L’esortazione apostolica post-sinodale “Amoris Laetitia” è certamente uno dei documenti più importanti prodotti dal magistero della Chiesa cattolica negli ultimi anni e segna una svolta nel pontificato di Francesco I. Tuttavia, l’importanza di questo documento non è di carattere dottrinale ma pastorale, che è quanto dire di natura pratica, non teoretica. L’impianto filosofico dell’“Amoris Laetitia” resta infatti, come è consolidata tradizione della Chiesa cattolica, di ispirazione solidamente aristotelico-tomistica. Rispetto ai lavori del Sinodo sulla famiglia, che l’ha preceduta e largamente ispirata, questa “esortazione apostolica” del papa è rimasta entro i limiti segnati dal Sinodo. Così, come in questo non è stata fatta esplicitamente menzione dell’ammissibilità alla comunione o alla confessione nel caso dei divorziati risposati, non la si fa nemmeno nel documento in parola, dove parecchi paragrafi non sono altro che una citazione dei testi delle due relazioni introduttive, senza alcun commento. La prudenza dottrinale su un tema nevralgico è palesata dal passo in cui il papa non fa altro che ripetere l’affermazione del Sinodo del 2015: “Occorre perciò discernere quali delle diverse forme di esclusione attualmente praticate in ambito liturgico, pastorale, educativo e istituzionale possano essere superate” (“Amoris lætitia”, par. 299).
In realtà, di fronte ad un processo di progressiva destrutturazione della famiglia prodotta dalla logica spietata della ricerca del massimo profitto e della privatizzazione sempre più invasiva delle risorse collettive, che caratterizza il capitalismo monopolistico, la risposta che viene formulata è estremamente semplice e tradizionale nel suo afflato evangelico: “Amoris Lætitia”. L’obiettivo del testo, dunque, non è rivoluzionare la Chiesa, ma rilanciare, sull’aspro e frastagliato terreno della crisi storica della famiglia che attanaglia l’Occidente capitalistico, la linea della centralità della “misericordia” che caratterizza il magistero dell’attuale pontefice. Non a caso il papa mette in guardia, all’inizio di questo ampio documento (composto da duecentosessanta pagine, nove capitoli e 325 paragrafi), rispetto a due interpretazioni sbagliate, indicando la solita linea accortamente mediana e sagacemente opportunistica della Chiesa: “I dibattiti che si trovano nei mezzi di comunicazione o nelle pubblicazioni e perfino tra i ministri della Chiesa vanno da un desiderio sfrenato di cambiare tutto senza sufficiente riflessione o fondamento, all’atteggiamento che pretende di risolvere tutto applicando normative generali o traendo conclusioni eccessive da alcune riflessioni teologiche”. La conclusione che il papa ricava da queste premesse sostanzialmente moderate e conservatrici non apre ad alcun cambiamento, ma semmai ad un processo di riflessione governato dal “discernimento” (termine chiave di questo testo), operante all’interno di “un’unità di dottrina e di prassi” ancorata alle variabili delle diverse culture e tradizioni.
Le parti del documento in cui si avverte l’accento più personale di Francesco I si trovano nei capitoli quarto e quinto, dove, ad esempio, egli cita ampiamente la teologia del corpo e dell’amore coniugale, richiamata nell’enciclica “Humanae vitae” di Karol Wojtyla, teologia praticamente ignorata nei sinodi. Il papa così delinea la sua ‘terapia’ e insieme la sua strategia di riconquista e di evangelizzazione dell’Occidente, con un particolare riferimento alle nuove generazioni (par. 211): “La pastorale prematrimoniale e la pastorale matrimoniale devono essere prima di tutto una pastorale del vincolo, dove si apportino elementi che aiutino sia a maturare l’amore sia a superare i momenti duri. Questi apporti non sono unicamente convinzioni dottrinali, e nemmeno possono ridursi alle preziose risorse spirituali che sempre offre la Chiesa, ma devono essere anche percorsi pratici, consigli ben incarnati, strategie prese dall’esperienza, orientamenti psicologici. Tutto ciò configura una pedagogia dell’amore che non può ignorare la sensibilità attuale dei giovani, per poterli mobilitare interiormente”. In una prospettiva essenzialmente pastorale (Francesco I è, per così dire, un ‘papa di parrocchia’, fortemente legato alle situazioni concrete in cui si trova ad agire il clero secolare) si collocano perciò sia l’interessante riflessione sulla teoria del “gender” (par. 56) sia la raccomandazione di superare un sentimentalismo dell’amore, che richiede un’adeguata educazione sessuale (parr. 280-286). In realtà, il papa è pienamente cosciente di dover operare in quell’“ospedale da campo” cui paragona il lavoro della Chiesa (par. 291), di cui in tal modo riconosce l’indispensabile funzione sussidiaria e complementare (oppiacea, per usare la terminologia marxiana) di aiuto, integrazione, addolcimento e legittimazione di quel “regno animale dello spirito” che è il capitalismo contemporaneo. La famiglia diviene pertanto, nella visione falso-ingenua di questo papa, il modello di una società ordinata: un modello dal forte sapore corporativo e neo-medievale. Così, come ha detto papa Bergoglio a Santiago de Cuba il 2 settembre 2015, le famiglie “non sono un problema, sono principalmente un’opportunità” (par. 7) e la Chiesa viene definita autentica “famiglia di famiglie” (par. 87).
In conclusione, il grande assente di questo documento papale, che non può essere surrogato dalle generose dosi di enfasi retorica sull’amore e sulla famiglia come “doni di Dio” e come garanzie di salvezza per i cristiani fedeli e caritatevoli, è il capitalismo, ossia quel sistema di produzione e di scambio il cui impatto distruttivo sulla famiglia viene così descritto nel “Manifesto del partito comunista” di Marx ed Engels: “Ma voler abolire la famiglia! Perfino i più avanzati fra i radicali si indignano per tale obbrobrioso proposito dei comunisti. Su che cosa si fonda l’attuale famiglia borghese? Sul capitale, sul guadagno personale. Essa esiste nel suo pieno sviluppo solo per la borghesia; ma essa trova il suo complemento nella mancanza forzata della vita di famiglia presso i proletari, e nella prostituzione pubblica. La famiglia del borghese cadrà naturalmente col venir meno di tale complemento ed entrambe spariranno con lo sparire del capitale. Voi ci rimproverate di voler abolire lo sfruttamento dei fanciulli da parte dei genitori? Noi questo delitto lo confessiamo volentieri. Ma voi dite che noi infrangiamo i più sacri legami perché all’educazione domestica sostituiamo quella sociale. Ma la vostra educazione non è anch’essa determinata dalla società e cioè dalle condizioni sociali all’interno delle quali voi educate, e dall’intervento più o meno diretto od indiretto della società stessa, per mezzo della scuola? Non sono i comunisti che inventano l’azione della società sull’educazione: essi ne mutano soltanto il carattere, sottraendo l’educazione all’influsso della classe dominante. Le dichiarazioni borghesi sulla famiglia, sull’educazione e sui dolci legami che uniscono i figli ai genitori diventano sempre più nauseanti quanto più, per effetto della grande industria, i legami di famiglia si perdono del tutto tra i proletari, e i fanciulli si trasformano in articoli di commercio e in strumenti di lavoro. Ma voi comunisti, così grida in coro la borghesia tutta intera, voi volete introdurre la comunanza delle donne. II borghese vede nella moglie un semplice strumento di produzione. Ora, nel sentire che gli strumenti di produzione saranno sfruttati in comune, esso non può fare a meno di pensare che la stessa sorte dell’uso in comune debba toccare anche alle donne. E non capisce affatto che si tratta precisamente di togliere alla donna il carattere di uno strumento di produzione. Del resto non c’è nulla di così grottesco quanto l’orrore da moralisti raffinati col quale i nostri borghesi guardano la pretesa comunanza delle donne, che avrebbe presso i comunisti un carattere ufficiale. I comunisti non hanno assolutamente bisogno di introdurre la comunione delle donne, perché questa è quasi sempre esistita. I nostri borghesi, non contenti di avere a loro disposizione le mogli e le figlie dei loro proletari – per non parlare della prostituzione ufficiale – hanno come divertimento principale quello della reciproca seduzione delle loro consorti. II matrimonio borghese è, in realtà, la comunanza delle donne. Tutt’al più si potrebbe rimproverare ai comunisti di voler sostituire alla comunione delle donne dissimulata con ipocrisia, una ufficiale e sincera. Ma si capisce poi del resto che, aboliti gli attuali rapporti di produzione, sparirebbe allo stesso tempo la presente comunanza delle donne, che da quei rapporti deriva, quindi la prostituzione ufficiale e la non ufficiale”. La bontà e l’amore, così come una famiglia sana, solidale e serena, potranno fiorire solo quando, in una società senza classi, saranno estirpate per sempre le radici dell’oppressione e dello sfruttamento che generano incessantemente l’odio, la cattiveria e la dissociazione.
Eros Barone