunge la teoria rivoluzionaria al movimento
operaio, permettendo a quest’ultimo di acquistare coscienza politica e superare la fase
economico-corporativa, la sintesi tra teoria e prassi rivoluzionaria. Con esso, la lotta di
classe investe direttamente il piano delle ideologie e, da lotta economica, si eleva a
lotta politica. Il ruolo dell’ideologia e della teoria è, per Lenin, fondamentale: “Non vi
è azione rivoluzionaria senza teoria rivoluzionaria”. Ogni cedimento sul piano
teorico, ogni scivolamento verso lo spontaneismo si traduce in perdita di autonomia
dell’azione politica e in sottomissione alla borghesia e alle forme ideologiche del suo
dominio.
Con Lenin, il problema dello Stato, della conquista e dell’organizzazione del
potere diventa la questione decisiva della rivoluzione socialista, stroncando le teorie
bernsteiniane, assai diffuse nella II Internazionale, che riducevano la lotta di classe ad
un gretto rivendicazionismo economico ed alla richiesta di riforme graduali e
concepivano la stessa rivoluzione come una conseguenza oggettiva delle leggi dello
sviluppo storico. In questa prospettiva, il Partito è lo strumento fondamentale per la
conquista del potere e l’organizzazione del nuovo Stato socialista.
Dalla concezione del Partito come organizzatore della coscienza di classe e
guida dell’azione rivoluzionaria deriva la configurazione che esso deve assumere.
Innanzitutto, per Lenin, il partito non è una setta, ma un’organizzazione
politica, capace di porsi alla testa della classe operaia, di costruire attorno ad essa un
sistema di alleanze sociali, collegando le rivendicazioni immediate con gli obiettivi
strategici. “Noi dobbiamo assumerci il compito di organizzare una lotta politica
multiforme, diretta dal nostro partito, affinché tutti gli strati dell’opposizione possano
dare e diano, a tale lotta e in pari tempo al nostro partito, tutto l’aiuto che possono.
Noi dobbiamo trasformare i militanti … in capi politici che sappiano dirigere tutte le
manifestazioni di questa lotta multiforme, che al momento necessario sappiano dare
un programma di azione positivo agli studenti in fermento, ai rappresentanti degli
zemstvo insoddisfatti, ai membri delle sette religiose indignati, agli insegnanti colpiti
89
nei loro interessi, ecc., ecc.” (V.I. Lenin, “Che Fare?”).
Da una concezione del partito di questo tipo non può che discendere un
criterio di ammissione nel Partito basato sulla accettazione del suo programma
politico come condizione necessaria, ma non sufficiente. Il programma è determinato
dalla concezione e dal metodo d’indagine marxista, ma la condivisione della visione
del mondo materialistico-dialettica non può essere la discriminante a priori per
l’adesione al Partito, ma deve essere l’obiettivo dell’azione costante dei gruppi
dirigenti, all’interno del Partito, per formare quadri e militanti.
Tuttavia, come dicevamo, Lenin non ritiene sufficiente la condivisione del
programma. Al II Congresso del Partito Operaio Socialdemocratico Russo del 1903,
in netta polemica con Martov e i menscevichi, che sostenevano che chiunque
appoggiasse il programma del partito potesse farne parte, Lenin affermava che
soltanto chi milita effettivamente in un’organizzazione di partito può esserne
considerato membro. Questo concetto verrà portato avanti da Lenin nell’opera “Un
Passo Avanti, Due Passi Indietro” (1904), dove viene approfondita la teoria del partito
e vengono confutate le accuse di “formalismo” e “autoritarismo”. Non di questo,
infatti, si tratta, ma di ferrea coerenza logica. Se il Partito è lo strumento della
coscienza critica, che eleva alla consapevolezza teorica e all’iniziativa pratica
rivoluzionaria la spontaneità del movimento, allora la sua costruzione non può
avvenire dal basso, ma dall’alto, concetto che Gramsci recepisce pienamente. Il Partito
è parte integrante della classe operaia, ma non si identifica con essa, in quanto la
coscienza politica rivoluzionaria di cui è portatore non è patrimonio di tutta la classe.
“Dimenticare la differenza che esiste tra il reparto d’avanguardia e tutte le masse che
gravitano verso di esso, dimenticare il costante dovere del reparto d’avanguardia di
elevare strati sempre più vasti fino al livello dell’avanguardia, vorrebbe dire solo
ingannare sé stessi” (V.I. Lenin, “Un Passo Avanti, Due Passi Indietro”). Il Partito si
pone quindi in una posizione di direzione politica della classe operaia, non di
identificazione con essa.
La direzione politica è incompatibile con una concezione amorfa
dell’organizzazione, ma deve tradursi in rapporti organizzativi precisi, sorretti da una
consapevole e condivisa disciplina. Da questa considerazione scaturisce il principio
del centralismo. In questi passi di Lenin troviamo l’esaltazione del meccanismo della
democrazia delegata, del ruolo del congresso e degli organismi dirigenti che ne
scaturiscono, la cui “autorità è autorità delle idee, della coscienza portata al massimo
grado di consapevolezza critica” (V.I. Lenin, “Un Passo Avanti, Due Passi Indietro”).
Non c’è posto per nessun autoritarismo, perché le idee si elaborano nel confronto e si
sottopongono alla verifica dell’esperienza. Il centralismo si esplicita principalmente
nel criterio di sottomissione della minoranza alla maggioranza, della parte al tutto.
Soltanto questo criterio consente di superare la dicotomia tra pensiero e azione, tra
teoria e prassi, tipica dei partiti borghesi e parlamentaristici, garantendo l’unità e la
disciplina necessarie alla lotta rivoluzionaria.
Lenin stigmatizza l’insofferenza per la disciplina e l’organizzazione come
90
“anarchismo da signori”, tipico dell’intellettuale borghese. L’implicita critica a questo
tipo di intellettuale e al suo individualismo costituisce il presupposto della successiva
elaborazione gramsciana sull’intellettuale di tipo nuovo, “organico” alla classe
operaia, capace, grazie all’impegno militante nel Partito, di fondersi con essa e di
realizzare finalmente l’unità di pensiero e azione, in un riscontro all’affermazione di
Marx “… i filosofi hanno finora variamente interpretato il mondo; ora si tratta di
trasformarlo”.
La nozione di centralismo si precisa in quella di centralismo democratico al
IV Congresso del POSDR (1906) e quindi sono da considerarsi errate le tesi che fanno
risalire l’adozione di questo metodo al X Congresso del partito (1921). In questo
concetto, l’estrema centralizzazione della direzione politica e la severa disciplina
riguardo il rispetto delle decisioni prese diventano norma di un partito nel quale vige,
a monte, il più aperto confronto di posizioni, con un dibattito largo e spregiudicato.
Non solo, ma alla centralizzazione della direzione, quindi alla ristrettezza degli
organismi dirigenti (dopo la vittoria della Rivoluzione d’Ottobre, il Comitato Centrale
era composto da 19 membri, l’Ufficio Politico e l’Ufficio d’Organizzazione da 5
membri ciascuno), corrisponde la decentralizzazione del lavoro e delle responsabilità.
“Mentre per la direzione ideologica e pratica del movimento e della lotta
rivoluzionaria del proletariato è necessaria la maggior centralizzazione possibile …,
per la responsabilità dinanzi al Partito è necessaria la maggior decentralizzazione
possibile …, cioè l’allargamento della responsabilità e dell’iniziativa è una condizione
necessaria alla centralizzazione rivoluzionaria e il suo indispensabile correttivo”
(V.I. Lenin, “Lettera a un compagno sui nostri compiti organizzativi”). Il centralismo
garantisce l’unità e l’autonomia del partito, ma l’unità, l’efficienza, la passione e la
disciplina nella lotta non si raggiungono senza far leva sull’effettiva partecipazione e
responsabilità dei militanti. Questo rapporto tra disciplina e democrazia interna al
partito investe la sua stessa capacità di collegamento con le masse.
Lenin indica così le basi su cui poggia la ferrea disciplina che consente al
Partito di uscire vittorioso dallo scontro con la borghesia: “in primo luogo, mediante
la coscienza dell’avanguardia proletaria e la sua devozione alla causa rivoluzionaria,
mediante la sua fermezza, la sua abnegazione, il suo eroismo. In secondo luogo,
mediante la capacità di questa avanguardia di collegarsi, di avvicinarsi e, se volete,
fino ad un certo punto di fondersi con le masse dei lavoratori, dei proletari
innanzitutto, ma anche con le masse lavoratrici non proletarie. In terzo luogo,
mediante la giustezza della direzione politica realizzata da questa avanguardia,
mediante la giustezza della sua strategia e della sua tattica politica e a condizione che
le grandi masse si convincano, per propria esperienza, di questa giustezza. Senza
queste condizioni, la disciplina di un partito rivoluzionario realmente capace di
essere il partito di una classe d’avanguardia che deve rovesciare la borghesia e
trasformare tutta la società, non è realizzabile” (V.I. Lenin, “L’estremismo malattia
infantile del Comunismo”). Se il punto centrale della teoria del partito rivoluzionario
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in Lenin è il rapporto tra coscienza e spontaneità, tra partito e classe, tra teoria e
movimento, il centralismo democratico ne è conseguenza necessaria e inevitabile.
Il nostro Partito si riconosce pienamente e si richiama alla concezione
leninista del partito, recepita da Antonio Gramsci, il quale, nel Quaderno 14, così ne
delinea la strutturazione su tre livelli:
1) “Un elemento diffuso, di uomini comuni medi, la cui partecipazione è
offerta dalla disciplina e dalla fedeltà, non dallo spirito creativo ed altamente
organizzativo.” Senza i militanti, senza questi “uomini comuni” –ammoniva Gramsci –
“il partito non esisterebbe, così come non esisterebbe neanche ‘solamente’ con
essi…sono una forza in quanto c’è chi li centralizza, organizza, disciplina, ma in
assenza di questa forza coesiva si sparpaglierebbero e si annullerebbero in un
pulviscolo impotente”. Questa affermazione, nel periodo della fittizia “democrazia
istantanea” della rete e dei movimenti, può apparire meno partecipativa. E’
esattamente il contrario: la stessa concezione del ‘centralismo democratico’
(funzionamento del partito) e della ‘dittatura del proletariato’ (funzionamento dello
stato) è quanto di più partecipativo e democratico possa esistere nella realtà concreta.
Siamo pronti a affermare senza tema di smentita che è di gran lunga più alto il grado
di democraticità di un Comitato Centrale composto da un centinaio di dirigenti, che
discutono e decidono liberamente sulla base di un mandato, comunque sempre
revocabile, conferito loro dai militanti che li hanno eletti, piuttosto che una tornata di
primarie con milioni di partecipanti che si illudono di poter scegliere un candidato in
realtà già deciso da un gruppo dirigente autoreferenziale, etero diretto dai grandi
gruppi capitalistici finanziari, o un meet-up di qualche centinaio di migliaia di
persone, manipolate mediaticamente, che acclamano plebiscitariamente, come tifosi
alla stadio, quanto ha stabilito il guru telematico di turno. Ancora Gramsci:
2) “Un elemento coesivo principale, che centralizza nel campo nazionale, che
fa diventare efficiente e potente un insieme di forze che lasciate a sé conterebbero
zero o poco più”. I famosi “capitani” , i dirigenti che “in breve tempo possono
costruire un esercito”. E poi ancora:
3)“Un elemento medio. Che articoli il primo col terzo elemento, che li metta
a contatto, non solo ‘fisico’, ma morale e intellettuale”. Sono i cosidetti ‘quadri di
partito’.
Il modello di partito leninista e gramsciano è l’unico che oggi consente di
realizzare l’unità e l’autonomia di pensiero e azione rivoluzionaria della classe operaia
e di superare la trappola della falsa antitesi, costituita dal dilemma tra il “pensiero
unico” della borghesia e del capitale e la finta alternativa dei movimenti, della rete e
dell’isolamento individualista.
92
PARTE TERZA.
13) Csp-PARTITO COMUNISTA. 2^CONGRESSO. REGOLAMENTO
-Con la seduta del CC del 5 ottobre 2013 e le votazioni che hanno approvato il
documento politico, i cambiamenti dello Statuto, Regolamento finanziario ed il
seguente regolamento si apre la sessione congressuale che si concluderà con il
Congresso Nazionale che si terrà a Roma nei giorni 17/18/19 Gennaio 2014.
-La platea congressuale sarà composta da 300 delegati in rappresentanza dei circa
3.000 iscritti, con una misura di 1 delegato ogni 10 iscritti (da considerare come
calcolo politico e non burocratico). Sono previsti inviti a livello territoriale e
nazionale.
– L’elezione e la designazione dei delegati e degli invitati delle realtà territoriali in
accordo con la Direzione Nazionale si svolgerà col voto nelle Assemblee
precongressuali del Nord (Milano 3 Novembre), Centro (Roma 16 Novembre) e Sud
(Napoli 1Dicembre).
-Il numero dei delegati assegnati ad ogni Comitato Regionale verrà definito dalla
Direzione Nazionale sulla base dei cedolini degli iscritti consegnati alla Direzione
stessa entro la suddetta data del 5 Ottobre 2013.
-Tutta l’attività congressuale dei luoghi di lavoro e territoriale sarà finalizzata alla
discussione politica ed alla propaganda del documento politico. La definizione di
organismi dirigenti di qualunque livello territoriale sarà attivata dopo il Congresso
Nazionale, di concerto col Segretario Nazionale e con la nuova Direzione Nazionale
eletti al Congresso.
– I lavori del Congresso saranno così articolati:
17 Gennaio: ore 16/21 riunione della Direzione Nazionale uscente e relazione del
Segretario Nazionale
18 Gennaio: ore 10/13 accoglienza delegati ed invitati presso le strutture alberghiere;
ore 15/20 attività e discussione nelle tre Commissioni Politiche: “Lavoro e
Proletariato intellettuale”, “Partito e Gioventù”, “Relazioni internazionali, Donne e
Pionieri”; ore 21 cena sociale per tutti i delegati
19 Gennaio, presso il Centro Congressi Frentani a Via dei Frentani: ore 8/10 sessione
per soli delegati e votazione dei documenti congressuali ed elezione degli organismi
dirigenti; ore 10/12 sessione interventi del Congresso; ore 12.30 intervento conclusivo
del Segretario Nazionale.
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– I membri del CC e della CNGC sono a tutti gli effetti delegati di diritto al Congresso
Nazionale e saranno conteggiati internamente alla platea dei 300 delegati.
– La presidenza del Congresso è composta dai membri della Direzione Nazionale e
della CNGC uscente.
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14) STATUTO DEL PARTITO COMUNISTA
Preanbolo
Il PARTITO COMUNISTA è l’organizzazione politica rivoluzionaria
d’avanguardia della classe operaia italiana, nasce dall’esperienza di Comunisti Sinistra
Popolare e di comunisti variamente collocati e unisce lavoratori, donne e uomini che,
su base volontaria e di unità ideale, vogliono abbattere il capitalismo e lo sfruttamento
dell’uomo sull’uomo per costruire il Socialismo-Comunismo. Con questo fine si
impegna ad organizzare la classe operaia, le lavoratrici, i lavoratori ed il popolo per
arrivare all’attuazione piena del proprio programma politico.
Il Partito si fonda e si riconosce nel marxismo-leninismo, riconosce
l’esperienza storica dei Paesi socialisti, difende e valorizza la storia ed i valori del
movimento operaio e comunista, italiano e internazionale, dei principi ispiratori della
Costituzione del 1948 e della Resistenza al nazi-fascismo. Perseguendo la rivoluzione
socialista in Italia, il Partito lotta per una generale trasformazione socialista a livello
mondiale, in sintonia con la parte più coerente del Movimento Comunista
Internazionale, nello spirito dell’internazionalismo proletario e della solidarietà con le
classi operaie degli altri paesi e i popoli in lotta contro l’imperialismo e i monopoli.
Nella fase attuale di difficoltà e dispersione dei comunisti in Italia, l’obiettivo
è la costruzione di un grande Partito Comunista all’altezza dei compiti e dei tempi in
cui viviamo, collocato attivamente all’interno del Movimento Comunista
Internazionale, intransigente nella battaglia ideologica per la sua unità sulla base del
marxismo-leninismo, contro il riformismo, il revisionismo, l’opportunismo e la
socialdemocrazia.
Art.1-Adesione.
Possono iscriversi al PARTITO COMUNISTA donne e uomini, cittadini
italiani ed immigrati di ogni nazionalità che abbiano compiuto il quattordicesimo anno
di età, ne accettino l’impostazione ideologica, il programma politico e lo statuto, si
impegnino a dare attività in una delle sue strutture, paghino regolarmente la quota
tessera stabilita e siano presentati da almeno due compagni già iscritti.
L’iscrizione avviene presso la sezione del luogo di lavoro o di residenza,
rigorosamente su base individuale.
E’ istituito un periodo di candidatura a membro effettivo del Partito non inferiore a 3
(tre) mesi, per la necessaria valutazione delle qualità morali, dell’impegno politico e
del grado di maturità politico-ideologica del candidato da parte degli organismi
dirigenti dell’istanza di base competente, che può approvare o respingere il passaggio
a membro effettivo, oppure richiedere un supplemento di candidatura.
E’ incompatibile con l’adesione al Partito l’iscrizione ad altre organizzazioni
95
politiche e tanto più vietata l’adesione e la partecipazione ad associazioni segrete o
che comportino particolari vincoli di adesione (sette o logge massoniche). Fanno
eccezione:
– l’iscrizione di militanti, residenti all’estero, a partiti comunisti fratelli con i
quali esista un accordo per la reciprocità di iscrizione dei loro militanti
residenti in Italia, se consentita dai loro statuti. L’iscrizione deve comunque
essere approvata dagli organismi dirigenti;
– l’iscrizione di militanti di età fino a 30 anni al Fronte della Gioventù
Comunista.
– L’iscrizione ad associazioni di massa come il FUL, l’Anpi ecc.
Art.2- Diritti e doveri.
Ogni iscritto ha il diritto di:
– esprimere liberamente la propria opinione all’interno del Partito,
contribuendo alla elaborazione della sua linea politica;
– chiedere e ottenere informazioni e chiarimenti dagli organismi competenti
in merito alle decisioni politiche e alle questioni ideologiche;
– partecipare alla elezione degli organismi dirigenti;
esser eletto nelle istanze organizzative di qualsiasi livello.
Ogni iscritto è tenuto a:
– partecipare all’attività ed alle riunioni;
studiare gli atti e le pubblicazioni del Partito, migliorando costantemente la
propria preparazione politica e ideologica e la propria conoscenza del
marxismo-leninismo;
– svolgere attività di proselitismo e informazione politica nei luoghi di
lavoro, di formazione e nella società;
– rispettare il centralismo democratico e le decisioni prese dalla
maggioranza, contribuendo al rafforzamento della disciplina;
– esercitare costruttivamente la critica e l’autocritica, tipiche dello stile
comunista, in modo da rafforzare la democrazia interna;
– rappresentare il Partito e diffonderne la linea politica all’interno delle
organizzazioni sindacali e di massa di cui fa parte;
– mantenere il riserbo circa le discussioni interne, diffondendo all’esterno, in
particolare sui social network, alla stampa e ai mezzi di comunicazione di
massa, solo quanto definitivamente approvato come linea ufficiale del
Partito;
– vigilare e difendere il Partito in ogni sede, combattendo fermamente
l’eclettismo, l’infiltrazione di elementi ideologici borghesi e qualsiasi forma
di deviazione dal marxismo-leninismo, contribuendo così all’unità
organizzativa, politica e ideologica del Partito.
Art.3-Organizzazione.
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Il PARTITO COMUNISTA è organizzato in sezioni nei luoghi di lavoro e
territoriali, in comitati federali e regionali e nelle strutture organizzative centrali.
Art.4-La sezione.
La sezione di lavoro o di territorio è l’istanza di base. Deve esser costituita da
almeno 5 iscritti nei luoghi di lavoro e da almeno 10 iscritti in quella di territorio.
Elegge un segretario e può costituire una segreteria con incarichi esecutivi funzionali.
E’ consentita deroga nei territori esteri, dove, con l’approvazione della Direzione
Nazionale, il minimo di iscritti può essere inferiore.
Art.5-I comitati provinciali e regionali.
I comitati sono costituiti, di norma su base provinciale e regionale, (salvo
diversa conformazione dovuta ad esperienze politiche condivise nel tempo, ad es.
comitati metropolitani o più comitati nella stessa provincia). Entrambi possono dotarsi
di una segreteria esecutiva funzionale. Entrambi eleggono un segretario e un tesoriere.
Le Federazioni estere continentali sono equiparate al comitato regionale, quelle dei
singoli Paesi esteri ai comitati provinciali.
Art.6 –La gioventù.
Il PARTITO COMUNISTA riconosce il lavoro politico sulla questione
giovanile e si pone come obiettivo programmatico, impegnativo per tutti gli iscritti, la
creazione di un’organizzazione della gioventù comunista organica al Partito, fondata
sul marxismo-leninismo, sull’internazionalismo proletario e sull’antimperialismo,
come avanguardia del proletariato giovanile.
Art.7- La vita interna.
La vita interna del Partito è regolata dal centralismo democratico.Il dibattito
libero, la collegialità della direzione e la comunanza di intenti rappresentano i punti
fondanti del funzionamento interno del Partito, che si articola in base al principio della
verticalità delle decisioni, delle responsabilità e della comunicazione.
La linea politica e le decisioni stabilite sono vincolanti e devono venire
lealmente attuate da tutti. E’ espressamente vietata la costituzione di correnti o di
frazioni organizzate. L’esercizio della critica e dell’autocritica, nonché la condanna
del carrierismo, del frazionismo e delle forme di lotta interna classiche del
malcostume borghese sono altrettanti punti caratterizzanti la diversità della militanza
comunista.
Art.8- I congressi.
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Per ciascuna istanza organizzativa il massimo organo deliberativo è il
congresso.Viene convocato di norma ogni tre anni dal Segretario Generale o su
richiesta di un numero di componenti il Comitato Centrale non inferiore ai due terzi
dei suoi membri. Il Comitato Centrale ne promulga anche il regolamento.
Il congresso nazionale, costituito dall’Assemblea dei delegati, determina la
linea politica generale, delibera in materia di statuto e programma, elegge il Comitato
Centrale e la Commissione Centrale di Controllo e Garanzia. Analoghe disposizioni
sono stabilite per i congressi regionali, provinciali e di sezione, ad esclusione di
quanto riguarda le Commissioni di Controllo e Garanzia, non istituite a questi livelli.
Art.9- Modalità di voto.
Il voto è palese per ogni livello organizzativo, a meno che non sia richiesto
diversamente da almeno il 40% dei delegati presenti ed è valido se al momento della
votazione sono presenti almeno la metà più uno dei presenti. Tutte le decisioni, ad
esclusione delle modifiche statutarie, vengono approvate in base al principio della
maggioranza semplice.
Per le modifiche statutarie è richiesta la maggioranza qualificata dei due terzi
del Comitato Centrale e della Commissione Centrale di Controllo e Garanzia in seduta
plenaria con votazione e/o sottoscrizione.
I membri, dimissionari o decaduti dagli organismi dirigenti di ogni livello
possono essere sostituiti con voto a maggioranza semplice. Sono possibili cooptazioni
negli organismi dirigenti ad ogni livello nell’ordine di non più di un decimo dei
facenti parte.
Art.10-La Conferenza di Organizzazione.
In caso di particolare necessità, dovuta ad eventuali criticità del momento
politico, può venire convocata nel periodo che intercorre tra un congresso e l’altro,
con gli stessi criteri di delega che valgono per l’Assemblea dei delegati al Congresso
Nazionale La Conferenza di Organizzazione viene convocata e presieduta dal
Segretario Generale
Art.11- Il Comitato Centrale.
Il Comitato Centrale è l’organismo di direzione politica generale tra un
congresso e l’altro.. Elegge, in seduta comune con la Commissione Centrale di
Controllo e Garanzia, il Segretario Generale, il Tesoriere Centrale, la Direzione
Centrale ed ogni altra eventuale istanza organizzativa. Dopo la prima seduta
d’insediamento, viene convocato e presieduto dal Segretario Generale. In mancanza, la
sua convocazione può essere richiesta da un numero non inferiore ai due terzi dei suoi
membri effettivi.
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Art.12- La Direzione Centrale.
La Direzione Centrale è l’organo esecutivo che dirige il Partito tra una
convocazione e l’altra del Comitato Centrale, verifica la realizzazione della linea
politica, discute ed approva le candidature per le elezioni politiche nazionali,
amministrative locali ed europee, nomina i responsabili delle commissioni di lavoro
ed assegna altri incarichi funzionali centrali.
E’ presieduta e convocata dal Segretario Generale. Ne sono membri di diritto
il Segretario Generale, a cui viene assegnata la titolarità esclusiva del simbolo del
Partito, il Tesoriere Centrale, che assume la rappresentanza legale del partito, il
Presidente ed il Vicepresidente della Commissione Centrale di Controllo e Garanzia.
La Direzione Centrale è articolata in due uffici: l’Ufficio Politico, che dirige
il Partito tra una convocazione della Direzione e l’altra, composto principalmente da
compagni che ricoprono incarichi centrali, attinenti alle politiche generali del Partito,
e l’Ufficio d’Organizzazione, composto principalmente da Segretari regionali e di
grandi aree metropolitane, che si occupa dell’attuazione operativa delle decisioni e del
collegamento tra il centro e le organizzazioni locali. Il Segretario Generale presiede e
convoca entrambi gli Uffici.
Art.13- La Conferenza delle lavoratrici e dei lavoratori.
E’ istituita la Conferenza Nazionale delle Lavoratrici e dei Lavoratori. E’
coordinata dal Responsabile delle politiche del lavoro e convocata dal Segretario
Generale. Si riunisce per dibattere le questioni concernenti il mondo del lavoro e
l’impegno sindacale. La Conferenza è l’espressione del Fronte Unitario dei
Lavoratori, metodo di organizzazione dei lavoratori comunisti nei vari sindacati.
Art.14- La Commissione Centrale di Controllo e Garanzia.
La Commissione Centrale di Garanzia e Controllo concorre, insieme agli altri
organismi dirigenti, alla crescita del Partito e, in tal senso, fa riferimento e richiama
alle più alte motivazioni ideali che da sempre costituiscono il patrimonio essenziale
del costume comunista.
La Commissione vigila sull’applicazione dello Statuto, sulla correttezza e
conformità dei comportamenti dei membri e dei dirigenti del Partito, sia all’interno
che all’esterno di esso, sul rispetto della linea politica adottata, sul radicamento
dell’ideologia marxista-leninista all’interno del Partito. Essa è composta da cinque
membri ed elegge al suo interno il Presidente e un Vicepresidente Vicario, entrambi
con diritto di voto all’interno degli organismi dirigenti, a differenza degli altri suoi
componenti che hanno solo diritto di parola.
La Commissione decide di ogni questione disciplinare, di applicazione e di
interpretazione dello statuto, nonché di eventuali contenziosi sorti a livello territoriale.
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Può inoltre sciogliere, di concerto con il Segretario Generale e la Direzione Centrale,
gli organismi politici territoriali, affidandone la gestione ad un commissario, che ha il
compito, per un periodo di tempo prefissato, di garantirne la continuità politica e
finanziaria fino ad un nuovo congresso territoriale.
Art.15- Le sanzioni disciplinari.
Si ricorre a sanzioni disciplinari solo dopo aver esperito tutti i tentativi
politici necessari ad evitare la via disciplinare, previa comunicazione all’interessato.
Le sanzioni disciplinari sono articolate in:
– richiamo formale;
– sospensione temporale dall’organizzazione e/o dagli incarichi direttivi;
– espulsione;
– radiazione.
L’eventuale sospensione cautelare non costituisce sanzione disciplinare, ma viene
decisa per tutelare l’organizzazione e/o il compagno interessato. Non è contemplata
l’autosospensione.
L’elezione negli organismi dirigenti di qualsiasi livello avviene sulla base del
riconoscimento delle capacità e dell’impegno dello stesso, non per sola
rappresentatività territoriale e comporta l’assunzione della relativa responsabilità da
parte del compagno eletto nei confronti del Partito. Pertanto, dopo 3 (tre) assenze
consecutive alle convocazioni dell’organismo di appartenenza, ancorché giustificate,
constatata l’oggettiva impossibilità, comunque motivata, a ricoprire efficacemente il
ruolo dirigente, l’assente decadrà automaticamente e potrà essere sostituito.
Art.16- La Conferenza dei Tesorieri.
E’ istituita la Conferenza Nazionale dei Tesorieri. Si riunisce su
convocazione del Tesoriere Centrale. Ha il compito strategico di programmare e
gestire l’autofinanziamento, con obbligo di rendiconto al Comitato Centrale e alla
Direzione Centrale.
Art.17- L’autofinanziamento.
L’autofinanziamento è il mezzo fondamentale di sostentamento del
PARTITO COMUNISTA che fa della critica della odierna politica di mestiere uno dei
cardini della propria proposta politica.
Il tesseramento, le quote di autofinanziamento obbligatorie per i gruppi
dirigenti di ogni livello, le feste popolari e le altre attività di sottoscrizione popolare
costituiscono l’ossatura fondamentale del reperimento delle risorse economiche.
Per l’autofinanziamento è previsto un apposito regolamento più dettagliato,
allegato al presente statuto. Il bilancio ogni anno verrà predisposto a livello nazionale
e locale, discusso ed approvato dagli organi competenti: il bilancio nazionale dalla
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Direzione Centrale e dalla Conferenza dei Tesorieri, quelli locali dai comitati regionali
e provinciali), per favorire il controllo e la gestione democratica delle risorse.
Art.18-Le cariche pubbliche elettive.
Le cariche pubbliche elettive non sono il fine della prassi politica comunista.
Le elezioni a qualunque livello costituiscono una verifica del lavoro svolto e
un’occasione di tribuna per meglio propagandare le posizioni dei comunisti. Agli
eventuali gruppi consiliari o parlamentari non è consentita alcuna autonomia politica
organizzativa dal Partito, che resta sovrano nel decidere la linea politica e la sua
attuazione anche nelle assemblee elettive.
Qualunque carica elettiva, conseguita in nome e per conto del PARTITO
COMUNISTA può essere retribuita con una somma comunque non superiore allo
stipendio di un lavoratore in trasferta. La restante parte dell’indennità percepita e di
ogni altra voce di rimborso deve essere versata direttamente al tesoriere dell’istanza
territoriale corrispondente. L’impegno va sostenuto con un apposito regolamento che
verrà redatto ad ogni singola elezione da parte del Tesoriere Centrale di concerto con
la Commissione Centrale di Controllo e Garanzia. Le cariche, derivanti da candidature
del PARTITO COMUNISTA nelle assemblee elettive, non sono cumulabili.
Art.19 – Tessera, simboli e inni.
La tessera debitamente sottoscritta dall’iscritto attesta la regolare iscrizione e
impegna il militante al lavoro politico.
Dopo la presentazione alle elezioni politiche del 2013 il simbolo elettorale è
il seguente: “Cerchio di colore grigio, con inscritto un quadrato con stella, falce e
martello di colore bianco al centro su sfondo rosso. All’interno del quadrato, nella
parte inferiore (sotto la stella, falce e martello) vi è dapprima la scritta ‘PARTITO’ in
colore bianco, più in basso la scritta ‘COMUNISTA’ in colore bianco su fascia nera”.
Il simbolo è nella disponibilità, per elezioni nazionali e locali, del Segretario
Nazionale che può delegare altri compagni per l’uso a livello territoriale. Gli inni del
PARTITO COMUNISTA sono l’Internazionale e Bandiera Rossa.
Art.20- Disposizioni finali.
Il seguente statuto regola la vita del PARTITO COMUNISTA dal secondo al
terzo Congresso e, in tale periodo, può esser modificato solo con votazione o con
sottoscrizione superiore ai due terzi dei membri del Comitato Centrale.
101
15) REGOLAMENTO FINANZIARIO
Principi Ispiratori
A questo Regolamento Finanziario e’ affidato il compito di stabilire e
disciplinare le modalità di acquisizione delle attività economiche e patrimoniali con
relative modalità di spesa e di impiego, partendo dal principio della economicità di
gestione, al fine di assicurare equilibrio finanziario e patrimoniale.
Attraverso questo regolamento, il tesoriere gestisce e organizza amministrativamente e
contabilmente l’organizzazione e le risorse a disposizione, compreso il patrimonio,
con vincoli che consentono preventivamente l’equilibrio finanziario sia in sede
previsionale che a consuntivo.
Art. 1 Ambito di applicazione
Questo regolamento disciplina in materia economica, finanziaria e
patrimoniale il rapporto tra Organizzazione Centrale e le articolazioni regionali, nel
rispetto della loro autonomia statutaria.
Art. 2 Figura del Tesoriere e suo rapporto con i regolamenti e i Tesorieri regionali.
a- Ogni articolazione regionale elegge un Tesoriere che è il legale rappresentante
della stessa.
b- Ogni regolamento regionale deve essere dotato di una parte finanziaria e stabilire
i poteri assunti dal Tesoriere.
c- Gli stessi regolamenti devono ispirarsi ai criteri di gestione che fanno capo al
regolamento e allo statuto nazionale dell’organizzazione.
d- Il Tesoriere Centrale entro 30 gg. dall’approvazione del regolamento finanziario
delle articolazioni regionali, o di una sua modifica, ne attesta la conformità.
Art. 3
Principio dell’autofinanziamento.
a- Tesseramento per i componenti il Comitato Centrale: oltre alla quota tessera
annuale é prevista una quota di autofinanziamento proporzionale al proprio reddito
mensile (ad esclusione dei disoccupati e studenti) da versare con bonifico bancario
AUTOMATICO trimestrale sulla base di scaglioni progressivi:
Fino a 1500.00 euro di reddito mensile l’1,5%
Da 1501.00 a 3000.00 euro il 2,5%
Da 3001.00 a 5000.00 euro il 4%
Oltre 5000.00 euro di reddito mensile il 7%.
b- Tesseramento nei comitati regionali, provinciali, di zona e di sezione con tessera
annuale e con quota di autofinanziamento proporzionale al reddito mensile identica al
Comitato nazionale salvo diversa ed autonoma scelta degli organismi locali.
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Alle organizzazioni periferiche del Partito resta il 90% dell’incasso complessivo per il
Tesseramento, il restante 10% va versato alla Tesoreria Nazionale a mezzo bonifico.
c- Le altre fonti di autofinanziamento, come feste, cene , sottoscrizioni devono
prevedere l’assegnazione del’80% del ricavato netto a beneficio delle articolazioni
periferiche ed il restante 20% alla Tesoreria nazionale a mezzo bonifico.
d- La responsabilità dell’autofinanziamento non e’ solo dei Tesorieri ma anche
degli organismi dirigenti periferici ad ogni livello.
In caso di inadempimento, la Commissione di Controllo e Garanzia Nazionale viene
immediatamente informata.
Art. 4 Quota tessera di iscrizione
Le iscritte e gli iscritti hanno l’obbligo di sostegno finanziario alle attività politiche
dell’Organizzazione, attraverso la loro quota di tesseramento.
A scadenza annuale, la Direzione Centrale su proposta del Tesoriere Centrale, sentita
la Conferenza dei Tesorieri regionali, stabilisce la quota minima per l’iscrizione
all’organizzazione. Le stesse saranno acquisite al patrimonio delle articolazioni
periferiche secondo i criteri stabiliti dall’Art.3.
Art.5 Erogazioni liberali
Ogni organizzazione periferica può ricevere erogazioni liberali, anche allo scopo di
realizzare progetti specifici e campagne di autofinanziamento.
Ciò dovrà essere regolato attraverso i criteri e modalità stabiliti dal regolamento
finanziario regionale.
Art. 6 Etica degli eletti in organismi istituzionali
Gli eletti in organismi istituzionali , in rispetto del codice etico, sono tenuti a versare
all’organizzazione il contributo d’intesa tra il Tesoriere Centrale e gli stessi, secondo
le norme dello Statuto.
Art. 7 Feste manifestazioni ed altri eventi.
a- Le manifestazioni e gli eventi che ogni organizzazione periferica metterà in
essere, allo scopo di reperire risorse finanziarie dovranno essere preventivante
concordati con le altre articolazioni interessate, con le quali, si potranno altresì
stabilire i criteri di ripartizione degli eventuali proventi.
b- I simboli riferiti all’organizzazione possono essere utilizzati dalle articolazioni
periferiche salvo opposizione del legale rappresentante dell’organizzazione.
Art. 8 Modalità di spesa.
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a- L’articolazione delle modalità di spesa dell’organizzazione, saranno regolate in
riferimento alle metodologie tipiche della contabilità finanziaria.
b- Al Tesoriere spetta il compito di redigere il bilancio preventivo, e in base al
bilancio assegnare, in via provvisoria, la disponibilità alle unità organizzative dotate
della facoltà di impegnare tali risorse.
Le unità organizzative saranno individuate dal Tesoriere Centrale.
c- L’assegnazione delle disponibilità provvisorie sarà conseguente alla
presentazione ad opera del responsabile di ogni unità organizzativa di una previsione
di spesa relativa al programma di attività politica.
d- L’entità’ dell’assegnazione sarà proposta dal Tesoriere e approvata dal Comitato
di Tesoreria , e costituirà per l’unita’ organizzativa vincolo da rispettare in via
definitiva per il proprio programma di attività politica.
e- Stabilita l’assegnazione all’unita’ organizzativa, ciascuna spesa potrà essere
effettuata soltanto a seguito di proposta sottoposta al Tesoriere, che con la sua
autorizzazione, la trasformerà in impegno di spesa.
f- I singoli programmi di attività verranno sottoposti a revisione trimestrale del
Tesoriere Centrale, e dovranno riportare gli impegni assunti con le relative spese
effettuate, al fine di verificare la tenuta degli equilibri.
Questa verifica si dovrà effettuare anche sul bilancio preventivo generale e
successivamente sottoposta al Comitato di Tesoreria.
g- Entro 60 gg. dall’entrata in vigore del presente regolamento, il Tesoriere
Centrale redige ulteriore regolamento che stabilisce i criteri di approvazione delle
spese ed impegni di spesa relativi alle trasferte sostenute per lo svolgimento delle
attività a carico del bilancio dell’organizzazione.
h- Al fine di una corretta contabilizzazione, i costi sostenuti dovranno essere
supportati da idonea documentazione contabile.
Art. 9 La Conferenza dei Tesorieri regionali.
a- Si istituisce una Conferenza composta dal Tesoriere Centrale e dai Tesorieri
regionali, con la funzione di coordinamento dell’attività amministrativa e finanziaria.
Questo nel rispetto delle singole autonomie.
b- La Conferenza dei Tesorieri, si riunisce di norma tre volte l’anno, con lo scopo di
coordinare ed illustrare gli indirizzi della Tesoreria Centrale.
Essa e’ convocata ad opera del Tesoriere Centrale.
c- La Conferenza può essere convocata anche straordinariamente, in seguito a
richiesta supportata dagli argomenti dell’ordine del giorno da discutere. La
Conferenza e’ presieduta dal Tesoriere Centrale.
Art. 10 Contratti bancari e postali, movimentazioni finanziarie.
a-I contratti bancari e postali dovranno riportare l’intestazione dell’articolazione dalla
quale e nel cui interesse e’ stato stipulato(ad esempio il Comitato regionale)
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b-Ogni operazione di spesa e di incasso effettuata dal Tesoriere Centrale o dal
Tesoriere dell’articolazione regionale deve avvenire attraverso bonifico bancario o
assegno bancario nel rispetto delle norme sul finanziamento pubblico, delle norme
antiriciclaggio e di quelle di legge, applicabili.
Art. 11 Organizzazione amministrativa e contabile.
a- La contabilità dell’organizzazione e’ ispirata ai principi della contabilità
economico- patrimoniale previsti dalle norme del codice civile per le società per
azioni, con lo strumento della partita doppia. Annualmente si procede alla redazione
del bilancio conforme allo Statuto e alle norme di Legge in riferimento alle
organizzazioni politiche.
b- Al Tesoriere spetta il compito di elaborare un piano dei conti della tenuta della
contabilità da sottoporre all’approvazione del Comitato di Tesoreria in primis, e
successivamente alle articolazioni periferiche dell’organizzazione con lo scopo di
agevolare l’omogeneità’ dell’amministrazione in tutto il territorio nazionale.
Art. 12 Bilancio preventivo e consuntivo.
a- Le articolazioni periferiche beneficiarie di contribuzioni in denaro da parte della
Tesoreria Centrale, dovranno conferire alla stessa il bilancio consuntivo entro 15 gg.
dalla sua approvazione.
b- A fine anno, un mese prima dell’approvazione del bilancio dell’organizzazione,
il Tesoriere elabora il bilancio annuale e il rendiconto delle risultanze a consuntivo del
bilancio di previsione, da sottoporre all’approvazione del Comitato di Tesoreria.
c- Ad avvenuta approvazione del rendiconto, il Tesoriere verifica il bilancio di
previsione relativo all’anno in corso.
Art. 13 Rapporti di lavoro
Di norma non sono previsti rapporti di lavoro in quanto si vuole evitare la politica di
mestiere. In casi eccezionali è richiesto un voto della Direzione Centrale su proposta
del Tesoriere Centrale e comunque la eventuale regolamentazione dei rapporti di
lavoro tra organizzazione centrale e articolazioni periferiche, sarà disciplinata da uno
specifico regolamento del personale.
Art. 14 Norme applicabili.
Ciò che non e’ previsto dal presente regolamento, si deve riferire alle norme dello
Statuto dell’organizzazione. Il presente regolamento ha validità a decorrere dal 20
Gennaio 2014.